“OLTRE LA LINEA” A CURA DI SIMONETTA BISI E NICOLA R. PORRO – NOI E GLI ALGORITMI (1)

di SIMONETTA BISI

Noi siamo essenzialmente creature sociali e raggiungiamo le nostre più grandi aspirazioni quando lavoriamo insieme, non come singoli individui. Eppure, oggi, un ethos antiumano ha superato la nostra società, minando la nostra capacità di connetterci. Le tecnologie che avevano lo scopo di promuovere la cooperazione troppo spesso vengono utilizzate per sfruttarci e dividerci.

(Team Human – premiato in Usa come libro dell’anno – di Douglas Rushkoff, teorico digitale).

Nessuno di noi è indenne da una qualche dipendenza dalle nuove tecnologie, che sfruttano il nostro bisogno di evolverci, di conoscere, di capire. Abbiamo sviluppato la necessità di essere consapevoli di tutto ciò che di importante sta accadendo, sia in un ristretto gruppo amicale sia a scala mondiale. Le tecnologie che avevano lo scopo di promuovere la cooperazione hanno però travisato presto il loro compito. Hanno capito che potevano essere utilizzate per scopi diversi, diventare un volano per l’arricchimento attraverso tecniche pubblicitarie che danno l’illusione di essere liberi di scegliere, e spesso anche di “credere”, a ciò che circola sul web, fino a orientarne pensiero e comportamento.

Come ci siamo arrivati?

Se ripercorriamo la storia degli sviluppi tecnologici, vediamo come ogni passo in avanti qualcosa ci abbia sempre dato e qualcosa ci abbia sottratto.

SIMO 1

I primi strumenti interattivi, come il telecomando della televisione, hanno cambiato il nostro rapporto con la programmazione.  Invece di alzarsi, avvicinarsi all’apparecchio e ruotare una manopola per cambiare programma, il telecomando ci consente di farlo con il micromovimento di un solo dito. Quando la televisione via cavo ha ampliato le offerte, ci siamo trovati a guardare di meno un determinato programma TV, per passare compulsivamente da un canale all’altro, da una trasmissione a un’altra, spesso però perdendo le tracce di quello che tra un clic e un altro avevamo visto. In quel periodo sono fiorite molte barzellette su chi gestiva in famiglia il telecomando, ed è nata la parola zapping, che ha trovato posto nella Treccani con questa accezione: “Cambiamento continuo, rapido passaggio da un canale all’altro della televisione, premendo quasi freneticamente i tasti del telecomando per passare in rassegna i diversi programmi, specialmente durante le interruzioni pubblicitarie, alla ricerca di un programma interessante”.

Saltando il passaggio al joystick che ha trasformato la televisione in una consolle di gioco, ai video registratori che hanno rotto il monopolio dei programmi televisivi, arriviamo alla tastiera, al mouse e a Internet.

SIMO 2

I primi computer potevano essere controllati con semplici comandi digitati. Imparare a usare un computer era la stessa cosa che imparare a programmarlo. Ma la tecnologia presto ha reso tutto più facile: per scaricare un software basta seguire la procedura guidata, per copiare tagliare incollare si clicca sull’icona. L’industria tecnologica mentre semplifica e agevola, rafforza il ruolo dei suoi utenti come consumatori passivi, riducendone l’autonomia.

Tutto ciò è possibile, come sappiamo, grazie a Internet. La Rete permette collegamenti a livello planetario e rende disponibile agli utenti una lunga serie d’informazioni in varie forme (immagini, filmati, ipertesti, musica, posta elettronica).

Internet nasce libera. Nelle prime piattaforme di discussione non c’era il tempo reale. Gli utenti scaricavano le discussioni in rete, le leggevano off-line e componevano una risposta dopo una attenta riflessione. Quindi accedevano di nuovo alla rete, caricavano il contributo e aspettavano di vedere cosa ne pensavano gli altri.

Sembrò diventare possibile creare uno spazio virtuale dove le persone offrivano il meglio di sé stesse, le conversazioni erano di qualità e per ottenere l’accesso alle varie piattaforme, gli utenti dovevano firmare digitalmente un accordo per non impegnarsi in alcuna attività commerciale. La pubblicità era espressamente vietata. Anche la ricerca aziendale e le piattaforme social che in seguito sono arrivate a monopolizzare la rete originariamente hanno promesso di non consentire mai la pubblicità perché avrebbe contaminato la cultura umanistica che stavano creando.

Non è durato molto.

Quell’obiettivo più alto era del tutto non redditizio.  Si capì presto che Internet poteva favorire la crescita dell’economia, così motori di ricerca progettati per promuovere il pensiero accademico si trasformarono in potenti agenzia pubblicitarie, e una piattaforma di social media progettata per aiutare le persone a connettersi è diventata il più grande raccoglitore di dati del mondo.

Viviamo in quella che Rushkoff chiama “L’economia dell’attenzione”, imposta digitalmente, in cui i profitti di un’azienda dipendono dalla sua capacità di strappare “ore di sguardi” agli utenti. 

E oggi si insegna nelle università quella che si chiama “tecnologia persuasiva”, il cui obiettivo è generare cambiamenti comportamentali e formazione di abitudini, il più delle volte senza la conoscenza o il consenso dell’utente.

SIMO 3

Ogni nuova rivoluzione mediatica sembra offrire nuove opportunità: anche il telefonino è diventato un minicomputer, si possono scaricare app per vari servizi e giochi, e connettersi in qualsiasi momento con quei social (Facebook, tweeter, Instagram, guarda caso appartenenti tutte a un unico proprietario) che dovrebbero rafforzare i nostri legami sociali.

Vi ricorriamo anche, se non soprattutto, per conoscere le scelte di qualcosa che vorremmo comprare, per inseguire offerte commerciali scontate, per ottenere facilmente informazioni su qualsiasi cosa ci venga in mente. Su Internet si trova tutto, e si può sapere tutto.

Quando accettiamo lo schermo come una finestra sulla realtà, è probabile che accettiamo le scelte che offre. Ma che dire delle scelte che non offre? Davvero non esistono?

Per esempio, dovendo scegliere un ristorante, il motore di ricerca mi segnala subito quelli nella mia zona, con annesse valutazioni, così posso scegliere quello che mi sembra vada bene per me. Ci siamo mai chiesti se sono tutti? No, sono presenti solo quelli che hanno pagato per essere trovati.

E questo avviene sempre: si offrono agli utenti opzioni al fine di simulare l’esperienza di scelta senza che l’utente eserciti una vera autonomia.

Nessuna di queste scelte è reale, perché ognuna porta inevitabilmente al risultato che i designer hanno predeterminato per noi. Poiché le interfacce sembrano neutre, accettiamo le opzioni che ci offrono. Ma le scelte non sono affatto scelte, sono un modo nuovo di farci accettare i limiti. Chi controlla il menu controlla le scelte. Il design persuasivo sfrutta anche il nostro condizionamento sociale. Se su Facebook, ad esempio, faccio parte di un gruppo, voglio essere informato, mantenermi aggiornato, commentare, fare gli auguri ai compleanni e così via. Come l’esperienza giornaliera di ciascuno di noi conferma. Nelle mani del professionista della conformità, questa “paura di perdere informazioni” fornisce accesso diretto ai nostri trigger comportamentali. Il neuro marketing insegna che il trigger è lo stimolo, l’azione del marketer per influenzare la risposta del target verso un comportamento utile per il raggiungimento degli obiettivi aziendali. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno sono alcune indicazioni che stimolino la nostra curiosità, ci spingano online, interrompendo qualsiasi cosa stessimo facendo. Quindi i designer mettono un punto rosso con un numero sopra l’icona di un’app per assicurarsi che sappiamo che qualcosa sta accadendo, i commenti si stanno accumulando o un argomento è di tendenza.

Le esperienze degli utenti sono anche progettate per innescare il nostro bisogno sociale di ottenere approvazione dal gruppo di amici, così da soddisfare il proprio ego e quella parte di narcisismo presente in ogni essere umano. Cerchiamo un numero elevato di “Mi piace” e “follower” sulle piattaforme social perché queste metriche spesso sono l’unico modo che abbiamo per misurare la nostra accettazione sociale. Però, anche se differenziate da una serie di emoticons, non c’è differenza di intensità tra un like e l’altro. Non possiamo sapere se siamo veramente amati; possiamo solo sapere se siamo piaciuti a molti. Allo stesso modo, quando a qualcuno piace qualcosa che abbiamo “postato” o chiede di essere nostro “amico” su un social network, ci sentiamo socialmente obbligati a restituire il favore.

La rete così si è legata ai nostri corpi sotto forma di smartphone e dispositivi indossabili che possono pungolarci o farci vibrare per portare l’attenzione a nuove notifiche e aggiornamenti, titoli e risultati sportivi, messaggi sui social media e commenti casuali. Si finisce di vivere in uno stato di interruzione perpetua e l’unica soluzione è silenziare o spegnere il telefonino. Azione contrastata dall’ansia: se poi succede qualcosa? Se arriva una e-mail? Se…

SIMO 4

In qualche decennio lo scopo principale di Internet è cambiato, dal sostenere un’economia della conoscenza alla crescita di un’economia dell’attenzione. Invece di aiutarci a sfruttare il tempo a nostro vantaggio intellettuale, è stato convertito in un mezzo “sempre acceso”, configurato a vantaggio di coloro che volevano commercializzarci o tracciare le nostre attività. Ora sappiamo, senza alcun dubbio, che siamo più stupidi quando utilizziamo smartphone e social media. Comprendiamo e conserviamo meno informazioni, comprendiamo con minore profondità e prendiamo decisioni più impulsivamente di quanto non facciamo altrimenti. Questo stato mentale libero, a sua volta, ci rende meno capaci di distinguere il reale dal falso, il compassionevole dal crudele e persino l’umano dal non umano.  Quando siamo online, la gran parte delle decisioni che prendiamo sono selezionate, analizzate e proposte a noi da un computer, un algoritmo. Oggi ci governano gli algoritmi. I veri nemici del Team Human, secondo Ruskhov, non sono solo le persone che stanno cercando di programmarci, ma gli algoritmi che li aiutano a farlo, e non solo per condizionarci a certi acquisti.

SIMONETTA BISI