AUTUNNO IN MAREMMA
di CARLO ALBERTO FALZETTI ♦
L’autunno era sopraggiunto con le sue giornate uggiose calando le umide nebbie lungo i valloni di Mont’auto.
La pietrosa Roccaccia abbracciata d’ogni parte dal fitto dell’edera era accigliata e nascosta fra i lecci e le sughere. Era essa” la su’ tana” imprendibile. La usava per ripararsi dalla sgualdrina del vento e dalla pioggia nei mesi tristi, preferendo nei periodi della calura l’antro a monte del fosso del Paternale. Stradava in primavera lungo i tratturi fin verso le capanne dei pastori per ricevere ricotta e formaggi e “pè respirà” l’aria fine della maremma in fiore.
Meco tormentato dal freddo die’ di piglio ad una fascina e la lanciò nello smunto focarello. Il fumo saliva lento ma lui non aveva timore: i gendarmi erano comodamente rintanati nelle cucce delle loro caserme e non osavano di certo sfidare i primi freddi dell’autunno..
I pensieri che lo investivano lui li incarnava in parole sbiascicate, bofonchiando suoni senza che nessuno ne fosse all’ascolto. Così gli sembrava di sentirsi meno solo.
Un pensiero lo struggeva di più. Ma perché quei mancianesi l’appellavano “Menichino”?
Gli sembrava uno sgarbo quel nomignolo sciatto. Un cellerese schietto come lui ”nun s’à da chiamà che Meco”, Dio di qua e Dio di là.
D’un tratto si scosse impaurito. Afferrò lo schioppo e quatto si nascose dietro un muretto della Rocca. Fissò dritto verso il macchione irsuto e rapido gli apparve un vecchio cignale povero e solengo come lo era lui. Lo sentiva ansare annusando l’aria per carpire gli odori sospetti portati dal vento. Forse era “scanato” da qualche cacciata giù nel fondovalle. Per un attimo gli balenò l’idea naturale d’accopparlo. Ma poi il pensiero andò oltre. Le trappole gli procuravano carne a sufficienza. Quella bestia doveva essere scannata, scuoiata a dovere, macellata e conservata sotto sale. Meglio la posta alla lepre su pel viottolo che se pure vola dritta il tiro s’azzecca facile. L’età avanzava rapida e certe prodezze bisognava lasciarle stare: meglio le poste che non logorano. Ma non era solo questo a farlo desistere. Quel porco braccato gli sembrava la sua figura, un’amara esistenza sempre all’erta per evitare i canacci sfrenati che ti braccano nell’agguato.
Il cuore di Meco accoglieva per la prima volta una goccia di tenerezza. Un verro solitario senza la sua scrofa, forse accoppata. “Ogni animale dovrebbe avere la su’ femmina. Ora tu sei come me. O forse no, perché tu “pole ancora anda’ in traccia della porcastra, io ho smesso da sempre.”
Ma ecco che d’un tratto il verro drizzò il grifo, rizzò le setole e tirò lesto di naso. Qualcosa d’umano era giunto dal vento ad intimorirlo. Grugnì sordo e si infoltì lesto nel forteto.
“l’hai scampata bella, porcastro della malora!”
Meco ripose lo schioppo amico e ritornò al foco mirando come d’uso la macchia che fitta scendeva ai piedi della Rocca prima slargandosi in vaste aree per poi strozzarsi nel fondovalle in una fenditura dove scorreva rapido il fosso del Paternale. I suoi occhi continuarono, come sempre, a riempirsi dell’incanto. Il suo olfatto riprese, come sempre, ad assaporare il respiro della maremma. Era l’irsuta coltre dei sempreverdi, dell’erica, del lentisco, del cisto, dell’alloro, del ceraso marino. Era la fiamma dell’acero, e della sughera rossastra. Era l’oro dell’ornello. Era l’incarnato del peruzzo selvatico. Era l’elce nera. Ed i ricciolutti querciolai e le marruche i biancospini, i scopeti, i ginestrai gialli e le vitalbe sinuose.
Era tutto questo che lo compensava dell’amaro della vita.
Presto sarebbe ridisceso dalla cima lungo i tratturi tranquilli verso qualche casa di contadini. Presto avrebbe fatto riposare le ossa stanche vicino ad un focolare dove accanto ad un ciocco ardente fumava sul paiolo un pentolone pieno di speranze. Si sarebbe riscaldato facendosi più piccolo sulla sedia e socchiudendo gli occhi stanchi ma sempre all’erta nell’udire i rumori sospetti come faceva l’attento cignale. Una tavola con piatti e bicchieri posti così in ordine da sembrargli un altarino.. Un vinello rossastro meno acetato del bianchetto estivo ma certo annacquato a dovere Ma che importava? Era come sangue caldo che intiepidiva le vene rinsecchite.
Così sognando quel poco che gli serbava il futuro Re di Macchia si assopì in quel nido di maremma pietroso ed antico .
E’ giunto l’autunno ed i suoi primi freddi e le piogge. Ho voluto accoglierlo con il ricordo di Domenico Tiburzi Re di Macchia . Una delle espressioni della maremma amara. Nato in Tuscia, morto in Toscana.
Il pensiero vola verso i grandi narratori di maremma, verso Bargellini, verso Ugolini verso Cavoli, verso tanti altri….
CARLO ALBERTO FALZETTI
Mi hai ricordato antiche letture. in particolare quelle di Alfio Cavoli. Su Tiburzi è stato scritto tanto, il personaggio è popolare e anche sfruttato turisticamente: non c’è trattoria in Maremma che non abbia appesa al muro la riproduzione della famosa foto di Tiburzi finto vivo con lo schioppo accanto. C’è poi la famosa vicenda del seppellimento mezzo dentro e mezzo fuori il cimitero di Capalbio. Tante storie e tanta leggenda. Eppure sei riuscito a ri-raccontare il “Robin Hood” nostrano con tonalità nuove e con un’apprezzabile vena narrativa ci hai fatto rivivere uno scorcio di Maremma amara.
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Che bello!
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Complimenti, un bellissimo racconto.
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♥️
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Povero cinghiale Menichino, quando la tua scena mondana era fatta da altri esistenti, da uomini e donne che ti aspettavano e vivevano di stenti, e di alloro, di Daphne e di Leucothea, di una scena potenzialmente infinita dall’Etruria alla Grecia. La tua storia s’intrecciava con altre storie: Domenico Tiburzi, la tua era la guerra contadina!
Nei secoli la filosofia ha associato alla morte il pensare, anche Menichino pensa con il suo odore, l’istinto che lo porta alla macchia mediterranea, l’alloro, il cisto, il lentisco, le “cerase marine”.
Anche lui è appartenuto alla politica, è stato un brigante che ha fatto la lotta di classe contro la classe egemone( Lombardi Satriani). La pluralità che ha abitato assieme ai suoi simili lo richiama nel momento della sua prossima morte e vive l’ esperienza radicale tra lentischi e cisti. Gli manca la sua donna che con le erbe della macchia lo avrebbe curato. E si ritira dal mondo della vita, morendo accanto ad un focolare: ricorda il detto antico, ” Chi muore muore a qualcuno”.
E la tua storia è una “storia mancata”, la tua vicenda è una storia diversa, accaduta in un tempo quando per i briganti vigeva lo ” Stato di eccezione “. ( Ma guarda, Carlo Alberto, trovo Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, 2003).
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