Il sonaglio perduto

di LUCIA SCAGGIANTE

Tornare al cinema è un piacere grande, tanto più che la stagione ci promette opere di notevole valore. È un piacere grande anche condividere le proprie riflessioni con gli amici, ed è quello che viene fatto in queste righe. Voglio dire che qui si parla del film come passeggiando all’uscita dalla sala, con chi il film l’avesse già visto: chi non gradisce lo spoiler, se lo desidera, può rimandare la lettura a dopo la sua personale visione, che gli raccomando vivamente.

 

Ai capi opposti dell’arco della fertilità, Janis e Ana scoprono di essere madri. Non potrebbero essere più lontane: Janis, nella luminosa e vitale pienezza dei suoi anni, si muove a suo agio nel mondo, ha un lavoro brillante, va incontro alle esperienze con slancio sereno. Ana è un’adolescente resa ombrosa dall’aridità di una famiglia in regola con le carte ma egoista, che per aver cercato amore è rimasta vittima di una violenza di branco cinica e brutale. La maternità l’atterrisce come un prolungamento di dolore e come qualcosa di inatteso e di ignoto, perché non ha nemmeno una madre affettuosa in cui specchiarsi. E invece per Janis è un dono felice portato dal caso o forse dal destino, essendo il frutto di momenti di passione con Arturo, l’antropologo incaricato di aiutarla a ritrovare le spoglie del bisnonno, ucciso dai franchisti durante la guerra civile e sepolto in una fossa comune rimasta inaccessibile.

Madres paralelas, l’ultimo film di Pedro Almodóvar, parla insomma ancora una volta di madri, qui intensamente incarnate da Penelope Cruz e Milena Smit, e lo fa incrociando tematiche intime e delicate con la grande storia, intesa come tema politico e allo stesso tempo esistenziale.

Le figlie parallele, che  sono Cecilia e Anita, nascono nello stesso ospedale lo stesso giorno, e travolgono d’amore e appagamento e tenerissime ansie la vita delle due donne. I loro nomi, un segno: se Ana non aveva il riconoscimento affettivo di sua madre, ebbene, sua figlia l’avrà, sarà una piccola Ana; quanto a Cecilia, fa rivivere nel nome la nonna di Janis, la bambina cresciuta senza il padre, morto per la libertà, quella nonna che l’aveva a sua volta  cresciuta con amore e nel ricordo di lui quando era rimasta orfana troppo presto – e anche a lei, Janis, sua madre aveva voluto imprimere un sigillo leggendario, il nome della cantante più perdutamente trasgressiva di tutta la generazione hippy, Janis Joplin. La famiglia, questa storia ci dice, non è questione di sangue e di ruoli, di convenzioni e stereotipi: è spalancare le braccia, aprire mondi, magari dire “com’era prima non voglio, ricomincio da capo, con te”. È appartenenza, dare e darsi. Lasciare “eredità d’affetti”, di fronte alla quale perde ogni potere perfino la morte.

Di solito è alle donne che si attribuiscono certi trasalimenti oracolari. Qui invece è Arturo, che per una sua difficile situazione non avrebbe voluto fosse portata a termine la gravidanza e ora nutre il desiderio di vedere la bambina, a sentire misteriosamente che non è figlia sua.  È una meraviglia, è perfetta, ma non è sua. E questa è la svolta narrativa che precipita Janis nel conflitto: le prove scientifiche confermano la percezione oscura dell’uomo, escludendo che anche lei sia la madre, e quindi sarebbe doveroso avvertire Ana per verificare se mai le piccole fossero state scambiate in ospedale, ma Cecilia è ormai carne della sua carne, e Janis non ce la fa. Si nasconde.

Quando per puro caso ritrova Ana – un’altra persona, la sua fragilità smarrita si è fatta calore, grazia enigmatica di elfo – da lei viene a sapere che la sua Anita non c’è più, se l’è portata via  un male rarissimo e funesto che chiamano “morte in culla”.

Quella dei figli scambiati, del figlio conteso è una materia mitica che in infinite variazioni ha attraversato lo spazio e il tempo, dalla Bibbia ai drammi dell’antica Cina alle credenze fiabesche e superstiziose che di volta in volta hanno ispirato Basile, Pirandello, Brecht, Sastre e molti altri, quasi fosse una pietra di paragone e un crogiolo di umanità. Almodóvar la svolge nella cifra che gli è più congeniale, quella del melodramma, e i primi piani delle attrici tolgono allo spettatore ogni difesa, lo gettano nell’incredulità e poi nello strazio e nel disperato desiderio che si possa dare una qualche forma di conforto a una pena così insensata.

Janis, che è madre nell’anima, si prende in casa Ana come aiuto per accudire Cecilia, stabilendo una convivenza quieta, fatta di piccoli gesti quotidiani (è incantevole la semplicità con cui insegna alla ragazza a cucinare), di confidenze e, certo, di pensieri vertiginosi e segreti, reciprocamente inesprimibili, di fronte allo spettacolo della bambina che cresce. Diventa amore. E sarebbe così facile, adesso, mettere nel conto di questo amore anche l’unica figlia sopravvissuta come figliolina di entrambe, creare una famiglia nuova, libera e coraggiosa dove trovare risarcimento e rifugio. Ma si fonderebbe sulla menzogna.

Ci sono anche vicende esterne a far precipitare gli eventi. Ritorna Arturo, dice che finalmente è possibile procedere ai lavori di scavo nel villaggio, e questo fa riaffiorare tutto un mondo, la rete dei rapporti umili e sinceri, la fierezza di una memoria condivisa che diventa solidarietà, la fedeltà agli ideali. Ogni cosa sembra cercare un nuovo senso e una nuova luce in cui ricomporsi, e i particolari dell’intreccio ne segnano  tensioni drammatiche e scioglimenti con grande naturalezza. Viene fuori, per esempio, che la generazione di Ana resta come non toccata dalla dimensione della politica e della storia, e dev’essere Janis, fotografa come fu il suo bisnonno, a trasmetterle lo sguardo che sa andare oltre la superficie, per sete di verità. E a me pare che al di là delle contingenze della trama, l’elemento decisivo per dare anche a lei la forza di andare oltre la sua personale menzogna e di scegliere la rinuncia sarebbe comunque lo spirito di responsabilità e la rettitudine profonda ereditati dalla sua famiglia, l’esempio dell’avo caduto, giovane padre per sempre. Non sottrarsi al proprio destino. C’è una scena bellissima, verso il finale, in cui il coro delle donne è riunito intorno ai dolci fatti in casa, carezza affettuosa per chi torna, e parla della speranza che i corpi riesumati trovino pace accanto a quelli di chi li amò, e del mistero di un sonaglio infantile scomparso, e anche di quell’altro incomprensibile mistero, perché il giovane repubblicano costretto a scavarsi la fossa che l’avrebbe inghiottito il giorno dopo, non si sia dato alla fuga nella notte.

Nelle storie antiche, molto spesso era un sonaglio a servire come strumento di agnizione e a permettere il ricongiungimento dei genitori ai figli rapiti o abbandonati, attestandone l’identità. Qui si trasforma in struggente motivo poetico. In un finale che intesse l’epica all’elegia, sotto gli occhi di Janis, di Ana, di quanti sono cari al loro cuore, la terra dischiusa restituisce le povere ossa senza nome che giacciono in un sonno senza tempo, e per un attimo sembrano riacquistare le sembianze dei combattenti per la libertà. Nella polvere brilla un sonaglio, vagito che vince le tenebre, forza dolcissima e inerme consegnata al futuro.

LUCIA SCAGGIANTE