OSTERIE NUMERO CENTO 

di ETTORE FALZETTI

Ernestone aspetta alla darsena che la tartana ormeggi, poi, con l’aiuto di Angelino, scarica i caratelli. Li fa rotolare  e li issa su un carro trainato da quattro robusti cavalli normanni. Fissate saldamente le botti, finalmente si avvia verso  l’osteria “I tre scalini”, alla discesa della Morte. A quel punto il “vino da viaggio” (così viene chiamato quel bianco secco proveniente da Forio d’Ischia) trova temporaneo riposo prima di finire nel gargarozzo di portuali che fra un turno e l’altro stanno martoriando mazzi di carte napoletane dai bordi sfibrati e praticamente immescolabili. Bevono vino misto a gazzosa, quella  con la pallina: meglio non esagerare con l’alcol se poi ti chiamano a scaricare merci. Ma qualcuno, che ha già finito il turno, mette da parte la gazosa- un po’ come Sordi quando dà al gatto il latte- e si dispone a ingozzarsi dell’immancabile piatto unico della casa, i fagioli alla marinara che la signora Argentina prepara attenendosi rigorosamente alla ricetta di famiglia.

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Gli avventori più fedeli hanno costituito un circolo, chiamato, senza troppa originalità, “club degli amici”: a suggerire il termine anglofono deve essere stato il titolare Giuseppe Di Maio; sì, perché Giuseppe è mezzo americano, ha collocato binari per anni in Pennsylvania fin quando il fratello non lo ha convinto a tornare nella sua città natale per questa piccola attività imprenditoriale con la quale riesce a mantenere dignitosamente i suoi dieci figli avuti da tre mogli diverse, alcuni dei quali sono rimasti in America.

Quando muore, nel 1958, l’osteria gli sopravvive ben poco: l’anno seguente crolla il soffitto e “I tre scalini” diventa un luogo della memoria.

Ma torniamo a Ernestone, che nel frattempo ha risalito via Cencelle e ha imboccato via Buonarroti dove lo aspetta il fratello di Giuseppe, Luigi, un ex carabiniere che ha messo su un piccolo impero nel settore del commercio di vino, anche grazie a un matrimonio con una rampolla della famiglia D’Ambra che possiede ettari di vigne a Ischia e produce il vino più pregiato dell’isola, il Biancolella. Luigi è proprietario di tre tartane e di un magazzino al porto. La sua osteria è piena di muratori che alla fine del lavoro, quasi a dimenticare le fatiche (e saranno tante poi nel dopoguerra con la città da ricostruire), si abbeverano di quel bianco secco e poi se lo pisciano lungo il muro di fianco all’osteria fin quando l’ingegnoso Eraldo, figlio di Luigi, fa costruire una sorta di vespasiano giusto accanto alla porta d’ingresso dell’osteria.

Un po’ piu in là il Frascatano (superfluo dire da dove provenga il suo vino) guarda con perplessità più che invidia quella costruzione arrangiata e scuotendo le spalle torna a immergersi nella nuvola di fumo della sua osteria alla Nona.

Il cantinone in via Granari, Il pendolo in via Apollodoro, Argentina a piazza d’arme, Cigliano in via Bramante, Di Laura in terza strada, Il pozzetto al Ghetto con le chiassose merende dei portuali a base di mosciame..Le cento osterie di Civitavecchia, formidabili centri associativi dove gli “avventori” discutono di politica e di sport, si scambiano informazioni su chi è morto, che fine ha fatto quello, chi si è sposato e chi separato; giocano (a carte, a morra, anche a bocce nelle osterie periferiche) e all’ occorrenza litigano; provano a dimenticare le tristezze, da soli in un tavolo appartato con lo sguardo smarrito; e naturalmente bevono, magari –come fanno i muratori-per accompagnare la frittata o il panino che si sono portati da casa. Qualche osteria fa anche da mangiare (vini e cucina), ad esempio quella di Esterina, destinata a diventare un punto di riferimento gastronomico soprattutto per i romani che accorreranno in massa la domenica per gustare la famosa zuppa  di pesce.

Le osterie si somigliano un po’ tutte, col loro paesaggio gozzaniano: i tavoli di legno massiccio, i piani di marmo, le sedie impagliate; appesi al muro lo scacciamosche e, in cornice, i dagherrotipi con la foto dei defunti, qualche disegno un po’infantile, la pagina di quaderno a quadretti con i versi che in metrica approssimativa e rima baciata celebrano la generosità del vino e dell’oste.

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 All’interno di ghiacciaie simili a armadi c’era vino naturalmente, ma anche birre (la Peroni su tutte), la gazosa locale Bertini Pantano e le bibite Neri fornite dalla ditta Savi-Matarese che le prelevava da Capranica; sul bancone la bottiglia-botte dell’amaro Alpino, sulle mensole i bicchieri, le quattro canoniche misure (litro,mezzo litro, quartino e decilitro per i liquori) e le bottiglie di vermouth e di chinato.

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E’ nelle osterie che le famiglie compravano il vino (si portava a riempire un fiasco chiantigiano: sempre lo stesso, non si buttava niente) ed è lì che per lo più si compravano chinotti, aranciose, la versatile e multiforme spuma (la coca-cola era ancora roba da farmacia) visto che i bar erano assai pochi. Ma c’era anche, per i più esigenti, vino in bottiglia e spumante e liquori. Il regno del bere, insomma, prima e durante l’avvento dei commercianti di vini- Stenti, Fiorentini, Monanni-, prima assai che nascessero enoteche e supermercati, prima soprattutto che le osterie fossero soppiantate dalle “Hostariae” a millantare-con la denominazione arcaica- una tradizione in molti casi inesistente.

Grazie a Enzo e Luigi Di Maio per le informazioni e le fotografie.

ETTORE FALZETTI