Come nasce una militanza

di ANNA LUISA CONTU

Nel dicembre del 1968 davanti  alla succursale del Liceo Scientifico, che frequentavo, in via dei Bastioni alcuni ragazzi davano dei volantini che denunciavano la repressione poliziesca avvenuta ad Avola. Al culmine di una protesta dei contadini, la polizia aveva sparato e ucciso due braccianti. L’impressione che mi fece leggere il giudizio che veniva espresso in quello scritto fu grande.

Mi venne subito in mente la protesta cui parteciparono le mie due più giovani sorelle nel piccolo paese di Campoleone, nei colli Albani qualche anno prima.

Nell’immensa tenuta di proprietà dei Torlonia dove noi avevamo dei terreni a mezzadria, donne braccianti lavoravano alla raccolta della frutta e, in inverno, alla cura delle viti e all’accatastamento delle pesanti radici estratte.

Quell’anno fu un inverno freddissimo, i campi al mattino erano coperti di brina gelata, le donne, comprese le mie sorelle, uscivano nei campi bardate con pesanti cappottacci e dei copricapi bianchi ad ampie falde rigide. Sembravano suore.  Non so come avvenne o chi organizzò, fatto sta che le braccianti proclamarono uno sciopero per avere un aumento salariale: le pagavano 100 lire a settimana e le più giovani 90 lire. Abbandonarono i campi e si riunirono nella piazzetta del paese. Comparve qualche bandiera rossa. Dopo un po’ due camionette della celere arrivarono a controllare le scioperanti. Non successe niente, la manifestazione si sciolse, le mie sorelle furono condotte a casa dai fratelli e finirono la loro carriera di braccianti.

A me rimase un’impressione  di una grande ingiustizia per quelle camionette venute a interporsi tra le braccianti e i sorveglianti al servizio dei padroni della terra e che, lo volessero o no i poliziotti, esercitavano  una pressione intimidatoria su quelle donne.

Così sulla storia di Avola e quei morti, sapevo già da che parte stare. Qualche tempo dopo, nell’aprile del 1969 ci furono altri morti a Battipaglia per mano della polizia, e quando un compagno di scuola mi invitò ad una riunione politica, io assentii perché ero pronta all’impegno.

Pensavo che sarei entrata in una sede del Pci e questo mi dava un fremito di eccitazione per la trasgressione. In famiglia, tranne il terzo fratello che un anno fece la tessera del PCI, non avevamo tradizioni comuniste e, anzi, al paese, dove la maggioranza delle famiglie esercitava la pastorizia , i comunisti erano guardati con un certo scetticismo come persone lavative. Mia madre, però, aveva molta stima del nostro vicino di casa comunista e muratore, diceva che era una degna persona.

Così con curiosità e un po’ di apprensione cominciai a frequentare un gruppo che non era il partito  comunista italiano  ma un gruppo maoista. A quel tempo, per me, non c’era differenza.

Riunioni, discussioni, analisi, poi interventi nei quartieri. Il pomeriggio mi veniva a prendere, dal casale dove abitavo a Santa Lucia, una compagna con la sua 500 e mi riaccompagnava lei o qualche altro compagno. Mi lasciavano sulla strada ed io poi a piedi fino alla cima della collina dov’era la casa. Vivevo questo impegno con una certa ansia e paura; da un momento all’altro attendevo l’intervento repressivo di mio fratello che mi proibiva quell’andare e venire dalla città.

Invece alla fine del quarto anno di liceo, poiché ero stata promossa, mi chiese se avessi voluto una macchina da scrivere come regalo. Era la prima volta che, a quel fratello severo, parlavo da adulta.  Sì che mi sarebbe piaciuta la macchina da scrivere, ma preferivo avere il permesso di poter fare politica e andare in città con libertà. Mio fratello mi ascoltò, chiese se le persone che frequentavo erano brave persone e non mi comprò la macchina da scrivere.

ANNA LUISA CONTU