LE INDAGINI SEGRETATE DEL PROVICARIO LABAT / III
di FRANCESCO CORRENTI ♦
Il caso del tesauro al Campo del Lauro (da Le manuscript du MD et NC Jean Watteau dit Gianvattò, tratto dai ricordi del Dottor Jean H. Watteau ex-assistente medico di J.B.L.)
«Nel mezzo del cam… Nel mezzo del cam…» Queste parole risuonavano nella mia mente, proprio nel momento in cui il nostro dottissimo Padre Fati stava per condurci in perlustrazione per le vie della città, allo scopo di farci conoscere sempre meglio quei luoghi e consentirci di esplorarne all’occorrenza ogni cantone senza incertezze. Eravamo appena usciti dalla porta secondaria del convento e la nostra guida stava appunto dicendo: «Nel mezzo del Camp’Orsino, come vedete, c’è la bocca del pozzo pubblico e subito a destra…», ma il mio cervello concluse per suo conto: «…cammin di nostra vita», astraendomi e distraendomi dalle spiegazioni. In effetti, la sera prima, dopo compieta, avevamo avuto una interessante disputa proprio in merito all’autore di quelle parole, dico meglio, dei versi, che mi frullavano ancora in testa, Durante degli Alighieri detto Dante, «le plus grand des Italiens, le père de leur poésie», come mi aveva sussurrato Padre Labat per attenuare la mia ignoranza.
Qui devo a chi mi legge qualche lume. In primo luogo, sulla mia vita a Civita Vecchia. Essendo a completa disposizione del provicario e abitando nello stesso convento, è superfluo dirlo, la mia vita era esattamente quella d’un frate o, per esser più precisi, come laico, d’un converso. Ma questo era già avvenuto, di fatto, nei miei precedenti incarichi medici a Marsiglia e a Parigi. Qui, la segretezza del lavoro ha comportato l’assenza di qualsiasi altro rapporto e contatto, per cui ho adottato in tutto e per tutto gli orari e le attività quotidiane comuni, pur se con le particolarità proprie dell’alto incarico del mio Maestro a cui dovevo conformarmi. Quindi, a volte, i miei orari e le mie attività si differenziavano, per svolgere qualche mansione di supporto all’esterno o per disbrigare dei compiti specifici al riparo da interferenze o ancora per quella “alta sorveglianza” della salute dei religiosi del Convento che svolgevo con molta discrezione ma tantissimo impegno, dato l’ordine perentorio ricevuto ed i continui tentativi d’intromissione della Corporazione dei medici e di ognuno di essi su un’infinità di questioni.
Altra cosa da dire, di cui non ho parlato finora, riguarda l’Assentista Giulio Pazzaglia ed i nostri frequentissimi rapporti con lui, per le nostre forniture di ogni genere, oltre che per ogni necessità di comunicazione con Mons. il Cardinale Giuseppe Renato Imperiali, Capo della Congregazione del Governo S.R.E. Ora, potrebbe capitare che, nelle illustrazioni del feuilleton su cui appariranno questi scritti, possa vedersi qualche mia immagine e questo faccia notare delle grandi somiglianze tra i miei abiti e quelli dell’Assentista. Cosa vera, perché nei primi tempi del mio soggiorno a Civita Vecchia, avendo un corredo da viaggio piuttosto limitato, ero ricorso alla sua gentilezza per procurarmi degli abiti adatti al decoro del mio stato ma senza le stravaganze della moda secolare del tempo. Il signor Pazzaglia, con estrema affabilità, mi condusse al bazar della Darsena, dove egli si riforniva, commissionando al Turco sarto degli abiti ed insistendo perché scegliessi stoffe di pregio, provenienti dalle manifatture damascene, identiche a quelle che lui aveva appunto prescelto per i propri vestiti. In questo modo, pochi giorni dopo, ad una cerimonia nella Chiesa dei RR. PP. Conventuali, accadde il divertente e prevedibile “incidente” di ritrovarci vestiti allo stesso modo, uguali come due gemellini, cosa che, se fossimo state due Dame della sussiegosa borghesia cittadina, avrebbe provocato uno scompiglio, perché ne sarebbe seguito immediatamente uno scambio di sguardi furibondi, poi un duplice svenimento e poi chissà quante ciarle ed elucubrazioni e interminabili querelles…
Tornando ai discorsi della sera prima, sul grande Poeta e Viaggiatore nell’Oltretomba, premetto che le mie cognizioni erano vaghe e confuse. Da noi, come in Francia, a Dante si era preferito il più elegante Petrarca e tanto più questo valeva per noi Provenzali, per natura e tradizione portati alla Galanteria, alla Poesia, all’Amore, e quindi a celebrare ogni ricordo di Francesco e della bella Laura, le chiare, fresche et dolci acque della fonte di Vaucluse e il Monte Ventoso, il piacere del silenzio, della meditazione e dello studio che quei luoghi ispiravano. Qualcosa di analogo alla ieratica staticità delle sculture e delle pitture (come nelle vetrate) delle chiese dei nostri territori settentrionali, il cui linguaggio didascalico si ispira all’Antico ed al Nuovo Testamento, esaltando le figure di santi e di sovrani per far discendere dall’alto dei cieli il crisma dell’autorità e del potere, mediato dalla Chiesa.
Mentre la conversazione in refettorio mi illuminò sulla profonda influenza di Dante e della Commedia sull’arte e sull’immaginazione e, di riflesso, sulla religiosità degli Italiani, che proprio in quelle trova linfa e sostanza. Così che l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso, attraverso i versi del Poeta e attraverso le immagini create da Pittori e Scultori, alimentate, nutrite da quei versi, diventano concreta realtà, visibile e tangibile, nella mente dei fedeli. Che ha poi nella solennità, nella grandiosità e nella suggestione creata da quel «jeu savant, correct et magnifique des formes sous la lumière» che è l’Architettura, l’ambiente sacro ed emozionante della Fede.
Accresciuto nella mia conoscenza dal vivace scambio di idee tra quei Padri Predicatori di varia nazionalità e provenienza di cui ero ormai quotidiano discepolo e non semplice pensionante, mi andavo rendendo anche conto della varietà e complessità delle “materie” di cui ci dovevamo occupare e che formavano al tempo stesso il “piano degli studi” ed il “banco di prova” del mio Maestro (e di me stesso, per via gerarchica) in quel periodo preparatorio, con il suo incarico “in pectore”, che sarebbe poi stato formalizzato circa un anno dopo, a metà del mese d’agosto del 1711. Ho potuto, così, anche apprezzare ed ammirare la profonda intelligenza di Santa Romana Chiesa, nell’addestrare, educare, accompagnare coloro che devono, con profonda consapevolezza, vigilare sul comportamento dei fedeli affinché non perdano lo stato di grazia o lo possano riottenere attraverso la confessione e la penitenza. In questo, aggiungo, avevo nel Padre Labat un Magister molto speciale, con uno spirito di carità e di umanità che mi apparivano molto lontani dalla severità inesorabile attribuita dall’opinione di alcuni malevoli alla Sacra Congregazione.
Ancora qualche annotazione, prima di parlare del caso che voglio proporre all’attenzione del lettore, riguarda i luoghi dove svolgevamo la fase di studio delle nostre indagini. E quindi inizio e termino con la stanza del Padre Labat, che era anche l’atelier di tutte le sue attività ed era grande, comoda, affacciata sul porto con una finestra e un finestrone per uscire sul balcone, nel piano superiore del Convento, quello dei Dormitori, sullo stesso corridore della Libraria e non lontana dal campanile, su cui spesso siamo saliti armati di cannocchiale, per osservare meglio certe cose, inerpicandoci pericolosamente sulle staffe in ferro infisse a muro.
D’angolo nella parete della porta sul corridore era posto il letto, di tavole abbastanza flessibili poggiate su cavalletti e sopra un pagliericcio frusciante. Soprattutto d’estate, ma praticamente durante tutto l’anno, teneva appesa ad una trave del solaio la sua amaca caraibica, che preferiva al letto per la comodità, la freschezza e l’igiene. È ben noto a tutti che, con la scusa del “letto d’America”, da rivedere egli stesso o da mostrare al visitatore di turno, fosse monsignor Ravizza o il vescovo di Aversa, un commodoro della Cornovaglia o uno dei tanti artisti che chiamava da ogni parte d’Italia a decorare le opere che realizzava, il Cardinale Giuseppe Renato Imperiali non perdeva occasione, tutte le sacrosante volte, venendo a messa in Santa Maria, quasi senza dir nulla, come un rito del cerimoniale, di salire nella stanza, di chiedere al padre Labat di stendercisi e di mostrarne i vantaggi posturali per la conformazione anatomica del corpo umano. Al che, ogni volta, immancabilmente, Sua Eminenza chiedeva sorridendo ironicamente conferma del metodo da osservare per fare acquisti con i Caraibici. Per sentir sempre la consueta risposta e cioè che, in primo luogo, le amache non sono fabbricate per fini commerciali e quindi per convincere qualcuno a vendere il suo letto, bisogna farlo di mattina, quando il pensiero del sonno e del dormire è ancora lontano e i pensieri previdenti non arrivano sino a sera. In secondo luogo, bisogna tener conto che per quegli indigeni un luigi d’oro vale meno d’un paio di soldi marcati, perché fanno attenzione al numero e non alla materia. Quindi, quando gli si conta il denaro per pagarli, non bisogna mai sovrapporre le monete o impilarle una sull’atra in un unico mucchio perché, nel loro ragionamento semplificato, ne fanno quasi una norma di vita che vanno ripetendo come hanno insegnato anche ai loro “perroquets”, i bellissimi pappagalli ammaestrati: «uno vale uno». E non li sposti da lì. Quindi, bisogna disporre le monete pattuite in fila, allineate una appresso all’altra, e allora, vedendo quella lunga sfilza, la loro vista è soddisfatta, ridono e gioiscono come bambini, concludendo l’affare. E subito bisogna portarsi via gli acquisti, prima che cambino idea.
Sul grande bureau, vicino al finestrone, c’era un po’ di tutto: carte, fogli arrotolati di disegni, faldoni di manoscritti e tutto l’occorrente per disegnare, ma per questo scopo aveva fatto costruire dal falegname del convento uno stiratore inclinabile sostenuto da cavalletti regolabili. Ne aveva avuti di simili, da buon architetto, sia nel convento di Parigi sia nelle sue diverse dimore nelle Isole. Era su quelli che aveva disegnato i suoi innumerevoli progetti, con un attivismo prodigioso che l’aveva visto, appena trentenne (e allora piuttosto magrolino), innovatore e realizzatore instancabile quanto missionario fervente. Dal 1694 al 1705, egli aveva partecipato attivamente alla difesa della Guadalupa costruendone le fortificazioni e combattendo contro gli Inglesi e nello stesso tempo aveva contribuito allo sviluppo dell’economia dello zucchero di canna, inventando le macchine e costruendo i mulini per produrlo.
La conversazione, è cosa ben nota, si svolgeva quasi sempre, da parte nostra, in francese, in cui ovviamente padre Labat si esprimeva meglio e perché al Cardinale faceva più piacere ascoltare quei racconti così, spontanei e sciolti, dato che conosceva perfettamente la lingua. Anche le memorie che chiedeva di preparargli su vari argomenti, scritte in francese, le leggeva come se fossero scritte in italiano, ma pur potendolo fare tranquillamente, da parte sua non parlava mai in francese, se non per tradurre parole o termini italiani particolari, di cui padre Labat non avesse capito bene il significato.
Senza dubbio, il vero scopo di S.E. era il diletto che gli recava il seguito di quei momenti, la sua richiesta di poter sfogliare il Diario dei viaggi nelle Isole dell’America che Padre Labat aveva cominciato a mettere in pulito, i disegni che vi erano tracciati con tante descrizioni di luoghi, di edifici e di paesaggi. E quelli sull’abbigliamento e le costumanze dei Souvages des Antisles, sulle loro piroghe, sul modo di catturare le gigantesche tartarughe di mare, o ancora, sulle altre componenti della popolazione di quelle Isole, i Coloni, i Creoli, i Negri…, compresi i Missionari (ed anche con loro, il ne mâchait pas ses mots, non “masticava le parole”, insomma, non aveva davvero peli sulla lingua), con le profonde osservazioni su “l’insatiable avarice et l’horrible dureté”, la mancanza di “charité et discrétion”, con cui vengono trattate quelle povere persone, ingiustamente strappate dalla loro terra, incatenate, costrette ad una traversata devastante, poi assoggettate a lavori massacranti, senza alcun rispetto per i loro sentimenti, “leur déplaisir, leurs maux et leur chagrin”. Argomenti che rattristavano intensamente l’animo di Sua Eminenza, che pure nei confronti dei disgraziati prigionieri delle galere papaline aveva in più occasioni manifestato la sua volontà di dare consolazione e conforto, anche con atti tesi a moderare il regime di cattività ed a concedere benefici, specialmente nel rispetto dei sentimenti religiosi e della cura delle malattie.
L’altro argomento trattato dal Diario del Padre Labat che incuriosiva il Cardinale era appunto quello delle fortificazioni e delle manifatture realizzate in America, di cui nella stanza di Civita Vecchia erano visibili molte testimonianze. Sulle due pareti minori, infatti, c’erano un armadio e varie scaffalature per i libri, mentre alcuni bauli da viaggio erano accostati al muro. Lì proprio era l’archivio delle memorie americane, illustrate con disegni e scritti. In proposito, sembrava ormai del tutto acclarata l’impossibilità di importare nello Stato della Chiesa la produzione della canna, quindi dello zucchero di canna e, pertanto, neppure la fabbricazione del rhum, estratto della distillazione di succo fresco di canna da zucchero e caratterizzato da un territorio di produzione, una piantagione di canna da zucchero, un tipo di canna da zucchero, un processo di estrazione del succo, di fermentazione, di distillazione e di stoccaggio che, proprio grazie a padre Jean-Baptiste, erano elementi ormai tipici ed esclusivi della Martinica. Del tutto improbabili risultavano anche le altre cose che avevano animato le discussioni tra Sua Eminenza e il nostro padre circa il modo d’incrementare il commercio e quindi l’economia della città: panieri di vimini e altri oggetti di arredamento, pappagalli, lucertole, ananas e banane, granchi bianchi o violetti, erano impossibili da importare o, per assurdo, da produrre.
Civita Vecchia aveva il porto franco ma non una comunità organizzata e così portata al commercio come c’era a Livorno, dove sbarcava tanta gente e dove erano tollerati dal Gran Duca e godevano di piena libertà tutti i tipi di Religione e di traffici, e dove lo stesso Tribunale dell’Inquisizione non si interessava che dei Cattolici domiciliati nella Città, lasciando la più profonda tranquillità a Giudei, Greci, Turchi e a quanti altri vi arrivano da ogni parte, purché rispettassero i nostri Santi Misteri. La scarsissima propensione degli abitanti di questa Città papalina ad intraprendere nuove iniziative, ad aprirsi verso l’esterno, ad accogliere forestieri ed a collaborare tra loro e con quei forestieri, qui, è proverbiale. Si racconta, come se si trattasse d’una battaglia vinta, la rinuncia di Innocenzo XII, dopo aver speso somme ingentissime per costruire i grandi edifici nell’opera a corno, a farvi stabilire un certo numero di Giudei che avrebbero attirato da Livorno il commercio fatto colà dai loro Confratelli, per le infinite rimostranze giuntegli da Civita Vecchia, dai magistrati e dal clero, dai militari e dal popolino. Il nome di Ghetto dato a quelle case, del tutto impropriamente, è visto come il simbolo di quella vittoria, così come le bandiere e le fiamme di combattimento strappate al Turco furono poste in Santa Maria dopo la vittoria di Marcantonio Colonna alla Battaglia di Lepanto.
Le case sono adesso affittate a dei vetturini e a dei pescatori, che sono tutti Stranieri e provengono (salvo pochi Genovesi) da Gaeta e da Pozzuoli, città del Regno di Napoli, e sono ben visti, perché gli uomini si dedicano appunto quasi tutti alla pesca di mare ed anche se sono obbligati a mandare il pesce migliore a Roma, a pena di scomunica, sbarcandolo direttamente alle Case Nuove, da dove partono i muli che lo trasportano a quei mercati. Però non mancano di farne arrivare il sufficiente nella piccola piazza accanto alla nostra Chiesa dove si vende, consentendo ai cittadini di poter mettere in tavola piatti di pescato, che, va detto, qui sono abilissimi a cucinare. E le donne sono lavandaie e serve, occupandosi dei lavori domestici presso le famiglie più abbienti e provvedendo al bucato nei grandi lavatoi in alcune strade del borgo e all’interno dello Spedale dei Benfratelli. Per questo, nei pressi dei fontanili, grandi spazi sono continuamente occupati dagli stenditoi ove si pongono ad asciugare al sole anche le lenzuola e la biancheria delle camerate delle caserme e dei dormitori dei conventi.
Alcuni cittadini hanno avviato rapporti d’affari con i Turchi Schiavi sulle Galere del Papa, che per consuetudine hanno la facoltà di alzare baracche per vendere oggetti da loro stessi fabbricati e facendo altri servizi – ne ho parlato a proposito del mio elegante guardaroba dovuto alla generosa cortesia del signor Pazzaglia – nel piccolo bazar sulla piazzetta della Darsena. Era di quegli anni l’acquisto d’una di quelle botteghe da parte di Ametto di Mustafà di Malvasia, che pagò in contanti, in giuli e testoni d’argento, i ben 180 scudi stabiliti dal contratto stipulato da Lorenzo Montebovi, notaro delle Centocelle e di Corneto.
Su quella piazzetta, cui fa da sfondo, sul lato verso terra, la Porta Marina, restaurata et abbellita di fuori e di dentro nel 1689 proprio dal nostro Cardinale, gli Schiavi Turchi fanno in tutta libertà la sala, ossia le preghiere, le prediche e gli esercizi della loro Religione, come nelle loro botteghe e nello Spedale delle Galere detto di Santa Barbara che è loro destinato. Per questo scopo, è sempre l’attivissimo Assentista che sceglie uno di loro e lo nomina “Papasso” o “Marabut”, con l’incarico di guidarli nelle preghiere e di aver cura degli Schiavi malati. Non mancano casi di Turchi che chiedono di farsi Cristiani e vengono allora indottrinati prontamente, ma ci vuole tempo e perseveranza prima che ottengano il Sacramento del Battesimo e poi un trattamento meno rigido, mentre per legittima prudenza non sono liberati subito dalle catene, se non dopo prove ripetute e quando i loro padrini chiedono di prenderli in custodia nelle proprie dimore. Perché vi sono stati in realtà molti casi di finte conversioni, non perché la grazia di Dio avesse mosso quelle coscienze, ma per tentare di evadere dalla schiavitù con quel mezzo, dato che evadere materialmente è impossibile. Del resto, solo pochissimi di loro hanno parenti che possano inviare il prezzo del riscatto, che è altissimo, come lo è alla stessa maniera per i Cristiani che hanno la sventura d’essere catturati e fatti Schiavi nei loro paesi, anche se i tempi sono mutati e l’Impero Ottomano ha esaurito la sua forza aggressiva.
Su tutti questi argomenti, le riflessioni e le considerazioni che si sviluppavano in quegli incontri con Sua Eminenza il Cardinale erano effettivamente assai edificanti, ancorché lontane dalla concretezza, perché la realtà era condizionata da tante ragioni non modificabili. Eppure, le idee che padre Labat esprimeva spesso con molta franchezza sul Governo ecclesiastico o sui comportamenti degli Italiani, certo di trovare nel Cardinale Imperiali una mentalità completamente aperta e non bigotta, a mio parere sarebbero state temerarie, se pronunciate in quelli che erano gli ambienti ufficiali, la Curia Romana, i Palazzi della Nobiltà, le Cancellerie della diplomazia e così continuando. In quegli anni inquieti, scossi dalla guerra di successione spagnola che aveva travolto tutta l’Europa, nonostante i tentativi di mediazione di Sua Santità Clemente XI Albani felicemente regnante e aveva visto le soldatesche combattere su molti fronti, si percepiva ovunque un clima di attesa e grandi erano il disorientamento e l’incertezza.
La divisione tra Stati cattolici e Stati protestanti, avvenuta ormai da mezzo secolo, era resa più articolata dalla presenza di varie minoranze dissidenti e dalle due forme del Cristianesimo greco-ortodosso della Russia e del levante europeo, dove la Lega Santa promossa da Innocenzo XI e guidata del Principe Eugenio di Savoia aveva conseguito la vittoria definitiva contro l’esercito turco e la pace di Carlowitz del 1699 aveva concluso la guerra di Morea – che avrà ancora un breve seguito nel conflitto finale tra l’Impero Ottomano e la Repubblica di Venezia –, segnando di fatto la fine di quattro secoli e mezzo di ostilità e liberando l’Austria della minaccia turca.
Nel 1704 gli Inglesi avevano occupato Gibilterra – Padre Labat ne era stato testimone diretto – mentre la Spagna era scossa dalla guerra intestina tra la fazione absburgica e quella borbonica. Nello stesso anno, gli imperiali di Giuseppe I, costretti dai Francesi a ritirarsi, violarono la neutralità dello Stato pontificio, entrando nel territorio di Ferrara ed occupando Comacchio e le terre adiacenti, impadronendosi poi, nel 1707, del ducato di Mantova e di quello di Parma e Piacenza. Di tutti questi avvenimenti e di quelli che ad essi seguirono il Cardinale, è più che comprensibile, veniva costantemente e con immediatezza informato dalla sua segreteria particolare, dagli aiutanti del Governator Prelato e dai cardinali della Segreteria di Stato a mezzo di dispacci e messaggeri a cavallo. Così fu, ad esempio, per la morte dell’Imperatore, avvenuta il 17 aprile 1711, della quale il Cardinale fu avvertito da un apposito corriere, giunto a Civita Vecchia il successivo giorno 28, a pochissima distanza da quando la ferale notizia era giunta a Roma.
« Le Port de Gênes ne vaut absolument rien. Même le Port de Livourne ne vaut absolument rien. Le premier de ces Port est exposé à toutes les violences de la mer & des vents, il faut être extrêmement pressé, ou être absolument destiné pour cet endroit, pour n’en pas chercher un meilleur. D’ailleurs tout est extrêmement cher à Gênes ; on peut à peine respirer l’air sans le payer & très-chèrement, & en matière de commerce les Génois sont au moins des Juifs & demi » (JBL, Voyages, t. IV, chap. XVI, pp. 153-154).
Nell’esprimere questi giudizi drastici ma sinceri al Cardinale Monsignor Giuseppe Renato Imperiali, figlio di Michele, Principe di Francavilla e Marchese d’Oria, e di Brigida Grimaldi, sorella del Principe di Monaco, che se non era nato a Genova (il 26 aprile 1651), certo vi aveva trascorso tutta l’infanzia e la prima giovinezza, Padre Labat aveva trovato nel suo altissimo interlocutore una personalità poliedrica, di profonda umanità, di eccezionale tensione morale e di assoluta razionalità e indipendenza intellettuale. Il suo “cursus honorum” ne rendeva palese la statura, l’autorevolezza ed il prestigio acquistati in brevissimo tempo. Non si stupisca il lettore delle tante notizie che posso fornire al riguardo o di quelle sciorinate sulle turbolenze politiche di quegli anni. Come ho svelato nelle pagine introduttive, ho potuto conservare copia delle note riservate e dei promemoria ricevuti dalla Congregazione, accresciute da quelle collazionate con cura a Civita Vecchia, facendo tesoro per giunta degli ammaestramenti e dei metodi del Padre Provicario che ho assistito per anni. Ed ecco i gradini dello scalone di onori e cariche del Monsignore, come posso leggerli nel mio archivio.
Insignito in giovane età della Croce dell’Ordine dei Cavalieri di Gerusalemme e vestiti gli abiti prelatizi, già durante il papato di Clemente X Altieri gli fu conferito il clericato presso la Rev. Camera Apostolica, di cui divenne Tesoriere Generale sotto Innocenzo XI Odescalchi, esercitando la carica dal 1686 al 1695 e caratterizzando la sua azione per il forte impulso dato alla realizzazione, in varie regioni d’Italia, di molte e grandi – anzi, grandiose – opere pubbliche e per aver promosso interventi di pubblica utilità e la costruzione di infrastrutture e nuovi edifici, finalizzati al rinnovamento urbano della Comunità, con una attenzione specialissima alla qualità architettonica e con forti contenuti di carattere sociale e culturale. Sono gli anni delle tante opere che avevano conferito alla Civita Vecchia dei nostri giorni quell’aspetto moderno e funzionale che ne evidenziava le straordinarie potenzialità, malgrado i vari problemi, le diverse carenze ed i lacciuoli che la tenevano in uno stato di inadeguatezza avvilente.
Nominato da Alessandro VIII Ottoboni Cardinale diacono di San Giorgio al Velabro, dal 1690 al ’96 era stato Legato apostolico a Ferrara. Era proprio per questo periodo della sua vita vissuto lassù che aveva accolto con particolare dispiacere la nuova situazione di quei territori, occupati dalle truppe dell’Imperatore, e le notizie di Comacchio. Ricordava con affetto la fabbrica dei “Trepponti”, chiamato anche Ponte Pallotta come il canale su cui poggiava e che portava all’Adriatico. Era la porta fortificata della terra, voluta dal suo predecessore il Cardinale legato Giovanni Battista Maria Pallotta, nel 1638, che ne aveva affidato la progettazione all’architetto ravennate Luca Danese. Fino al 1693 presentava superiormente le semplici spallette di protezione caratteristiche di tutti gli altri ponti. Nel 1695, durante la sua legazione, si era personalmente impegnato a migliorarne l’aspetto, rendendolo più imponente, ed aveva fatto aggiungere le due torri fortificate alla sommità delle due rampe di scale e rialzare a scopo difensivo le spallette del ponte. Su entrambe aveva fatto porre delle lapidi, a prova del suo interesse per tutte le arti, riportando due passi significativi per la città di Comacchio. In una fece incidere i versi del reggiano Ludovico Ariosto, tratti dal poema cavalleresco pubblicato proprio a Ferrara, l’Orlando Furioso:
«E la città ch’in mezzo alle piscose / Paludi, del Po teme ambe le foci. / Dove abitan le genti disïose / Che ‘l mar si turbi e siano i venti atroci.»
Sull’altra fece incidere una citazione dalla Gerusalemme liberata di Torquato Tasso:
«Come il pesce colà dove impaluda / ne i seni di Comacchio il nostro mare, / fugge da l’onda impetuosa e cruda / cercando in placide acque ove ripare, / e vien che da se stesso ei si rinchiuda / in palustre prigion né può tornare, / che quel serraglio è con mirabil uso / sempre a l’entrare aperto, a l’uscir chiuso.»
Di tale dimestichezza con l’arte poetica in lingua italiana, che coltivava alla pari di tutte le altre arti di cui era munifico mecenate, il Cardinale dava continua prova anche nelle nostre conversazioni. Così, proprio in risposta ad una delle dissertazioni del Padre Labat sulla situazione degli Stati italiani, declamò con una forte emozione, che ci trasmise, quei versi toccanti ed amari della Commedia dell’Alighieri (dal VI canto del Purgatorio) che dicono: «Ahi serva Italia di dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta, / non donna di province, ma bordello!», facendoci anche comprendere quale pontefice avrebbe potuto essere se l’ostilità del Re di Francia non ne avesse impedito, nei precedenti Conclavi, l’elevazione alla cattedra di Pietro, e quale poteva ancora essere, ove quella ostilità venisse meno in futuro. In ogni modo, le cariche che il Cardinale Imperiali ricopriva. durante quel periodo della nostra permanenza a Civita Vecchia, erano già di altissima responsabilità e di forte potere.
Dal 1698 era Prefetto della Congregazione della Disciplina dei Regolari, istituita con compiti molto delicati, per riordinare la situazione di monasteri e conventi, abolendo quelli che vedessero la presenza di comunità poco numerose.
Dal 1699 era stato nominato da Innocenzo XII Pignatelli membro della Congregazione cardinalizia mista (Propaganda e Inquisizione), confermata da Clemente X Albani, per giudicare se vi fossero comportamenti contrari alla Dottrina della Fede (e l’esito era stato negativo) nell’opera del vicario apostolico Pietro Godde, accusato di simpatizzare per il giansenismo – le cui teorie progredivano celermente in Olanda – e di aver introdotto nelle funzioni religiose riti in lingua locale o volgare come vien detta. Un argomento che interessava dal tempo della Missione nelle Isole al Padre Labat, proprio per gli aspetti pratici della partecipazione ai rituali.
Dal 1701, Sua Eminenza era Prefetto della Congregazione del Buon Governo, istituita da Clemente VIII Aldobrandini nel 1592 con la bolla Pro commissa, detta anche De bono regimine, “per sovrintendere alla gestione fiscale ed economica delle amministrazioni comunali, affiancandosi alla Congregazione della Consulta, competente sulla giustizia e l’ordine pubblico”. Se il lettore ricorda le puntate precedenti sullo “strano caso del Colosso rimosso”, si rende conto immediatamente e perfettamente dei motivi del nostro riserbo e della nostra cautela nel muoverci, nello svolgere le indagini, nel camminare in punta di piedi. Ho scritto in quella sede: «I riferimenti legislativi erano complessi. A prescindere da più gravi reati, dovevamo fare molta attenzione alle competenze della Congregazione del Buon Governo sul particolare aspetto dell’amministrazione dei domini temporali della Chiesa, quindi il controllo delle finanze delle comunità e dei loro beni.»
Ma soprattutto, ci dovevamo introdurre, senza sconfinare e senza urtare prerogative, competenze e attribuzioni, nei campi soggetti alla giurisdizione suprema del nostro certo amabile e caritatevole protettore, ma pur sempre Principe della Chiesa, oltre che Principe di nascita e personalità adusa a giudicare in modo inflessibile ogni indisciplina e inadempienza, anteponendo la supremazia della Chiesa romana a qualunque altro potere. Esponente tra i maggiori del gruppo cardinalizio degli Zelanti e Cardinal protettore della Pontificia Accademia Ecclesiastica, Monsignor Imperiali era divenuto anche una guida influente del mondo culturale romano attraverso la sua biblioteca, aperta al pubblico, il cui catalogo – poi pubblicato nel 1711 – comprendeva 15.000 volumi, con testi in prevalenza di diritto, filosofia e letteratura anche contemporanea. Immediata era stata, appena divenuto Prefetto, l’emanazione d’una vasta normativa in materia di amministrazione finanziaria dei Comuni. Con due fondamentali provvedimenti connessi: la decisione di intraprendere ispezioni nei Comuni, compiute personalmente da lui o da prelati della Congregazione dotati di pieni poteri (e in questo la nostra collaborazione ebbe un certo rilievo) e quella della tassazione dei beni feudali, quei patrimoni ereditari a volte immensi lasciati il più delle volte senza interventi produttivi e migliorativi tanto meno delle condizioni di vita dei contadini. Notevolissimo, infine, era il suo peso nell’orientare il gusto architettonico dello Stato Ecclesiastico, a Roma come nelle provincie, e numerosi erano gli architetti di valore che avevano operato al suo servizio e continuavano a farlo.
Ognuno di questi aspetti della personalità di Sua Eminenza coincideva esattamente con il pensiero e con l’indole di Padre Labat, eppure quella fortissima sintonia che si sarebbe stabilita ben presto tra i due, aveva rischiato di venir compromessa dai loro primi contatti personali, se l’intelligenza e la professionalità “dell’architetto Labat” non avessero prevalso sul suo amor proprio. Sono circostanze che ho potuto ricostruire dopo il mio arrivo a Civita Vecchia, ma anche il lettore potrà rendersene conto se ricorda quanto riferito velatamente nel Diario pubblicato. L’episodio di cui parlo si era verificato dopo il primo incontro con il Cardinale, avvenuto in quella sera del 21 marzo 1710 del suo arrivo, quando gli aveva recato il suo saluto attendendolo all’ingresso in Città, e dopo gli incontri collettivi dei giorni seguenti, in Convento e altrove.
Riporto esattamente le parole del Diario: «All’indomani [era il giorno 26] un Architetto di Roma, giunto con Mons. il Cardinale Imperiali, venne a suo nome a chiedermi il disegno che avevo fatto per la Facciata della nostra Chiesa. Glielo diedi subito, insieme a quello che mi era stato consegnato fra le mani e di cui non avevo ritenuto opportuno servirmi. Mons. il Cardinale mi mandò a cercare verso sera. Devo al Sig. Pazzaglia l’onore di essere stato conosciuto da questo grande Cardinale. Recatomi da lui, mi disse che il mio disegno gli piaceva molto, ma che gli sembrava troppo spoglio e semplice. Gli risposi che ero costretto a seguire quanto più possibile il disegno della Fontana di Sisto V, di cui il Papa ci aveva fatto dono, in modo da utilizzare le pietre già tagliate, e che io l’avevo abbellito e arricchito con dei contropilastri, delle nicchie ed uno zoccolo o piedistallo continuo, ornato da modanature, che innalzando l’ordine poggiato sopra, gli avrebbe dato una maggiore grazia e leggerezza. Aggiungi che la semplicità e la conformità alle regole erano i caratteri della vera Architettura antica; dopodiché gli citai i precetti di Vitruvio, i pezzi più belli di Roma e di Santa Giustina a Padova, dove la semplicità spoglia di ogni ornamento appare in tutto il suo splendore. Lui sembrò soddisfatto di quello che gli avevo detto e mi esortò molto a lavorare del mio meglio a quest’opera che mi avrebbe fatto onore.»
Due fatti balzano agli occhi leggendo questo brano: il primo, non troppo palese ma intuitivo, è che “l’architetto Labat” doveva essere furibondo, dentro di sé, per l’affronto di vedersi arrivare in Convento quel collega di Roma, giunto a Civita Vecchia con il Cardinale, di certo uno “eccellente” – e quindi un privilegiato destinatario di committenze prestigiose –, forse anche alquanto sussiegoso (ma non troppo, l’avrebbe detto tranquillamente nel Diario), a chiedergli a nome dell’Eminentissimo i disegni di progetto, che quindi sarebbero stati guardati con la lente in ogni dettaglio e senza dubbio criticati… Jean-Baptiste quel collega non lo nomina neppure: sarà stato Giovan Battista Contini, Carlo Buratti, Filippo Leti, Gabriele Valvassori, Felice Facci o addirittura Filippo Barigioni, quello che godeva maggiormente della fiducia del Cardinale? Non ci è dato di saperlo. Ma il fatto che il suo progetto della facciata di Santa Maria e delle altre innovazioni da apportare al convento fosse stato poi apprezzato e lodato dal prelato, aveva sugellato quella simpatia e fatto dimenticare il larvato attrito con il collega romano, comunque scomparso dalla scena.
Il secondo fatto è che, diciamoci la verità, pure il caro Padre Labat, quanto a improntitudine non scherzava, vista la risposta, aggravata da tutta quella serie di considerazioni inopportune sull’Architettura, data proprio al Cardinale Prefetto della Congregazione del Buon Governo, una delle massime autorità dello Stato e, per giunta, promotore da venticinque anni di tutte le opere di Architettura della Città, alle quali aveva impresso il proprio gusto e la propria impronta, per di più fondando – con la biblioteca – una vera e propria accademia, un cenacolo di cultura, che influenzava anche gli orientamenti dei Concorsi Clementini di Architettura della stessa Accademia di San Luca. Per cui dobbiamo ammirare l’aplomb con cui, sembra di vederlo, ascolta con aria interessata il diluvio di spiegazioni del francese, capisce al volo il personaggio che ancora non aveva avuto modo di conoscere bene ed evita di replicare, anzi pone fine alle discussioni accogliendo la tesi, peraltro non certo peregrina, dei condizionamenti imposti dal materiale da riutilizzare e dà il via libera definitivo al progetto.
È la stessa condiscendenza con cui, nelle conversazioni dei mesi successivi, il Cardinale ascolta e in sostanza condivide i giudizi di quel frate straniero sugli Italiani e sugli abitanti di quella Città e Porto di Mare d’Italia nello Stato della Chiesa e del Patrimonio di San Pietro. Anche di questo brano, ripreso dal Diario, ne trascrivo la traduzione, dato che il paziente lettore non è tenuto ad avere la stessa padronanza della lingua Francese di Sua Eminenza.
«Perché si vedono tante terre incolte e tanta gente disoccupata? Forse perché le terre non sono buone? Niente affatto: sono eccellenti. È che gli uomini non amano il lavoro o non hanno alcuna in attitudine a riuscirvi. Ma poi non è neppure questo precisamente, è che non c’è alcun traffico, nessuno che li metta al lavoro. Perché essi hanno tutti per matura intelligenza e coraggio, sono forti e poca gente al mondo resiste meglio alla fatica; ma essi non hanno in loro stessi nulla che li spinga all’emulazione, nessuno sbocco alle derrate che possono trarre dal seno della terra, nessun commercio con gli Stranieri. Sembra che non si abbia altra attenzione che quella d’impedire che i privati scoprano i tesori nascosti e inutili che in seno alle loro terre e nelle disposizioni naturali che hanno a tutto intraprendere ed a riuscire in tutto. Mi sono spesso intrattenuto su tutte queste cose con i più importanti Negozianti di Civita Vecchia ed essi condividevano facilmente e in buona fede tutto quello che ho detto ora; ammettendo che se questa Città e tutto il resto del paese fosse stato nelle mani di un Principe Secolare, non vi sarebbe stato paese al mondo più ricco, né Popolo più a proprio agio; ma aggiungevano che i Genovesi e i Fiorentini non avrebbero permesso mai di intraprendere qui qualcosa di buono, perché questo sarebbe stata la rovina di Genova e di Livorno ed i Cardinali di quelle due Nazioni avevano troppo interesse a salvaguardare le fortune della loro Patria».
Mais ça suffit ! Je m’excuse ! Trascrivendo poco fa le parole «tesori nascosti» sono veramente trasalito! Mi sono fatto prendere la mano dal desiderio di far conoscere meglio i rapporti tra quei due straordinari personaggi che ho avuto l’onore e la fortuna di conoscere e di frequentare a lungo, essendo pure il collaboratore più stretto d’uno di essi e, quindi, il testimone oculare di molti dei loro incontri e delle loro conversazioni. Il lettore, credo, deve aver perduto gran parte della pazienza che gli ho attribuito e si sarà chiesto quando inizierò a parlare di quello strano “tesauro” che ho annunciato. Quindi, inizio immediatamente.
Riprendo il racconto dalla stanza del Padre Labat. Ho già detto che era anche l’atelier di tutte le sue attività, il luogo delle discussioni e dei ragionamenti, quando si studiava un caso, ed anche la piccola Galleria di esposizione di alcune sue collezioni. Su una mensola a parete erano allineati alcuni vasi di terracotta, per la maggior parte coperti da una vernice nera con ornamenti rossi ben lavorati. Ne aveva avuti parecchi e ne aveva regalati parecchi ad alcuni conoscenti che se ne dicevano collezionisti. Erano quelli che aveva avuto in dono, partecipando, proprio come accompagnatore del Cardinale, allo scavo di sepolture di “antichi eroi” della Città di Tarquinia e avevano ben più di duemila anni di antichità, essendo stati messi in quei sepolcri almeno cinquecento anni avanti la nascita del Messia. Come non dare a tali vetuste stoviglie, ben diverse da quelle delle nostre tavole d’oggi, il valore di veri e propri tesori, di “tesori nascosti” di queste terre? Il valore che viene giustamente attribuito a tutte le molteplici forme dell’arte, per cui vengono ammirate e ricercate, essendo da qualche tempo anche oggetto di commercio e a volte di rapina, da quando l’interesse dei Sovrani Pontefici e dei Cardinali, di Re e Principi le ha rese desiderabili, grazie all’incitamento ed alla guida dei sapienti. Lo stesso Cardinale Imperiali – dall’alto del suo primario magistero governativo – era stato in questo un esempio ed un promotore, ma le premesse fondamentali della nuova considerazione di quei tesori andavano ritrovate negli energici ammonimenti di Raffello della sua lettera a Papa Leone X.
Diceva il Padre Labat e lo ha scritto ripetutamente nel Diario, trovando la cosa per certi aspetti ridicola ma per altri abbastanza veritiera, che «gli Italiani sono infatuati della leggenda che il loro paese sia tutto disseminato di tesori nascosti da soldati stranieri, dopo gli innumerevoli saccheggi subiti dalle località italiane nel corso dei secoli. Costretti da varie circostanze ad abbandonare questi tesori, quando pure erano sopravvissuti alle vicende belliche, quei soldati tornavano in patria riportando solo dei promemoria che contenevano la lista delle cose nascoste, i luoghi dove si trovavano ed i segni per riconoscerli. I Francesi, i Tedeschi e soprattutto i Normanni, che hanno saccheggiato spesso l’Italia, sono considerati grandi predoni, perché ancora oggi, trovando quei promemoria nelle carte dei loro antenati, vengono in Italia a cercarli.» Il racconto di Padre Labat si concludeva, riferendo delle credenze che circondano la leggenda, tra cui quella che, per patti e sortilegi vari, il Diavolo sia stato incaricato di custodire i tesori. C’è ampia materia di riflessione.
Intanto, è forte la suggestione propria della parola, in Italiano come in Francese ed anche in Latino – tesoro ma pure forbitamente tesauro, trésor, thesaurus – per quel suo contenuto, l’oro, l’or, l’aurus e l’auro, che risuona nelle orecchie. Risuona ed impressiona ed anzi, in Francese, ha come un senso accrescitivo, trés or, “molto oro”! Poi, a ben pensarci, conoscendo quante rovine di costruzioni antiquarie vi sono ovunque e quanti sono gli oggetti, i marmi lavorati e tante cose ancora che riemergono dalla terra, si può parlare senza mentire, in piena coscienza, di tesori nascosti. Padre Labat era stato molte volte a visitare le rovine degli antichi Bagni, facendo scoperte interessanti, ma aveva poi interrotto questa pratica, quando fu avvertito dei commenti della gente: si cominciava a pensare che fosse proprio alla ricerca di tesori. Secondo un’altra diceria, infatti, era venuto tempo addietro a Civita Vecchia proprio un altro Francese, affermando di volercisi stabilire e d’impiantarvi un’impresa commerciale. Invece, una notte era scomparso, portando via – secondo i sospettosi abitanti “defraudati” – un tesoro straordinario ritrovato in una delle arcate di quei Bagni. Tutti noi conoscevamo questi resti ed avevamo visto le bellissime cisterne nella Villa dei Santini, ad un miglio a Nord-Est della Città, e in altre parti dei Poggi, dove c’erano antiche colonne di marmo e tombe e oggetti vari in bronzo, oltre a vasellame del tipo di cui ho parlato prima, nella stanza di Padre Labat.
In uno di essi, una ciotola a forma di scodella, il Provicario conservava del tabacco, l’erba che di tanto in tanto si concedeva di bruciare, aspirandone il fumo in una pipa di terracotta, appoggiato alla ringhiera arrugginita del balcone. Guardando la Torre della Lanterna, eretta dalla Santa Memoria di Paolo V Borghese, contro la luce del tramonto e ripetendomi ogni volta, se ero presente, il racconto di quando si era portato sull’antemurale in barca ed una improvvisa tempesta l’aveva colto di sorpresa, mettendolo molto a disagio. Il mare, infatti, era divenuto assai agitato e copriva con montagne d’acqua tutta l’isola artificiale, per cui si era salvato a stento dalla furia delle onde gigantesche, appiattendosi come una sogliola contro il muro interno, sormontato da quelle cascate che ricadevano nel porto. Era così riuscito a guadagnare il portone del Fanale, inzuppato dalla testa ai piedi e però evitando di venire trascinato o risucchiato in mare, da una parte o dall’altra. Quanto al tabacco, Padre Labat aveva iniziato quell’abitudine del fumo serotino nei Caraibi, ma qui – come in tutta Europa – la pratica è ormai diffusa da un paio di secoli e sono molti coloro che ne lodano le proprietà medicinali, benefiche per molti mali. Io, personalmente, mi attengo a quello che mi hanno insegnato alla Facoltà di Montpellier i miei saggi maestri e mi astengo da tale pratica. Posso dire che anche Sua Eminenza il Cardinale la riteneva sconveniente e contraria alla dignità della porpora ed io stesso lo sentii, una volta, principescamente inveire, appellandola «brutto vizio volgare e puzzolente», quando, arrivando a Civita Vecchia dopo un lungo periodo di lontananza, ebbe a trovare l’appartamento a lui riservato nella casa dell’Assentista impregnato, intriso, saturo dell’odore di tabacco nelle pareti di damasco, nelle tende di velluto, nelle coperte e in tutte le poltrone, sedie e arredi vari da quel tanfo rappreso. Perché il suddetto Don Giulio, del tabacco a fini “curativi e medicamentosi”, era invece un cultore, tanto nella forma da fumo quanto in quella da fiuto ed era, anche per questo, un frequentatore assiduo del bazar della Darsena, ch’era nella sua piena giurisdizione, e vi aveva acquistato una quantità di pipe d’ogni tipo, di legno, di gesso, di terracotta, di porcellana, di schiuma ed ambra, nonché di tabacchiere di svariate fogge, materiali e provenienze (in effetti, il naso dell’Assentista sembrava conformato apposta, così arcuato come certe cappe dei forni, per inalare e sniffare la sostanza a suo dire salutare & balsamica).
Don Giulio era scapolo e viveva nella bella casa su in alto, nel rione di San Giovanni, con la sorella Anna Costanza, di un anno maggiore, e con la famiglia di lei, che era moglie di Marcantonio Zelli, Nobile di Viterbo, ed era l’indiscussa padrona di casa, l’angelo di quel focolare, l’organizzatrice del ménage e di tutta la conduzione domestica. Orbene, Donna Anna Costanza aveva una totale idiosincrasia per il tabacco in tutte le sue varianti e non tollerava né di vederlo né di sentirlo nell’aria, per cui Don Giulio – che pure rivestiva in Città e nel Porto una carica di grande potere, che aveva il comando e la direzione di tante persone ed attività, soggette ai suoi ordini in modo ferreo – in casa, per quell’aspetto, era costretto all’obbedienza. Cosicché, avendo l’assoluta proibizione di espletare le sue cure tabagiche nelle stanze della casa, si era andato a rifugiare per esercitarle in santa pace proprio nel quartiere riservato ai soggiorni di quel Personaggio tanto speciale, proprio a ridosso dell’antica Torre a facce delle mura castellane. Ricevendo perciò una strigliata mai più dimenticata.
Possiamo dire adesso, avendo spaziato in lungo e un largo su argomenti peculiari dei nostri anni a Civita Vecchia, di poterci avviare alle conclusioni, come è buona regola di una trasmissione “a distanza” di notizie ormai connotate quali chiarimenti e rivelazioni di fatti della storia. Il “caso del tesauro al Campo del Lauro” è direttamente collegato alle considerazioni da noi fatte, e in questo caso possiamo dire di aver usato non a caso la parola “tesauro”. Riprendendo le fila del discorso dal suo ormai lontano inizio, una dozzina di pagine indietro, quando eravamo usciti in Camp’Orsino, tra reminiscenze poetiche e declamazioni della nostra guida “touristica” Padre Giuseppe M. Fati, dobbiamo intanto precisare che avevamo preso quella via perché l’altra possibile uscita dal Convento, ossia l’ingresso diretto nel Claustro dalla Prima Strada, era in quel momento impraticabile, a causa di alcuni lavori preliminari che si stavano conducendo in quell’anditino, in vista delle trasformazioni progettate. I lavori riguardavano l’area ove anticamente s’entrava da un piccolo Cimiterio che era nel Cortile della Casa numero 16, passando per il poco sito che vi era tra la cantonata antica della Chiesa e il muro della detta Casa. Il progetto, come si è visto, era munito del “Nihil obsat” del Cardinale Imperiali, essendo già stato autorizzato dal Padre Generale dell’Ordine, dalla Minerva, e dal Governatore, dalla Rocca. Fortunatamente, quelle trasformazioni, da realizzare senza alterare il perimetro della proprietà, riguardando miglioramenti estetici e funzionali di un bene ecclesiastico dei Padri Predicatori, non ricadevano nelle competenze del Comune e questo ci consentiva di poter procedere immediatamente, senza dover attendere il lustro che, di norma, richiedevano gli interventi soggetti all’approvazione della Communità, con conseguente rilascio di attestazioni in dieci copie su pergamena, la cui redazione richiedeva altri mesi di attesa e costi elevatissimi.
Giunti sulla grande spianata tra l’Arsenale e la Chiesa di San Francesco, la nostra reverenda guida chiese a Padre Labat di srotolare la mappa della Città che lo stesso aveva terminato in quei giorni di disegnare con il Signor de la Garde, Aiutante Maggiore della Piazza e aveva portato con sé. Ci fu agevole individuare sulla mappa, realizzata ad inchiostro e ad acquerello in vari colori per evidenziare strade, corsi d’acqua e fabbricati, le principali emergenze edilizie che vedevamo intorno a noi e poi osservare l’andamento degli spalti, la dislocazione dei bastioni, qual era stata la posizione dei terreni soggetti a “Tredicino” ed il distendersi di orti, vigne e poderi nella campagna oltre le mura, sullo sfondo delle colline boscose che chiudevano l’orizzonte.
Fu proprio a questo punto che Padre Giuseppe Maria Fati, al quale l’età non impediva di farci strada con passo svelto e sicuro, dopo averci dato prova – come il lettore ricorderà – della sua mente prodigiosa, della sapienza infinita, dell’incredibile memoria, dell’eloquenza trascinante di predicatore e dell’attività magistrale di riordinatore del brogliardo catastale dei beni conventuali, volle stupirci ancora una volta di più.
Lo fece, mostrandoci come le arguzie ironiche del confratello Labat sulla credulità del popolino di Civita Vecchia non fossero dettate dalla presunzione spocchiosa dello Straniero, per giunta Francese e per soprammercato Parigino, ma corrispondessero alla realtà di atteggiamenti di cui c’era la “prova provata” e disse proprio così, come faceva sempre per rafforzare le sue affermazioni. Ne fece un elenco, di questi atteggiamenti ingenui o sprovveduti, premettendo di avere verso di essi la stessa reazione di “Fratel Giambattista”, essendo anch’egli «homo hilaris, festivus et iocosus», oltre che «animo ad iocandum prompto ac ingenio hilari et lepido», lasciandomi effettivamente più sorpreso che persuaso e con un grande dubbio: cosa avrà voluto dire? Dandomi però subito la risposta. A suo parere, il motivo per cui la gente semplice presta fede alle leggende sui tesori nascosti, agli intrugli medicamentosi dei Ciarlatani o a certi prodigi che crede miracolosi, come era avvenuto con quel Religioso che illudeva i fedeli facendo muovere con un meccanismo nascosto la testa d’un Crocifisso, non è dovuto alla sprovvedutezza della loro mente, ma è una difesa contro le tante angustie dell’esistenza, perché la speranza di trovare prima o poi un tesoro, di essere a breve guariti dal dolore che li affligge, di ricevere un dì quella grazia tanto attesa, consente loro di resistere giorno dopo giorno alle avversità quotidiane. Infine, Fra’ Giuseppe si disse in perfetto accordo circa l’ultima delle “dabbenaggini” irrise dal Provicario, quella di consegnarsi ai Medici in caso di gravi malanni, rischiando così il peggio, anziché cercare la propria salute e la propria guarigione attraverso i molteplici rimedi offerti dalla natura, come ad esempio le acque salutari dalle virtù meravigliose dei tanti antichi Bagni dei dintorni.
Ripromettendoci di tornar quanto prima a verificare ancora una volta le virtù delle acque dei Bagni, essendo l’ora del rientro, ripercorremmo il cammino compiuto e tornammo nel nostro Claustro, dove il Padre Labat – visto lo spirito allegro che animava la comitiva – volle far partecipi noi tutti di quella che definì «una malizia sui tesori che forse non avrà tanto presto il suo effetto» ma che stava pensando di porre in essere quale “scherzo ai posteri”. Ci fece attraversare la corte quadrata scoperta del Chiostro, che aveva su tre lati il vecchio porticato di cui si doveva costruire il quarto lato per completare la nostra Casa. Ci mostrò l’angolo dove sarebbe stato costretto ad ispessire considerevolmente un grosso muro, per compensare un fuori squadro che si formava tra questo e la Chiesa e, siccome ciò gli avrebbe comportato un inutile spreco di parecchia muratura, spiegò, ridendo, che pensava di riempire quello spazio di pietre leggermente coperte di malta.
Lì avrebbe messo nel mezzo una grande pignatta di coccio verniciata, coperta da un grande e bel quadrello di marmo bianco, nella quale voleva chiudere un paio di corna di capra o di bue. Sul quadrello aveva immaginato di poggiare un teschio, circondato di tegole ben cementate, e di completare dopo ciò il resto della sua opera con qualche altro elemento misterioso, incidendo sulla malta dei segni cabalistici o qualche figura inquietante. «Sono ben sicuro – concluse – che, nei tempi a venire, quelli che scaveranno in quel posto crederanno di trovare un tesoro quando ne scopriranno il guardiano e faranno molte congetture quando apriranno la pentola con le corna, temendo chissà quali vendette del Diavolo custode!»
Molto divertiti dalla spiritosa idea di Padre Labat, subito ci ricomponemmo per entrare, attraverso la Sacrestia, in Chiesa, dove tutti gli altri Padri erano già nel Coro per la Sesta. Al termine, Padre Fati ci esortò, con le parole della Summa di San Tommaso, a compiere con zelo e devozione la maggiore delle incombenze della vita religiosa: «Contemplata aliis tradere». Nel Refettorio, lo stesso Fra’ Giuseppe volle porgerci lo spunto per la nostra “contemplazione”, sottoponendoci l’ormai famoso caso del tesauro al Campo del Lauro («Alla buon’ora!» esclamerà il lettore, giunto inappagato all’ultima pagina). Orbene, il caso consisteva nella leggenda che a Sud della Città, ben oltre il Fosso dell’Infernaccio che forma la costa meridionale della Bandita delle Mortelle (o sia la Tenuta della R.C.A. concessa alla Comunità in enfiteusi dal 1441) e che la Strada per Roma scavalca con il così detto “Ponte nuovo”, a monte della terra del Dottor Paolo Biancardi (col quale eravamo in causa proprio per l’altro terreno, quello di cui abbiamo parlato prima, dove intendevamo fare la nuova porta del Convento), esistessero grandi tesori nascosti nella Tenuta chiamata “Campo dell’Oro”, spettante ai Reverendi Padri di San Francesco. Ricordava in proposito Padre Fati d’aver letto in archivio che, nell’ottobre del 1561, il medico Giuseppe Gallo aveva ottenuto da Leone X – forse mentre il pontefice era impelagato con il già menzionato “Colosso rimosso” – di scavare per un mese, alla presenza di due ufficiali del Comune, proprio da quelle parti, sperando di estrarre le mitiche “trovature” e invece non trovando proprio nulla. Conclusione: il nome di Campo dell’Oro non si riferiva a favolose ricchezze occultate e non derivava neppure dal biondo colore del grano delle messi ma, molto semplicemente, era quello del torrente che lo lambiva, il Fosso del Lauro, a sua volta dovuto alle piante che vi crescevano, quelle di Lauro, appunto, o Alloro se si preferisce: il Laurus tanto caro al mio Francesco Petrarca, anche per il richiamo all’amata Laura, e di cui fu cinto il suo capo in Campidoglio, quale Poeta laureato, l’8 aprile 1341. L’insegnamento era chiaro.
Quella che era diventata ormai una lezione geografica vera e propria sulle denominazioni delle località di Civita Vecchia et ses environs proseguì nel pomeriggio, quando Fra’ Giuseppe, insieme a Fra’ Domenico e ad un altro paio di confratelli, vollero dare al Padre Labat ed a me una ulteriore illustrazione delle bizzarrie che si potevano riscontrare a cercare il vero significato e l’origine di quei nomi. Ne vennero fuori d’ogni genere, ma i più divertenti erano tre. Il primo era il nome di Colline dell’Argento (con un Casale omonimo) di certi terreni sopra i Bagni di Adriano, un altro posto che non aveva nulla a che fare con i metalli preziosi, perché si trattava – Padre Fati citò a memoria una bolla di Gregorio XIII del 1580 – della «tenutam seu bannitam vulgariter nuncupatam Cerquignani delli Argenti», cioè appartenente alla famiglia d’un certo Paolo Argenti, che nel 1522 si era impadronito di tre “pezze di terra” lì nei pressi, in luogo detto “Poggio del Bagno”, ma dovette restituirle senza indugi alla R.C.A. Il secondo e il terzo erano i nomi del Ponton de’ Rocchi, divenuto “Puntone di Rocca”, e Cava dei Gessi, divenuto “Cava del Gesso”, che non si riferivano a materiali da costruzione ma a due famiglie che erano state proprietarie di quei luoghi ed erano ancora ben presenti in Città. E con qualche altra punzecchiata reciproca sull’acume delle nostre rispettive Nazioni, ci ritirammo finalmente ognuno nella nostra stanza.
[Aggiungo qui al racconto di JHW un mio pensiero finale sullo “scherzo”] Non sappiamo – e difficilmente potremo mai sapere – se lo scherzo per i posteri preparato da JBL ha sortito i suoi effetti, se insomma qualcuno, nel tempo, ha mai ritrovato quel teschio sghignazzante a guardia della pignatta con le corna di caprone. Per JBL, per noi stessi, mi piace pensare che sì, dopo i barbarici bombardamenti alleati del 1943-44, durante gli otto anni di sopravvivenza delle rovine del Convento e della Chiesa e la strenua resistenza della Facciata di Padre Labat, dopo che qualche colpo di piccone aveva svelato l’accrocco con il teschio, l’operaio abbia fatto accorrere qualche alto personaggio ed anzi più d’uno e quelli – mi par di vederli – fatto smontare pezzo a pezzo il manufatto, invece del “tesoro” sperato si siano ritrovati tra le mani quel paio di corna… Quasi che, da quel lontanissimo 1710, la risata beffarda dell’architetto Jean-Baptiste Labat risuonasse ancora una volta sotto il cielo della Città e Porto di mare del Tirreno.
(Per copia conforme e per se stesso: FRANCESCO CORRENTI)
Note a chiarimento del curatore a numerazione continua dalle puntate precedenti:
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La definizione dell’Architettura come “gioco sapiente, corretto e magnifico delle forme sotto la luce”, fatta qui balenare nella mente di JHW, è una delle citazioni dal futuro che possono trovarsi in questi scritti. Questa è la celebre definizione di “Papà” [per chi ha letto gli articoli precedenti] Charles-Édouard Jeanneret-Gris detto Le Corbusier, architetto autodidatta e massimo Maestro di generazioni di architetti e urbanisti del XX secolo (La Chaux-de-Fonds 1887- Cap Martin 1965).
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Le tappe del cursus honorum del cardinale Imperiali, le vicende storiche citate a corollario del racconto e le notizie dei brani riportati tra virgolette sono autentiche e veritiere. La bibliografia di riferimento, ove non riportata nel testo, sarà allegata all’ultimo articolo della serie “Manoscritti riscoperti – 3”.
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Immagine di copertina: Padre Labat e il suo assistente Watteau davanti alla Cappella della Stella appartenente alla Confraternita del Gonfalone, i cui affiliati hanno il sacco e il cappuccio di tela bianca, disegno e rielaborazione informatica di Francesco Correnti, 2021.
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Le sei immagini inserite nel testo rappresentano: 1) Allegoria dantesca, immagini tratte da CC. VV., Dante. La visione dell’arte, Musei San Domenico – Forlì, 30 aprile-11 luglio 2021, Mostra ideata e promossa da Fondazione Cassa di Risparmio di Forlì, Gallerie degli Uffizi con Comune di Forlì, Forlì-Firenze 2021: 2) S.E. Imperiali a Civitavecchia, immagini tratte da Alfonso Gambardella, Architettura e committenza nello Stato Pontificio tra barocco e rococò. Un amministratore illuminato: Giuseppe Renato Imperiali, Napoli 1979; 3) Piante della Chiesa e del Convento di Santa Maria di Civita Vecchia, ricostruzione di Francesco Correnti, in “OC/quaderni del c.d.u.”, anno IX, n° 901/1, gennaio-marzo 1990, Civitavecchia 1990; 4) Forme della ceramica vascolare greca ed etrusca, disegno di Francesco Correnti, Taccuino M013, 2018; 5) Veduta prospettica di Civita Vecchia intorno al 1760, disegno di Francesco Correnti, Taccuino M015, 2019; 6) Lo scherzo per i posteri del padre Labat, disegno di Francesco Correnti, Taccuino M018, 2021.
Gianvattò ne sa una più del Diavolo !
Architetto Correnti, di solito , la sera, leggo qualche passo dei pochi libri che possiedo su Civitavecchia, vorrei quindi ricordare agli amici la necessità di una biblioteca comunale che raccolga le opere sulla nostra Città e spero che questa sua ultima dia la luce in tempi brevissimi!
Sono incuriosita dalla cornice che racchiude questi ” Tesauri” che vi sono trattati con maestria di architetto e di scrittore. Simpatiche figure emergono , come quella dell’assentista Guido Pazzaglia, luoghi esotici ed un poco esotica anche la Città del 1700, con i Turchi venditori di stoffe, per non parlare delle minuziose informazioni che emergono sulla Città papalina. Debbo fermarmi, grazie per la piacevole e dotta serata.
Una sua lettrice Paola Angeloni.
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Sempre troppo tardi mi accorgo dei commenti. Anche se ultimamente distrtatto da vari inciampi. Grazie, le informazioni sulla città potrebbero essere tante davvero, a volerci passeggiare strada per strada. Magari con altri che ne conoscano altri segreti. Ma non lo credo possibile. Come dire che si può far ragionare chi ha mentalità, idee e occhi condizionati da modi e abitudini e certezze assurde, come stiamo vedendo a livelli terribilmente pericolosi per l’intera umanità.
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