PARIGI, 1960
di VALENTINA DI GENNARO ♦
Quando mio padre parte per Parigi è l’autunno del 1960, ha ventun anni. Lavora da undici. Gli è da poco nato il quarto fratello e ormai è già un esperto pasticciere, con una delusione d’amore nascoste nelle tasche, come solo le delusioni dei venti anni ci sanno stare.
Partono in macchina, con altri tre amici, che poi sono fratelli e colleghi di lavoro.
Nato nel 1939, Parigi rappresentava la meta più ambita di quella generazione.
È la Parigi del mito dell’internazionale comunista, la patria degli esuli, dei clandestini.
Ma è anche la capitale europea del divertimento, ancora non è arrivata quella che Jacques Brel avrebbe chiamato “la moda di essere triste parigina” per poi trasferirsi nella Polinesia Francese.
C’è ancora nell’aria la voglia di vivere del dopoguerra, i giorni peggiori sembrano essere passati, il boom degli anni ‘50 ha fatto addirittura acquistare un auto a qualche ragazzo abbandonando la vespa e la bicicletta.
Partirono dopo l’ultimo turno di lavoro, prima delle ferie, con una Fiat 1100, ci misero 24 ore per arrivare nella capitale francese.
Guiderà quasi sempre lui, guidare gli piacerà sempre.
Parigi li accoglie con una pioggerella che rende tutto molto più affascinante.
Li aspettano Pigalle e Montmartre. Passarono una settimana di dissennatezza.
Scoprirono liquori, cibi e sesso sconosciuti.
Credo che tutta la gioventù di mio padre si sia concentrata in quella settimana. Quasi dieci anni dopo, quando si fidanza con mia madre, è già un uomo fatto, di quel ragazzo sembra non ci sia già più traccia.
Lo aspettavano dietro l’angolo gli anni ‘70 con l’austerity, la prima figlia e poi i bagordi borghesi degli anni ‘80, di cui, invece, sono figlia io.
Quando tornano, lo fanno galleggiando sui marciapiedi civitavecchiesi, con il sorriso e la soddisfazione di chi è stato più lontano di tutti.
Alle case popolari di via Leopoli dove abita gli fanno dei capannelli tutt’attorno.
Vogliono sapere di questa città delle luci, dell’amore, vogliono vedere com’è uno che ha usato un passaporto.
Mio padre ne parlerà per giorni e giorni, finché mio nonno Danilo lo metterà a tacere per un bel po’: “Ve lo dico io com’è Parigi, è una città, ci sono i palazzi e le vie ci passano in mezzo! E mo tutti a lavorá!”
Io sarei nata vent’anni dopo quel viaggio, eppure se chiudo gli occhi, quando ti penso, ora che la tua meravigliosa mente è altrove, per me sei questo ragazzo con il trench a Parigi, ma che se ti avvicini si sente inesorabilmente un profumo di Tirreno e panettone, insieme.
VALENTINA DI GENNARO
Mio padre a Parigi invece ci lavorerà qualche anno, in una filiale della banca e penso sempre che sarei potuta nascere lì e non, per sbaglio in un oscuro paese della Sicilia, dove vivevano i nonni materni e dove i mie genitori,con mia madre ormai al nono mese di gravidanza, erano andati per le vacanze natalizie. Penso che a Parigi magari tutta la mia vita sarebbe stata diversa e non mi troverei in questa città ad esplorare il nulla
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Rosamaria
e non mi troverei in questa città ad esplorare il nulla”.
“Quando come un coperchio il cielo basso
e greve
schiaccia l’anima che geme nel suo eterno
tedio”..
Spleen di Parigi, Baudelaire.
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Toccante evocazione, Valentina. Ci hai fatto avvertire il fascino di quella Parigi del mito della nostra adolescenza: Brel, Greco, Sartre, De Beauvoir, Camus, Certo. per quanto mi riguarda, la Parigi triste degli artisti, non quella fascinosamente dissoluta di Pigalle.
Merci beaucoup.
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