Fatti & Fattacci della Civita-Vecchia dell’Ottocento – 10. La fuga
di SILVIO SERANGELI ♦
C’era sorpresa, quasi sgomento e molta delusione nel viaggiatore che pieno di curiosità, finalmente, si trovava di fronte, quasi a toccarlo, il brigante Gasparone. Ma come, era proprio lui, quell’ometto con lo sguardo dolce, l’aspetto dimesso che della spericolata e feroce avventura aveva forse conservato soltanto la lunga barba? Eppure i barcaroli che trasportavano questi turisti dai battelli fino al molo non facevano altro che indicare dove e come poter vedere il terrore degli stati del papa. Bastava trovare la strada giusta che era poi quella della legge del porto di Roma: pagare sottobanco tutti, dai gendarmi ai doganieri.
E con un’adeguata mancia l’ufficiale di turno ti portava al cospetto di quello che era diventato una specie di fenomeno da baraccone. Ed egli, le brigand, non ti raccontava le sue imprese, come speravi e ti aspettavi: niente schioppettate, pugnalate, fughe rocambolesche. Ti si avvicinava con deferenza e ti mostrava le sue composizioni poetiche, ti sfogliava i suoi libri di lettura e, da ultimo, si congedava magari donandoti una papalina fatta da lui o un foglio con un suo componimento con tanto di firma. Nella Fortezza, in verità, erano reclusi anche altri briganti, che potremmo definire quelli “seri” che non avevano mai smesso di provare rancore e rabbia per la loro prigionia, non si sognavano neppure lontanamente di pentirsi e cercavano in tutti modi di fuggire, per tornare alla loro vita spericolata di assassini. Ma quelli che avevano cercato di scappare, chi travestito da marinaio, chi infilato in un cunicolo senza uscita, erano stati tutti presi. Anzi il comandante della piazzaforte aveva deciso di trasferire i suoi “ospiti” in un luogo più sicuro, al pianterreno con una sola finestrella che guardava all’interno del Forte, protetto da muri spessi diciotto palmi. Una scelta che risultò infelice, perché Decesari e altri tre briganti, suoi compagni di ventura, manco a dirlo tutti ciociari, riuscirono lo stesso ad evadere. Ma come? Con un colpo di fortuna.
Dopo un anno che era segregato nella cella del capo capitò il finimondo. Una tremenda libecciata colpì il litorale con gravi danni, ma con un effetto insperato per Decesari che era molto astuto e con un’intelligenza notevole. Così egli sentì che da uno spiraglio delle tavole del pavimento veniva su una corrente d’aria. Segno che c’era del vuoto sotto di lui. Senza fare parola con nessuno, l’indomani mentre gli altri sonnecchiavano, strappò un lembo di stoffa fine, vi annodò una piccola pietra e la fece scendere attraverso la fessura. C’era il vuoto sotto la cella! Facendo la massima attenzione a non farsi scoprire, nell’ora e nel momento giusti, schiodò una tavola e fece scendere in perlustrazione Adelmo, il suo uomo di fiducia. Con una candela in mano percorse una serie di cunicoli, fino a intravedere una flebile luce. Ma c’erano delle pietre, della terra che ostruivano il passaggio.
Così nei giorni successivi, a mani nude e a turno, gli uomini di Decesari riescirono ad aprirsi un varco, fino ad arrivare a una finestrella chiusa da una grata arrugginita. Lo sguardo scopriva il porto e intravedeva i calzari di qualche passante. Dopo sei anni di dura prigionia era arrivato il momento d’agire. Ma come? Bisognava neutralizzare il carceriere che, per ordine del comandante, passava la notte fra i reclusi. Quado fu il turno di un tale Riccobelli, come la gran parte dei guardiani di origine tolfetana, gli fu offerta una gran quantità di vino, fino a stordirlo. Facendo attenzione ad evitare il minimo rumore, Decesari e si suoi compagni che avevano limato le catene, tolsero le tavole del pavimento e scesero nel sotterraneo. Adelmo li guidò verso la finestrella. Le sbarre furono scardinate facilmente. Tutti fuori, costeggiando la riva della marina, fino a Porta Romana. Sfortunatamente la sentinella di guardia sul viale che conduceva al porto si accorse della strana luce che proveniva dalla finestrella, e diede l’allarme. Ma Decesari e tre dei suoi fidati compagni erano già lontano. Gli altri furono ripresi e ricondotti alla Fortezza. Fra loro, ironia della sorte, proprio quell’Adelmo che per primo aveva intravisto la libertà con la candela in mano, attraverso la finestrella. Ritornò l’ordine e iniziò senza successo la caccia agli evasi. Il pavimento in legno della cella fu sostituito con uno in muratura.
Le cronache parlano di nuove imprese della banda: il rapimento di un mercante, il sequestro di un conte, il tentativo non riuscito di rapire il cardinale Fesh, lo zio di Napoleone, nella sua villa di Frascati. Per un clamoroso scambio di persona catturarono un pittore francese che si trovava nel salone della villa, ma ebbero lo stesso un buon riscatto. In questo incalzare di atti criminali nel tipico codice del brigantaggio di togliere ai ricchi, Decesari consumò una vendetta tutta personale. Andò a cercare, scovò, uccise a pugnalate il carceriere che per anni lo aveva insultato, gli aveva sputato addosso e sbattuto in faccia la catena. Lo aveva scovato in campagna, mentre governava le bestie del suo comandante: «Nun me arriconoschi? So’ io. Nun ce credi? Mo’ sto qui, libbero. Nun ridi chjù ? » E partì la scarica di colpi di inaudita violenza. Senza scomporsi, prese il corpo maciullato e lo gettò ai maiali nel porcile.
SILVIO SERANGELI
**Le immagini sono acquerelli originali di proprietà dell’A..