Il voto romano e una provincia che non si fa «Città»
di NICOLA R. PORRO ♦
Le città metropolitane hanno rappresentato un’importante innovazione amministrativa in un Paese come l’Italia dove un vivace policentrismo socio-culturale si è storicamente associato a un marcato centralismo istituzionale. Partorite dall’ingegneria dei sistemi e modellate sull’esempio di Paesi europei geograficamente vicini, ma assai diversi dal nostro sotto il profilo politico-istituzionale, non hanno però mai mobilitato, né potevano farlo, percepibili sentimenti di appartenenza.
Le logiche della gestione amministrativa, pomposamente ribattezzata policy dei sistemi locali, sommandosi a quelle della consuetudine, stanno tuttavia cominciando a produrre legami di nuovo tipo fra Centro e Periferia in un sistema territoriale vasto e complesso come quello romano. In proposito è però interessante osservare come la «provincia» abbia vissuto con sostanziale indifferenza una vicenda politicamente cruciale come le elezioni comunali di Roma dell’ottobre 2021, i cui esiti influenzeranno grandemente l’azione amministrativa degli altri 120 comuni dell’Area.
La Città metropolitana di Roma Capitale, istituita nel 2014 e operativa dal primo gennaio 2015, presentava nell’ottobre 2021 una popolazione di 4.227.588 abitanti, superiore a quella di otto Stati Nazione della UE. Roma, che rappresenta nel contesto europeo una capitale di medie dimensioni, ne ospitava 2.783.809: i due terzi della popolazione totale della città metropolitana. La popolazione residente nei comuni minori contava invece poco meno di un milione e mezzo di abitanti. Più o meno la stessa popolazione di regioni come la Sardegna, la Liguria e le Marche e molto di più di quella di Abruzzo, Friuli Venezia-Giulia, Trentino Alto Adige, Umbria, Basilicata, Molise e Valle d’Aosta.
L’intera area presenta una superficie di oltre cinquemila chilometri quadrati e comprende ben 121 comuni. In base ai dati demografici al primo gennaio 2021, i cinque maggiori, dopo Roma, sono Guidonia (86.732 abitanti), Fiumicino (76.246), Tivoli (54.046), Velletri (52.943) e Civitavecchia con 51.548. Alcuni di essi rappresentano in realtà la denominazione amministrativa di un conglomerato di insediamenti minori. Altri rispondono al modello definito dagli urbanisti «sottosistemi funzionali» rispetto alla metropoli. Quelli più distanti dal Centro e caratterizzati da uno specifico profilo socio-economico – è il caso di Civitavecchia, che ospita il secondo porto passeggeri del Mediterraneo e uno fra i primi d’Italia per volume complessivo di traffici – non possono invece essere considerati semplici appendici del più vasto sistema metropolitano. Al quale però appartengono e dalla cui azione amministrativa dipenderanno sempre di più in regime di Città metropolitana.
Il rischio è che questa tipologia di comunità patisca un’asimmetrica distribuzione dei poteri amministrativi – parlo di «poteri», non di risorse materiali – e sviluppi una sorta di sdoppiamento dell’identità. Rappresenteranno queste comunità la periferia del Centro o i centri di una Periferia dagli incerti confini? Li attende un destino simile a quello dei trentatré boroughs che compongono la Grande Londra? Oppure si replicherà il modello dei dodici territori di Parigi: una vasta area metropolitana (oltre dodici milioni di residenti) per una capitale più o meno delle stesse dimensioni demografiche di Roma?
Forse la distratta attenzione riservata al voto comunale di Roma, decisivo per i destini del territorio nella stagione dell’agognato riscatto post-pandemico, non rivela soltanto un’ancora insufficiente percezione delle concretissime conseguenze della riforma amministrativa. È probabile che segnali anche la pericolosa tendenza a un’autoghettizzazione culturale e simbolica che si manifesta puntualmente nella decrescente qualità del ceto amministrativo e nell’inconsistenza delle leadership politiche locali. In un perfetto esempio di eterogenesi dei fini, l’autonoma virtuosa promessa dalla Città metropolitana rischia così di tradursi in un rapporto ancor più subalterno con la Città capitale.
Il primo turno elettorale (svoltosi il 3 e 4 ottobre 2021) per l’elezione del Sindaco e il rinnovo del Consiglio comunale romano ha mandato al ballottaggio il candidato delle destre, Enrico Michetti, e quello proposto dal Pd, Roberto Gualtieri. Un outsider «in quota» Fratelli d’Italia e un esponente Pd di formazione accademica, ex ministro e parlamentare europeo. Al secondo, personalità solida e affidabile, manca un pizzico di carisma. Al primo manca tutto il resto.
Il dato che colpisce maggiormente è l’elevatissima percentuale di astenuti al primo turno: oltre metà degli aventi diritto. La diserzione dalle urne segnala sempre un malessere serpeggiante nel corpo elettorale. Il fenomeno non è solo quantitativo: in discussione è la qualità dell’offerta politica. Di fatto è chi non vota a decidere le sorti amministrative di una comunità. Non è una novità e non riguarda solo l’Italia, che pure ha storicamente vantato, sino agli anni Novanta, una partecipazione popolare al voto più elevata degli altri Paesi europei. Illustri politologi si sono ogni volta affannati a spiegare come, in contesti di democrazia matura, un’elevata quota di astensionismo non comprometta legittimità ed efficienza delle istituzioni elettive. Non si può negare, tuttavia, che lo sciopero del voto metta in luce un deficit qualitativo dell’offerta politica e non vada perciò derubricato a pura fisiologia del sistema rappresentativo. I dati elettorali del 3 e 4 ottobre possono essere usati – ma occorrono strumenti adeguati, come l’analisi dei flussi, di cui non disponiamo ancora – per cogliere la meno palpabile dimensione sociologica che sottostà alle opzioni di voto. Si può per il momento osservare, in proposito, la tavola 1 che mette a confronto il voto comunale nel primo turno del 2016 e in quello del 2021. Essa ci aiuta almeno a confermare o a smentire alla grossa le analisi del voto stilate a tambur battente all’indomani del primo turno.
La quasi totalità dei commentatori ha descritto il voto del primo turno – più significativo del ballottaggio ai fini di una ricognizione sociologica – come una conferma della tendenza della sinistra (e segnatamente del Pd) a confinarsi nel fortilizio del centro storico privilegiando sempre più gli interessi, gli umori e le idiosincrasie della media borghesia progressista. La fototessera della sinistra della ZTL: gli odiati «radical chic» che tanto piace citare a Salvini in attesa che qualcuno gli spieghi il significato autentico di quella espressione. La sinistra in formato ZTL, che peraltro prevale solo in quattro dei quindici municipi romani, incarnerebbe la mutazione genetica di un movimento, di discendenza Pci, sino a pochi decenni fa insediato nelle periferie suburbane e nei quartieri popolari ubicati fra il centro e le periferie a ridosso del GRA. La mappa del voto non mi pare però del tutto sovrapponibile a quella descritta cinque anni fa dalla sfortunata candidatura di Roberto Giachetti. Quel voto era assai più concentrato nel recinto del centro storico e dei quartieri correttamente definibili «borghesi». Gualtieri cattura invece al primo turno, con oltre il 30% dei voti, il municipio del Centro storico e Prati (primo municipio) e quello che comprende Parioli, Nomentano, San Lorenzo (secondo municipio). Ottiene però buoni risultati anche nella zona di San Giovanni-Cinecittà (settimo municipio) e nelle aree socialmente più composite della capitale. Mi riferisco all’Appia Antica (ottavo municipio), dove Gualtieri ottiene il risultato in assoluto migliore (33.8%), e a Monte Verde (dodicesimo municipio).
Di palmare evidenza è piuttosto la dispersione del cospicuo quanto volatile patrimonio elettorale conquistato dai cinquestelle nelle precedenti consultazioni. Solo in sei dei quindici municipi la sindaca uscente va oltre il 20% dei voti: in presenza di un astensionismo tanto consistente (il 51.17% degli aventi diritto) significa che appena un elettore su nove le ha confermato fiducia. Il Movimento, che prometteva di aprire le istituzioni come scatolette di tonno, assume un formato bonsai ritagliandosi un angolino nel vecchio sistema della rappresentanza. Aggiungo che il tonfo è di tali dimensioni da rendere ardua, in attesa di una corretta analisi dei flussi, una lettura di profilo sociologico del comportamento dell’elettorato ex grillino che pure si annuncia di grande interesse. Sembra tuttavia di capire, e sarà importante verificarlo proprio con i flussi, che l’elettorato deluso si sia rifugiato nel non voto piuttosto che nel consenso ad altre liste. La crescita dell’astensionismo è insomma sicuramente e massicciamente correlata al collasso cinquestelle.
Dieci municipi vanno a Michetti: un risultato soddisfacente ma non sufficiente a farne il favorito per il ballottaggio, quando Gualtieri pescherà in un serbatoio di voti «di risulta» potenzialmente più ampio. Michetti cattura in larga misura il consenso, a Roma tradizionalmente esteso, di una destra che comprende ambienti genericamente conservatori sino a lambire aree non trascurabili di nostalgia neofascista, nonché un’opinione pubblica sensibile alle sirene di un qualunquismo 2.0 ben incarnato dal profilo dell’aspirante sindaco.
Il consenso a Calenda è il più caratterizzato in termini di composizione sociale dell’elettorato. Conquista il secondo municipio (Parioli, Nomentano San Lorenzo) con il 35.4% ma precipita al 9% nella vasta periferia della Roma popolare: l’area di Tor Bella Monaca e Tor Vergata. Sono dati che parlano da sé: è solitamente assai difficile trovare una distanza di tali dimensioni – un rapporto di uno a quattro – fra il risultato migliore e quello peggiore ottenuto da un candidato nella stessa consultazione. Quello di Calenda è chiaramente un consenso upper class capace di convogliare umori più propriamente politici distillati da un mix di vicende locali e di ambizioni nazionali.
Un’area a composizione sociale eterogenea, quella del terzo municipio (Monte Sacro), vede invece, come il settimo (san Giovanni Cinecittà), un testa a testa fra Gualtieri e Michetti. La mappa illustrata dalla tavola 1 mostra perciò abbastanza chiaramente la struttura del consenso al centrosinistra: una struttura radiale piuttosto che concentrata nella roccaforte dei quartieri bene come nella rappresentazione prevalente. È da osservare come il consenso a Gualtieri sia inferiore al 25% nella vasta e più socialmente disgregata area delle Torri (sesto municipio) che comprende Tor Bella Monaca, Tor Vergata, Casilino. Ma fortemente negativi per il centrosinistra sono anche i risultati del nono e decimo municipio (EUR e Ostia) nonché di un’area, quella del quindicesimo municipio, che include la zona, non certo “proletaria”, della Cassia Flaminia.
La tavola 2 mostra bene, invece, come in tre elezioni diverse svoltesi a Roma, e che descrivono arene politiche differenziate – cambiano le forze in campo, i temi salienti della campagna e le sedi istituzionali interessate -, il consenso al Pd o ai suoi candidati cresca con la politicità del voto. È massimo con le Europee 2019 e minimo con le Comunali del 2016 che incoronarono Virginia Raggi. Nemmeno il voto per la Camera dei deputati 2018, pur marcatamente centripeto, è banalmente riducibile alla dimensione ZTL.
Si può concludere che il profilo sociologico del voto non coincide più di tanto con la rappresentazione semplicistica offerta da improvvisate letture giornalistiche o da commenti politicamente malevoli. Occorrerà però un’analisi di medio periodo che si interroghi meglio e di più sulle effettive e profonde trasformazioni del comportamento elettorale. Un’analisi che non può essere condotta solo attraverso categorie politologiche: rinvia alle imponenti trasformazioni socio-demografiche intervenute a Roma nell’arco di un trentennio, alle politiche dei governi nazionali, all’impatto di inedite dinamiche migratorie, alla terziarizzazione dell’economia. In questa cornice va inscritta la meteora Raggi-cinquestelle e il suo rapido declino. Ma esige una riflessione anche la difficoltà della sinistra a intercettare le nuove domande che scaturiscono da una condizione urbana mutata rispetto alle letture offerte dalle vecchie categorie politiche. Riflessione di cui è, se possibile, ancora più urgente investire quell’area della Città metropolitana ancora sospesa fra il Centro e la Periferia del nuovo sistema.
NICOLA R. PORRO
Analisi accurata e molto reale della situazione politica della città metropolitana romana in questa tornata elettorale. Nulla da aggiungere, ma per riprendere le mie convinzioni di sempre mi torno a chiedere se la Tuscia, tutta la Tuscia, non debba riaffermare la sua autonomia dalla città metropolitana e concretizzare in forma concreta ed efficace il distretto dell’Etruria meridionale che è ormai una realtà sulla carta ed ha visto proprio qui a Civitavecchia e nei cento comuni consorzioati venti e più anni di buone pratiche.
"Mi piace""Mi piace"
L’analisi di Nicola pienamente esaustiva e le osservazioni di Francesco inducono a porre in evidenza come l’idea forte sia quella chi i “centri” non possano risolvere molti dei problemi esistenti. Una soluzione non può che avvenire fornendo energia autonoma alle varie municipalità che, specie quelle che insistono attorno alla metropoli romana, hanno resistito per secoli con storie di grande momento.
Una docile subordinazione di quel sistema esteso dii municipalità oggi è non più pensabile.
La Tuscia marginalizzata ed il litorale civitavecchiese debbono spezzare quel vincolo di dipendenza rispetto al centro già gravato da mille esigenze non risolte. Già da tempo le aree in questioni producono stili di esistenza, modelli produttivi, tradizioni alternativi. Queste aree di sofferenza stanno dimostrando una reattività inusitata.Dare legittimità , capacità di esistenza politica, responsabilità è la sfida del momento.
Dopo l’esperienza Covid si è dimostrato quanto rilevante sia il territorio e la dimensione locale: rivincita del marginale rispetto al centrale!
L’esperienza epidemica ha, difatti, ben dimostrato ” l’estrema vulnerabilità dell’ Italia dei pieni e i vantaggi che possono derivare dai vuoti” (Manifesto per riabitare l’Italia, 2020).
Il Covid ha, cioè, mostrato l’importanza dell’ Italia dei vuoti, delle mancanze, delle assenze, delle perdite. Dare alle aree marginali l’opportunità di essere meglio “abitate”, ovvero di disporre di maggiori autosufficienze che corrispondano ad una più incisiva politica di manutenzione dei centri, dai quali sono dipese da sempre, è la vera sfida.
Concordo, dunque, con le osservazioni di Francesco e grazie a Nicola che ci ha permesso di riflettere.
Un “Manifesto” sull’area del Lazio nord sarebbe cosa buona e giusta.
"Mi piace""Mi piace"
Proprio giorni fa discutevamo con Carlo dell’enorme potere che si concentra su Roma con conseguenti clientelismi, reti di protezione reciproche, privilegi di casta. Questo ostacola e spesso rende inattuabili non solo progetti di trasformazione strutturali, ma anche interventi minimi, ad esempio sul degrado urbano. Giustamente Francesco ritiene che il nostro territorio trarrebbe grandi vantaggi dal rendersi autonomo dalla città metropolitana e bene ha fatto Nicola, con la consueta chiarezza, a dare spunti di riflessione in materia
"Mi piace""Mi piace"
I contenuti di analisi drl prof sono veri “studi” sociologici che offrono una bussola di orientamento nel marasma politico cittadino e tanti validi spunti di riflessione sul partito dell’astensione. Grazie Nicola.
"Mi piace""Mi piace"