La piccola biblioteca di Santa Lucia
di ANNA LUISA CONTU ♦
Agli inizi degli anni sessanta la mia famiglia aveva preso a mezzadria un terreno a Santa Lucia. Venivamo da una tenuta nell’agro Romano dove la campagna era coltivata con un’agricoltura intensiva e a frutteto e quindi la terra in cui far pascolare il nostro gregge non era sufficiente. Così capitammo a Civitavecchia , nella tenuta Filò, un viterbese che manteneva le terre incolte. Non penso che amasse la sua terra e infatti si curava poco anche dell’abitabilità per i suoi affittuari e mezzadri.
A Santa lucia c’erano i terreni dell’Ente Maremma che aveva distribuito appezzamenti di una decina di ettari ai contadini , quasi tutti di origini abruzzesi e marchigiani, ma anche qualche sardo, come aveva fatto l’Unione, dopo la guerra civile americana, quando agli schiavi liberati vennero concessi “40 acri e un mulo”.
In un casale dell’ente Maremma, al piano superiore aveva sede una scuoletta con una multi classe elementare e una piccola biblioteca e al piano terra una chiesetta , in realtà una stanza , frequentata dalle famiglie dei contadini della zona, con la sua bella campana per richiamare i fedeli la domenica mattina.
Un paio di volte al mese, di pomeriggio, la biblioteca era tenuta aperta da un maestro che veniva da Civitavecchia, non so da quale scuola, per i prestiti . Io frequentavo una scuola media in città e viaggiavo con i pullman che partivano da Tolfa ed Allumiere. Quando li vedevo spuntare da Tramontana , partivo dal nostro casale ai piedi della collina ed era una gara per chi arrivasse prima alla fermata. Questo fatto era agevole in primavera col bel tempo, ma in inverno era una sfida anche col fango della strada sterrata.
Presi a frequentare quella biblioteca ed è stato come scoprire l’America o una miniera di diamanti, il sogno che facevo da bambina che nella stanza magazzino dove mio padre metteva a stagionare il formaggio, si aprissero, all’improvviso, rubinetti dai quali sgorgavano, a piacimento, caramelle, dolciumi, cioccolati, gelati ma anche panini imbottiti con la mortadella. C’erano, in edizione integrale o facilitata, i grandi classici della letteratura mondiale, Dickens, Hugo, Balzac,Conrad, i russi, tutto Salgari e persino “Mademoiselle de Maupin” di Teophile Gautier.
Due o tre volte al mese scendevo le scale del casale con un carico gioioso ed eccitante che riconsegnavo la volta seguente .
La biblioteca, pensata come un servizio culturale per i contadini e le loro famiglie da amministratori di coscienza, non era molto frequentata. Ogni tanto veniva qualcuno dalle campagne e poiché la scarsa affluenza rischiava di far chiudere quel prezioso, per me, servizio mi resi complice di un piccolo atto di disonestà. Firmavo il prestito dei libri a nome delle mie sorelle, degli amici, delle persone che forse mai avevano tenuto in mano un libro. Firmai anche una richiesta di acquisto di nuovi libri che non arrivarono mai.
Poi il maestro, la piccola biblioteca , la chiesetta e la scuola svanirono come in una dissolvenza cinematografica.
Molti anni dopo, da assessore alla Scuola del comune di Civitavecchia, avrei voluto rivedere o avere notizie di quel maestro , dargli un riconoscimento per il suo oscuro e utile lavoro, ma non ne ricordavo il nome.
Recentemente, come fanno i vecchi che ricordano la vita lontana , mi è venuto in mente. Era il maestro Petrocchi.
ANNA LUISA CONTU
Io ho una memoria particolarmente deficitaria, ma non ho mai scordato la mia maestra ed il suo nome…. Non ho scordato i pomeriggi a casa sua, La mia maestra, nel pomeriggio, ospitava i suoi alunni in una sorta di piacevole doposcuola nel suo giardinetto o in casa, se pioveva. Fra un gioco ed un esercizio passavamo il pomeriggio per poi ritrovarci, al mattino seguente, nei banchi di scuola, di legno nero, con l’incubo per la penna ed il foro per il calamaio. Forse non ci sono più i maestri di una volta…. ma, del resto, non ci sono più i quaderni neri bordati di rosso, li ricordate? Pare che gli unici a non inginocchiarsi dinanzi all’imperatore del Giappone siano proprio i maestri. Proponiamo un monumento al maestro!
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Errore di stampa, “incavo” non “incubo”
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I Centri di Servizio dell’Ente erano pensati per una attività ricreativa, spirituale, commerciale sociale, assistenziale. Ma anche nel più efficiente di tutti (Santa Maria della Rispescia di Grossetoi)difficilmente era collocata una libreria. Così era nel Centro di Pantano di Civitavecchia.
L’area di Santa Lucia rappresentava un area periferica di bassa fertilità rispetto alla piana di Aurelia.
Tutto questo per dire che la tua magica biblioteca era iniziativa sostanziale del Maestro il cui nome ti è apparso improvvisamente dalla nebbia della memoria.
Ma quella piccola custodia di testi sarebbe rimasta inerte senza la presenza di un amore che la riscaldasse. Il Maestro ha affidato alla speranza una candela in un luogo ed ha atteso. Tu hai acceso l’esile stoppino e una lucetta ha riscaldato la stanza rurale. I vecchi scrittori hanno iniziato la loro danza sempre felici di rivivere attraverso gli occhi di un adolescente interessato.
Devi esser fiera di aver dato vita. Oggi, quelle pagine giacciono inerti, pochi gli sguardi che fanno rivivere le parole così felicemente combinate.
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❤️
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Caro Carlo, sono certa che la piccola biblioteca era progetto dell’amministrazione comunale attraverso una scuola cittadina, non iniziativa del maestro Petrocchi che non insegnava nella multiclasse . Penso ricevesse un piccolo compenso per il suo impegno, per me, utilissimo ed era ansioso che la biblioteca chiudesse per mancanza di intenti. Ciao.
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Utenti, naturalmente.
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Dear Lisa,
la tua scrittura fatta di rappresentazioni elementari richiama tracce pulsionali che mi permettono non solo di leggere ma anche di scrivere. Contemporaneamente alla lettura del tuo racconto ho partecipato alla disputa su di un gruppo molto popolare riguardo alla ” paternità ” della razza ”
” Caronte”. Si discuteva se il soprannome derivasse da una donna ” Fiorentini ” o da una donna ” Corvi “. i luoghi sono importanti: la biblioteca in un isolato casolare, i libri…, la solitudine e l’emarginazione, il distacco dal luogo in cui sei nata, essere ” oriunda” e conquistare una socialità. In un certo senso anche io sono stata oriunda, avendo frequentato tutte le scuole, dall’asilo alla terza media unificata dalle Suore del Preziosissimo Sangue. Non piccole biblioteche ma tabernacoli, letture mirate ed esercizi spirituali, monache bellissime, coperte da una ghiera che nascondeva i capelli, una specie di chador. E’ lì che io ho acquisito la mia eredità simbolica al femminile, per niente gesuitica, al contrario giansenista, con un ” senso di colpa ” che ha marchiato la mia vita. Ma per fortuna alla tua colta solitudine al casale ( anche a Te poi è accaduto) ho saputo ritrovare quel poco di DNA che mi riporta al luogo! La Piazza Leandra e la Quarta Strada, la scenta dei Caronte della quale i miei cugini e nipoti ancora si contendono la primogenitura! La solitudine si allontana, il vento è il meridionale scirocco e la gioiosità, la prepotenza genetica (Leonardo), la razza ( Manola), i Fiorentini! ( Paride). E via via tra una moltitudine di cognomi derivati da un unico ceppo, riemergono le mutazioni antropologiche nate dalla dalle prime Donne! E via via le Fiorentini, le Villotti, le Scali, le Centurioni, le Verzilli. le Di Gennaro, le Capuani, le Corvi, le Gargiullo, le ” Fimmine ribelli”! Le Caronte… una famiglia “matrilineare” estesa che univa generazioni e stirpi in un unico centro storico. La razza era la comunità delle donne in rapporto al loro potenziale di procreazione, e la successione matrilineare, con un archetipo di grande potenza, rimane nel nome e nel soprannome assegnato dalla madre.
” E liberaci dal maschio. E così sia”
Amen…
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Che dirti , cara Paola? In questo tuo elenco hai dimenticato i Mattei, la famiglia, s’ereu, di mia suocera, vedi? Discendenza sempre matrilineare. E tuttavia , mentre ti capisco in questo tua memoria, così orgogliosa, delle tue radici, me ne sento completamente estranea. Come oriunda, sono terra di confine , di nessuna appartenenza, non mi appartiene il prima che c’è stato qui, in questa nuova patria, prima dell’immigrazione nè mi appartiene il dopo che c’è stato, nella mia terra , dopo l’emigrazione. Sono 60anni in questa città , le voglio bene, ne rispetto la storia ma non le appartengo. Spero leggerai, tra breve, le cronache, con la mia scrittura volutamente e retoricamente semplice, di un paese di Barbagia che, forse, contiene più storia di quell’unica giornata dublinese che si è inventato Joyce. E spero non penserai che io non sia consapevole della bestemmia proferita in questo accostamento. Con affetto.
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