Dell’elmo di Scipio si è cinta la testa? (III). La bella estate dello sport e qualche prospettiva da analizzare.

di NICOLA R. PORRO ♦

 

Quale sistema sportivo italiano è possibile descrivere all’inizio del terzo decennio del Duemila dopo la bella estate di Wembley, delle Olimpiadi e delle stesse Paralimpiadi?

Allo scopo non serve stilare opinabili graduatorie fra risultati conseguiti in arene competitive differenti e lontane nel tempo. Può invece essere utile una comparazione limitata ai quattro maggiori Paesi europei occidentali (Gran Bretagna, Germania, Francia e Italia) lungo un arco temporale ristretto: i tredici anni che separano Pechino 2008 da Tokyo 2021. La comparazione diacronica è in questo caso legittima perché il confronto interessa quattro Paesi impegnati in arene competitive omogenee ed esposti a identiche sfide ambientali.[1]

Questo tipo di analisi delle tendenze può aiutarci a cogliere le trasformazioni intervenute e quelle in corso nel sistema dell’alto livello, senza per ora approfondire il rapporto con la più vasta galassia sociale dello sport per tutti (o di cittadinanza) di cui ci si occuperà un’altra volta individuando i principali attori sociali del nostro movimento sportivo.

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Ricordo ancora come i recenti successi agonistici siano palesemente correlati a una crescita significativa dei titoli conquistati dal settore femminile, che dopo tredici anni torna a quota quaranta per cento del totale medaglie, in passato toccata solo eccezionalmente (a Pechino 2008). Le donne hanno conquistato ventisei medaglie in sedici diverse discipline, gli uomini quarantaquattro in venticinque specialità. L’Italia dell’alto livello si avvicina così a una situazione di equilibrio di genere non ancora raggiunta nella pratica non agonistica. Una evidenza empirica di grande rilevanza sociologica, che si accompagna a un’altra dinamica, ancora parziale ma già significativa. Essa riguarda il minore scarto nella distribuzione di successi fra atleti appartenenti alle tradizionali regioni forti rispetto a quelle storicamente meno rappresentate. Anche in questo caso la comparazione non è peregrina perché, sino a tempi recenti, l’Italia ha sofferto più dei suoi naturali avversari gli effetti di un dualismo territoriale che riproduceva, spesso enfatizzandolo, lo storico ritardo del Sud.  Acquista così un significato esemplare l’exploit dei campioni pugliesi che conquistando tre ori (come la Spagna o la Svezia) e due argenti si collocherebbero idealmente al secondo posto di una classifica per regioni. [2] Davanti all’armata pugliese solo la Lombardia che a sua volta, con sette ori, quattro argenti e otto bronzi, nel pur stucchevole gioco delle classifiche immaginarie, si collocherebbe al quattordicesimo posto mondiale.

Tokyo ci consegna insomma importanti novità e altrettanto significative conferme. Alla consistenza del medagliere azzurro concorre infatti massicciamente, come sempre, un formidabile sistema di sport militare e paramilitare. Lo sport “in divisa” non presenta ricadute dirette sulla pratica sociale diffusa, ma ha esercitato in Italia sin dagli anni Trenta un’indispensabile funzione organizzativa che ha supplito alla fragilità endemica dell’offerta scolastica e alla debolezza finanziaria delle società dilettantistiche. Ha anche surrogato, a partire dagli anni Novanta, il ruolo declinante dell’associazionismo universitario (i CUS) nella promozione e gestione di settori strategici come quello dell’Atletica leggera. Il nostro sistema sportivo sembra insomma acquistare competitività grazie alla sua crescente femminilizzazione e meridionalizzazione, ma le sue radici affondano ancora in gran parte nella tradizione delle Fiamme e degli altri gruppi sportivi militari e paramilitari.

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Il confronto con i nostri principali competitor europei aiuta a cogliere meglio i mutamenti in atto nel sistema dell’alto livello, a definire le nuove gerarchie di specialità e a gettare luce anche su significative e in parte inattese défaillance. Ciò può consentire, per esempio, di aggiornare il profilo, sia tecnico sia sociologico, di discipline come il ciclismo, rivoluzionate dall’emergere di nuovi protagonisti nelle specialità della strada, dall’impatto indotto della spettacolarizzazione mediatica nel settore della pista e da quel ricorso a tecnologie e materiali inediti che fa dello sport di alta competizione – in primis nella motoristica ma anche nella vela, nel surf, nel canottaggio, nell’alpinismo (e non solo) – un ineguagliabile laboratorio di sperimentazione industriale.

Tornando alla comparazione “fra simili” si osservi allora preliminarmente la tabella 1 relativa al profilo “morfologico” dei quattro competitor.

 Tabella 1 (a)   Popolazione mln al 2019 (b)  Pil 2019 (c)   Pil pro capite b:a  
Gran Bretagna 67.9 2.810.000 41.384
Germania 83.0 4.029.140 48.544
Francia 65.3 2.794.696 42.798
Italia 60.5 2.086.911

 

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Pare abbastanza evidente come si tratti di contesti nazionali che consentono un confronto ragionevole pur in presenza di un’interessante varietà di esperienze e di strutturazione dei sistemi sportivi. L’Italia rappresenta allo stesso tempo il Paese meno popoloso e con il Pil più modesto, sia in valore aggregato sia pro capite, nonché quello che ha subito in anni recenti una più severa e  prolungata recessione economica. Un’analisi ravvicinata – a dispetto di letture marcatamente “economicistiche” dei risultati agonistici – dimostra tuttavia che questi dati interessano relativamente poco le preferenze rivolte a varie tipologie di attività e alle imprese agonistiche delle discipline. Il  nerbo sociale dell’alto livello risiede infatti ancora nella rete dell’associazionismo gemmata dalla provincia italiana  e nel potente collettore agonistico dello sport in divisa.

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La tabella 2 propone invece un riepilogo sinottico dei risultati agonistici conseguiti dai quattro Paesi in sede olimpica nell’arco temporale 2008-2021.

Tabella 2. Totale medaglie conquistate 2008-2020 (fra parentesi le medaglie d’oro)
Pechino 2008 Londra 2012 Rio Janeiro 2016 Tokyo 2020
Gran Bretagna 47 (19) 65 (29) 67 (27) 65 (22)
Germania 41 (16) 44 (11) 42 (17) 37 (10)
Francia 41 (7) 34 (11) 42 (10) 33 (10)
Italia 27 (8) 28 (8) 28 (8) 40 (10)
Totale dei quattro Paesi 156 (50) 171 (59) 179 (62) 175 (52)

Si osserverà come la Gran Bretagna conservi per tutte le edizioni qui considerate un chiaro primato sui competitor europei. Rango consolidato a partire dal 2012, quando i britannici ospitano i Giochi valendosi significativamente del fattore campo e confermato, più o meno agli stessi livelli, sino a Tokyo, dove però diminuiscono non di poco le medaglie d’oro. Il rendimento competitivo tedesco è stabile ma segnala un trend discendente da Londra in poi con una marcata flessione degli ori a Tokyo rispetto a Rio. Così, se nel 2008 i tedeschi guadagnavano il doppio delle medaglie d’oro italiane, nel 2020 l’Italia ottiene lo stesso numero di titoli e li sopravanza di tre nel medagliere complessivo. La Francia presenta un andamento altalenante conoscendo però anch’essa un brusco decremento a Tokyo quanto al numero complessivo delle medaglie. Solo l’Italia presenta un andamento perfettamente stabile nelle prime tre edizioni – su valori però inferiori a quelli dei competitor – conoscendo un’autentica impennata nella quarta. Se la graduatoria finale fosse stata stilata secondo il “criterio americano” l’Italia, con sette medaglie più della Francia, quattro più dei Paesi Bassi e tre più della Germania, avrebbe occupato il settimo posto nella classifica. Anche adottando il criterio di merito ponderato (5 punti per l’oro, 3 per l’argento e 1 per il bronzo), avrebbe preceduto a Tokyo Germania e Francia, aggiudicandosi il 22.9% del totale delle medaglie vinte dai quattro big europei e il 19.2% di quelle d’oro.[3]

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Per le ragioni appena ricordate la chiara avanzata del medagliere italiano non trova adeguato riscontro nella classifica CIO (tabella 3). Essa pure mostra però come la crescente competitività dei Paesi emergenti all’interno dell’arena e il fattore campo, ampiamente sfruttato dal Paese ospite (58 medaglie per il Giappone a fronte delle 41 vinte a Rio 2016), abbiano penalizzato più fortemente la Germania e in misura minore Gran Bretagna, Francia e Italia. A Italia, Germania e Francia, insieme ai sorprendenti Paesi Bassi, Tokyo assegna così un rango agonistico di rilievo e sostanzialmente identico.

Tabella 3. Posizione in classifiche CIO
Pechino 2008 Londra 2012 Rio Janeiro 2016 Tokyo 2020
Gran Bretagna 4 3 2 4
Germania 5 6 5 9
Francia 10 7 7 8
Italia 9 9 9 10

Al netto di fattori contingenti (numero di medaglie assegnate per singola edizione, Paesi concorrenti, atleti in competizione, modeste interferenze geopolitiche ecc.) pare insomma difficile non considerare quello di Tokyo 2020 un successo per i colori italiani. Con un’avvertenza della massima importanza: nessuno sforzo interpretativo darà frutti se ci limiteremo a indagare i risultati dell’alta competizione dimenticando che essi discendono in ampia misura da dinamiche di medio-lungo periodo che investono l’intero movimento sportivo nazionale e riflettono – seppure in maniera non automatica e spontanea – la crescita e il variabile profilo del più vasto movimento che amiamo definire sport amatoriale di cittadinanza. Senza nemmeno dimenticare che risultati di particolare rilevanza, come quelli conseguiti dagli atleti paralimpici, rinviano al ruolo esercitato non solo dalle organizzazioni sportive vere e proprie, ma anche da più estese reti relazionali che fanno dello sport un veicolo privilegiato di inclusione e di solidarietà.

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Al momento mi accontento di anticipare alcune domande cui bisognerà fornire risposte che non discendono in automatico dalle rilevazioni statistico-descrittive. Quali sono le risorse sociali, culturali e organizzative che concorrono alla forza del nostro movimento sportivo (donne, Sud, nuovi cittadini)? Quali criticità potrebbero invece compromettere le prospettive future (si pensi alla fragilità del sistema scolastico, al declino dello sport universitario, all’invadenza dei grandi club professionistici negli sport di squadra)? Quali mutamenti segnalati a Tokyo da un’inedita gerarchia delle specialità di alto livello potranno in un prossimo futuro riflettersi sulla stessa composizione socio-culturale del movimento nel suo insieme? Quale ruolo potrebbero (e dovrebbero) assolvere le istituzioni deputate (CONI, Federazioni di specialità, gruppi sportivi militari e paramilitari, promozione sportiva e sport di cittadinanza)?

Sono problematiche aperte, stimolanti ma ancora poco indagate o troppo delegate agli addetti ai lavori. È tempo di farle oggetto di una maggiore e diversa attenzione. Nel prossimo articolo mi sforzerò di delineare un profilo di massima dello “stato dell’arte” del sistema.

 

[1] Solo uno, la Gran Bretagna, ha beneficiato nel 2012 del fattore campo, senza tuttavia che ciò inficiasse la comparazione qui proposta.

[2] A titolo di pura curiosità: se la delegazione pugliese costituisse una rappresentativa nazionale, si lascerebbe alle spalle, in base ai criteri CIO, 178 squadre nazionali fra cui quelle di Paesi come Belgio, Argentina, Turchia, Romania.

[3] In quota di composizione, le medaglia vinte a Pechino dagli atleti italiani erano state in il 17.3% sul totale di quelle conquistate dai quattro Paesi e il 16% delle medaglie d’oro. A Londra rispettivamente il 16.4% e il 16%, a Rio il 15.6% e il 12.9%. Calcolando invece la media delle medaglie conquistate nelle tre edizioni 2008-2016 e confrontandole con quelle vinte a Tokyo, la Gran Bretagna (beneficiata dal fattore campo nel 2012) supera di 7.34 la media delle tre edizioni precedenti, la Germania regredisce di 5.33 e la Francia di 6. L’Italia cresce di ben 12.34.