Dell’elmo di Scipio si è cinta la testa? (II). Le Olimpiadi, gli azzurri e quelli del “sì, però…”
di NICOLA R. PORRO ♦
Nelle settimane degli Europei e delle Olimpiadi tre giovani tennisti italiani hanno scalato le classifiche internazionali di specialità. Jannik Sinner ha vinto il torneo ATP di Washinghton, Camila Giorgi il master 1000 di Montréal mentre, nella finale ATP di Wimbledon, Matteo Berrettini ha tenuto testa per tre ore a Novak Djokovic, il più forte tennista del mondo. L’Italia è così al momento fra i pochissimi Paesi a vantare otto tennisti nella graduatoria ATP dei migliori cento al mondo.
È un’altra conferma della crescita complessiva e costante del nostro movimento sportivo in una specialità di grande prestigio. Ancora più significativa la prestazione dei nostri campioni alle Paralimpiadi, evento finalmente censito fra le performance agonistiche di prima grandezza.
Tale crescita presenta un profilo più qualitativo che quantitativo: rappresentiamo al momento in Europa la più forte formazione dell’atletica leggera e una delle più competitive nel nuoto. A Tokyo abbiamo anche mietuto successi (alcuni del tutto inattesi) in specialità inedite per il programma olimpico. Gli opinabili criteri Cio ci relegano al decimo posto nella classifica per nazioni, preceduti da squadre come Paesi Bassi, Germania e Francia che hanno ottenuto lo stesso numero di ori ma meno medaglie complessive. Seguendo invece il criterio “americano” che, a mio parere più correttamente, considera il numero complessivo dei podi come l’espressione autentica della forza competitiva di un Paese, ci saremmo classificati al settimo posto. Di certo le nostre non sono più vittorie conseguite prevalentemente in quelle specialità che i cugini d’Oltralpe, ogni volta che li superavamo nella classifica olimpica finale, declassavano a “medagliette del Luna Park”.
Non è tuttavia mancata, come legittimo e ampiamente prevedibile, qualche voce fuori del coro. Il piccolo ma combattivo partito del … sì, però… si è sforzato con zelo degno di miglior causa, di ridimensionare l’entusiasmo.[1] Si fa leva sul fatto che in questa edizione dei Giochi erano in palio ben 339 medaglie (ma a Rio 2016 erano già 307) e, per un altro, si adottano lambiccati criteri di valutazione diacronica che dovrebbero consegnarci una gerarchia di merito della nostra partecipazione alle varie edizioni dei Giochi. Di qui l’accusa di indebito trionfalismo rivolta al Presidente del Coni Giovanni Malagò che aveva rivendicato il risultato record delle quaranta medaglie.
Si è trattato invece di una dichiarazione del tutto legittima: è un fatto incontrovertibile che non avessimo mai vinto tante medaglie in una sola edizione dei Giochi. Ovviamente più problematico è stabilire una seria e credibile gerarchie di merito confrontando contesti tanto diversi. Mettere a confronto i risultati conseguiti a Tokyo 2020 rispetto a Los Angeles 1932, a Berlino 1936, a Roma 1960, a Los Angeles 1984 o ad Atlanta 1996 costituisce un esercizio di scarsa utilità fondandosi sulla premessa, implicita ma concettualmente opinabile, che gli eventi agonistici presentino nel tempo caratteri analoghi e ricorrenti. Ogni edizione dei Giochi rappresenta invece una differente arena competitiva. Questa formula, usata in sociologia dello sport, suggerisce grande prudenza nel comparare sbrigativamente eventi complessi come i Giochi olimpici e segnala difficoltà e limiti di confronti che non considerino la specificità degli ambienti organizzativi (numero delle squadre e degli atleti partecipanti, specialità ammesse) e l’impatto di fattori geopolitici – assenze o presenze di competitor di prima grandezza, boicottaggi, variabile influenza del fattore campo ecc. – che hanno di volta in volta dilatato, ristretto o comunque alterato l’arena competitiva.
A fugare ogni riserva è opportuno disporre di una tavola sinottica (tavola 1) che descriva gli esiti competitivi delle sette edizioni dei Giochi di maggior successo per i colori nazionali. Allo scopo ho preso in considerazione soltanto gli eventi in cui la nostra squadra nazionale avesse conseguito più di trenta medaglie.
Tavola 1. OLIMPIADI DI SUCCESSO (+ 30 MEDAGLIE) |
||||
Paesi partecipanti |
Atleti |
Titoli assegnati |
Totale medaglie Italia * |
|
Los Angeles 1932 |
37 |
1332 |
116 |
32 (II) |
Roma 1960 |
83 |
5352 |
152 |
36 (III) |
Los Angeles 1984 |
140 |
6829 |
226 |
36 (V) |
Atlanta 1996 |
197 |
10318 |
271 |
35 (VI) |
Sydney 2000 |
199 |
10651 |
300 |
34 (VII) |
Atene 2004 |
201 |
10625 |
301 |
32 (VIII) |
Tokyo 2020 |
206 |
11363 |
339 |
40 (X) |
*Fra parentesi la collocazione dell’Italia nella classifica finale per Paesi partecipanti. |
La tabella illustra con chiarezza come non sia possibile istituire comparazioni credibili fra eventi lontani nel tempo e segnati da situazioni di contesto assai differenti. Il boom dell’Italia sportiva a Los Angeles 1932 – tanto prontamente e fragorosamente cavalcata dalla propaganda fascista – costituisce un caso esemplare. Fu l’Italia fascista a inventare, fra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta, quel “dilettantismo di Stato” degli atleti che doveva dar vita a un vivaio di potenziali campioni sollevati da preoccupazioni materiali e incombenze lavorative (la star system campionistico e il professionismo sportivo muovevano all’epoca i primi passi). Le vittorie olimpiche celebrate da Mussolini dovevano servire a esaltare con simbolica efficacia la potenza della Nazione. L’operazione riuscì ma il medagliere fu bruscamente ridimensionato già pochi anni dopo.
Quel modello, infatti, venne prontamente adottato dalla Germania nazista, come lo sarà nel secondo dopoguerra da parte dell’Urss e dei Paesi comunisti. In Italia avrebbe invece aperto la strada al fenomeno dello “sport in divisa” che rappresenterà la maggiore fucina olimpica italiana del secondo dopoguerra. Un movimento che, a seguito della legge 380 del 1999 che consentiva alle donne l’accesso a tutti i corpi militari e paramilitari, coinvolgerà il settore femminile con risultati quanto mai significativi. Come ha ricordato a ragione un amico commentando il mio precedente articolo, il settore militare avrebbe di fatto surrogato via via funzioni di sistema non soddisfatte da altri attori, come il sistema formativo. Il caso esemplare è quella dell’atletica leggera, un tempo territorio privilegiato dello sport universitario e oggi egemonizzato dalle Fiamme di ogni colore e dai gruppi agonistici delle Forze armate. Los Angeles 1932, con il secondo posto conquistato dall’Italia nel medagliere per nazioni, rappresentò insomma l’esito provvisorio di una geniale intuizione che per fortuna si sarebbe via via emancipata dal suo imbarazzante imprinting ideologico.
Anche Roma 1960 descriverà un’arena competitiva assai più ampia e variegata (83 Nazioni partecipanti e più di cinquemila atleti in gara) di quelle precedenti.[2]
L’Italia padrona di casa sfruttò a dovere il fattore campo guadagnando 36 medaglie e collocandosi al terzo posto nella classifica per nazioni. Bisognerà tuttavia aspettare ventiquattro anni per celebrare l’uscita da quella lunga “crisi olimpica” iniziata nel 1968 con i deludenti risultati di Città del Messico e protrattasi, fra alterne vicende, sino a Barcellona 1992. Occorre del resto ricordare che a Los Angeles 1984 erano assenti i Paesi del blocco sovietico – con l’eccezione della ribelle Romania di Ceausescu, che conquistò un inatteso secondo posto nella graduatoria per Nazioni. Nessuno degli amanti delle comparazioni “a prescindere” può in questo caso affermare con certezza quale sarebbe stato il nostro bottino olimpico a Los Angeles 1984 se gli atleti italiani avessero dovuto competere con i campioni dell’Est Europa nelle specialità in cui essi eccellevano. Le altre spedizioni di successo – Atlanta 1996, Sydney 2000 e Atene 20004 – sfruttarono invece inevitabilmente l’effetto di rimbalzo della scomparsa dell’Urss (della cui eredità agonistica beneficeranno solo in parte le nuove nazioni gemmate dalla dissoluzione dell’impero sovietico). L’ingombrante presenza di quella autentica fucina di medaglie, scesa in campo a Helsinki 1952 e uscita definitivamente di scena trentasei anni dopo a Seul, basta da sola, in forza dei 1010 podi conquistati nei soli Giochi estivi, a mandare a pallino ogni ragionevole pretesa di comparazione diacronica. Analoga considerazione merita il caso della Cina, di fatto assente sino a Los Angeles 1984 ma che avrebbe conquistato in trentasette anni qualcosa come 631 medaglie, con un crescendo competitivo che avrà per apice l’edizione casalinga (Pechino 2008) e i recenti successi di Tokyo 2020, quando cederà agli Usa solo sul filo di lana il primato per squadre nazionali.
A Tokyo come a Rio 2016, invece, erano in campo duecentosei nazionali senza che si registrassero quei boicottaggi incrociati di matrice geopolitica che avevano radicalmente rivoluzionato le arene competitive di Mosca 1980 – quando furono assenti gli Usa e molti Paesi Nato – e di Los Angeles 1984, quando per ritorsione mancarono all’appello l’Urss e quasi tutti i Paesi del Patto di Varsavia. Le assenze, i boicottaggi, il fattore campo – che premia il Paese ospitante – condizionano insomma pesantemente il profilo delle arene competitive confermando la dubbia efficacia e la sostanziale inutilità di istituire graduatorie di merito fra le spedizioni azzurre di maggior successo. In presenza di arene tanto variabili, infatti, le chance di medaglia non si distribuiscono fra i competitor in base a qualche forma di prevedibile regolarità statistica. Di volta in volta ci sono quelli più di altri avvantaggiati o svantaggiati a seconda delle potenzialità di successo nelle diverse discipline.
L’obiezione di Carlo Cottarelli era peraltro motivata dall’apprezzabile intenzione di ricondurre a un responsabile realismo l’euforia generata nell’estate 2021 dalla concomitanza di eventi felici per il nostro Paese, come i successi sportivi e la ripresa del PIL. Anche a me pare esagerato e inopportuno, in uno slancio di patriottico ottimismo, descrivere i nostri campioni come gli alfieri di un nuovo Rinascimento italiano… Temo però che, al di là delle intenzioni, certi puntigliosi ricalcoli risultino ingenerosi verso i brillanti risultati da essi ottenuti. Questa amichevole critica riguarda anche la stima proposta da Luca Antonellini e poi da Rony Hamaui sul sito della Voce, in base alla quale Tokyo 2020 non avrebbe rappresentato altro che una discreta prestazione di équipe: per la precisione la ottava del dopoguerra e la decima nell’intera storia olimpica.
Rinunciando dichiaratamente a ricercare comparazioni ad ampio raggio che reputo fini a sé stesse, cercherò invece in un prossimo articolo di utilizzare i dati preziosi di Tokyo 2020 per tentare un’analisi dei risultati della spedizione italiana del tutto differente e basata (i) su una sequenza temporale ristretta, che assicuri una più attendibile comparazione diacronica, e (ii) su un confronto limitato a pochissimi Paesi meglio confrontabili al nostro per profilo socio-demografico e rango agonistico. In questo modo sarà forse possibile cogliere linee di tendenza che confermino o smentiscano il tendenziale cambio di paradigma che ho ipotizzato.
NICOLA R. PORRO
Caro Nicola, dalla lettura “sociologica” che tu dai da esperto può essere possibile cavar fuori una sorta di indicatore statistico che, dal punto di vista sincronico, pesi per ciascuna nazione il medagliere (ponderando tra oro argento bronzo) relativizzandolo alla popolazione ma anche tenendo conto , in negativo, della concentrazione su una stessa disciplina ed in positivo del grado di dispersione fra le discipline. Inoltre che tenga conto della frequenza diacronica.
Non so se ho detto fesserie. Ma un indicatore sintetico ponderato di tutte le possibili componenti e opportunamente relativizzato permetterebbe di avere una classificazione chiara del successo di una nazione. .
A parte queste acrobazie di sapore statistico, come è possibile conoscere quanto l’istituzione statale nel tempo abbia pesato sul medagliere. Veramente “l’effetto Stato”è determinante circa il successo? In sintesi: quale potrebbe essere il contributo nel successo tra settore pubblico e privato? Spero che siano domande pertinenti. In caso contrario cestina il tutto.
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Domande come sempre pertinenti e in sintonia con l’approccio che cerco di sviluppare in questo itinerario attraverso l’olimpismo recente. Quanto alla questione cruciale del rapporto con lo Stato rimando ai prossimi conclusivi articoli. Sono invece personalmente convinto che si possano affinare le procedure metodologiche e anche le statistiche vere e proprie. Criteri di comparazione diacronica più appropriati si possono ricercare. Io stesso nel prossimo articolo sperimenterò un approccio alternativo a quelli cui accenno qui, isolando le ultime quattro edizioni dei Giochi e restringendo la comparazione a quattro contesti nazionali fra cui l’Italia. Dovrebbe discenderne un confronto a corto raggio ma a mio parere più utile per comprendere le linee di tendenza che possono interessarci al di là delle improbabili attribuzioni di rango ai successi colti in questa o quella edizione dei Giochi. Aggiungo una confessione semischezosa: io mi considero un “umanista” condannato per ragioni professionali a legittimare per decenni le proprie convinzioni attraverso metodologie rigorose ma poco suggestive. Occupandomi di sport, che un filosofo contemporaneo ha definito “l’ultima grande narrazione sopravvissuta alla fine delle grandi narrazioni”, ho ritrovato il sapore della Storia. Dove meno me l’aspettavo…
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Esiste anche un peso specifico delle medaglie. Alcune discipline, con pochi praticanti, distribuiscono numerose medaglie e spesso a contendersele sono pochissime nazioni, altre, universalmente e massivamente praticate, assegnano solo un podio (mi riferisco agli sport di squadra come, ad esempio, il basket; e lo dico con dolore visto che qui hanno primeggiato i nostri spocchiosi cugini).
Un calcolo puramente numerico indica lo stato di salute sportiva di una nazione solo se consideriamo cifre assai elevate e ampia distribuzione in varie discipline (Cina e Usa ad esempio); su cifre decisamente più basse è legittimo avanzare il dubbio che incida il caso o la fortuna. L’Italia a Tokyo si è attestata attorno al suo ranking storico: è decisamente e stabilmente sotto Usa, Cina, Russia, ormai Australia, Gran Bretagna, Germania (la cui recente défaillance
non si ripeterà); se la batte con Francia, Giappone, Canada, Corea del Sud, può occasionalmente essere superata da Paesi Bassi, Cuba (un tempo…),Ungheria o da chi organizzi i giochi. In definitiva, l’orrendo risultato di Montreal (13 medaglie e solo 2 ori), ci fruttò comunque un quattordicesimo posto, non tanto peggio di Tokyo 2020, decimo posto con 40 medaglie e 10 ori.
Resto in attesa, Nicola, del tuo prossimo contributo che si annuncia assai intrigante.
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