Letture estive: “Le nostre prigioni. Storie di dissidenti nelle carceri fasciste” di Giovanni Taurasi.

di ENRICO CIANCARINI

Anni 1932, 1933, 1934, 1935, X, XI, XII, XII dell’Era Fascista. Arrivano a Civitavecchia certi curiosi detenuti, vestiti come gli altri, ammanettati come gli altri, matricolati come gli altri, ma diversi, diversi bene dagli altri. Avvocati, professori, studenti, operai, qualche contadino. Non hanno né ammazzato, né rubato, né truffato, devono fare 10, 15, 20, 30 anni. Sono i politici! Ordini severissimi. Pensate le responsabilità della direzione e della custodia! Li deve avvolgere il segreto. Il locale dove sono sistemati si chiama “Le separate”. (Augusto Monti, Rieducazione carceraria, da Il Ponte, 1949).

Leggendo il recente volume “Le nostre prigioni” di Giovanni Taurasi, edito dall’Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti ANPPIA, numerose volte s’incontra Civitavecchia e il suo carcere di Porta Tarquinia.

Nella premessa l’autore propone il suo obiettivo di ricerca: se la lotta di Liberazione ha goduto di numerosi studi e ancora oggi riscuote un certo interesse nell’opinione pubblica, invece l’antifascismo militante e sofferente durante i lunghi e duri anni del Ventennio è purtroppo caduto nell’oblio. D’altronde, la storiografia solo recentemente ha posto attenzione al primo movimento antifascista resistente in Italia, gli Arditi del popolo che anche a Civitavecchia hanno soggiaciuto ad un lungo e ingiustificato silenzio.

Taurasi, tramite lo studio dell’esperienza carceraria degli oltre 5.000 condannati dal regime fascista “per reati che oggi potrebbero essere considerati di opinione, ma che per la solidità del regime costituivano una minaccia”, si propone di riaccendere l’interesse oggi spento verso l’esperienza detentiva dei tanti coraggiosi, donne e uomini, che non vollero piegare la testa al governo totalitario del duce:

La memoria dell’antifascismo storico è stata in qualche modo sepolta dalla memoria della lotta di Liberazione. Il momento epico della Resistenza ha oscurato l’esperienza di lotta non armata precedente, e sulla memoria dell’antifascismo tra le due guerre è calata una coltre di silenzio analoga a quella, a un secolo di distanza, scesa sui moti carbonari del 1820-21 e del 1831, oscurati dalle imprese risorgimentali che dal 1848 alla breccia di Porta Pia hanno attraversato la penisola.

Taurasi ha consultato le centinaia di fascicoli dei detenuti politici custoditi all’Archivio Centrale dello Stato e ricostruisce la biografia di donne e uomini incarcerati solo per aver difeso le proprie opinioni politiche: comunisti, anarchici, socialisti, appartenenti al movimento Giustizia e Libertà, antifascisti in genere, massoni, i testimoni di Geova antimilitaristi.

Tanti di loro hanno lasciato memoria scritta del periodo trascorso nelle carceri o al confino politico durante il ventennio mussoliniano. Taurasi incrocia i loro ricordi con le carte ufficiali che i diligenti responsabili delle carceri redigevano su ogni “ospite” condannato politico.

Nel 1932 l’Ovra, la polizia politica al servizio della dittatura mussoliniana, decide di concentrare le centinaia di prigionieri politici “in tre carceri ritenuti di massima sicurezza”: Civitavecchia, Fossano e Castelfranco Emilia.

Venne prevista la rigida separazione tra detenuti politici e comuni e un’ulteriore suddivisione nei diversi cameroni secondo il livello di preparazione politica di questi ultimi.

Nel carcere di Civitavecchia sono concentrati soprattutto esponenti del Partito comunista, fra cui Umberto Terracini, Emilio Sereni, Altiero Spinelli, Eugenio Reale, Mauro Scoccimarro ed altri.

Già nel 1935 Ottavio Pastore, fondatore del P.C.d’I. e primo direttore dell’Unità, firma con lo pseudonimo Carlo Rossi “Civitavecchia. Cimetière pour les vivants” stampato a Parigi e tradotto in italiano con il titolo “I sepolti vivi di Civitavecchia”, illustrato con le foto di Umberto Terracini e Sandro Pertini, in cui, accusati di angherie e vessazioni verso i detenuti politici, sono menzionati il direttore Alfredo Doni, il capoguardia Fanni e il dottor Arrigo (su di lui emergono anche riscontri positivi).

Nel 1994 Aldo Natoli, Vittorio Foa e Carlo Ginzburg, tutti “ospiti” del reclusorio di Porta Tarquinia, danno alle stampe “Il Registro. Carcere politico di Civitavecchia. 1941-1943” in cui è riprodotta la copia anastatica del “Registro dei rapporti sul Personale e sui servizi dello Stabilimento” in cui sono riportate le punizioni assegnate dalle guardie ai condannati politici.

In carcere i comunisti studiano. Dietro le sbarre si formano i “quadri” del partito di domani. Il modo più appropriato per definire la loro resistenza ideale e morale, che si rafforza anziché indebolirsi, è “l’università del carcere”.

La variegata memorialistica degli ex detenuti del bagno penale di Civitavecchia, è unanime nel ricordare quanto fosse diffuso fra i prigionieri politici di via Tarquinia l’impegno per lo studio e per la lettura, indirizzato a perfezionare il loro bagaglio politico-culturale da utilizzare il giorno in cui avrebbero riacquistato la libertà. Al centro di questo processo formativo erano i collettivi che, come ricorda Taurasi

si trasformarono in forme embrionali e ridotte di assemblee democratiche, nei quali per la prima volta una intera generazione cominciò a prendere confidenza con la parola, con la discussione, con il confronto: “Entrare nel Collettivo significava fare una scelta politica importante, ed anche un preciso impegno a studiare metodicamente per migliorare la propria preparazione politica e culturale, misurandosi con un serio programma da portare avanti ogni giorno con tenacia e perseveranza”.

Grazie a questo intenso e clandestino lavoro educativo, il carcere di Civitavecchia “sforna” gran parte dei futuri quadri comunisti della Resistenza. Nel volume “La prima resistenza armata in Italia” di Giorgio Fedel (2014) sono censiti i vertici delle Brigate Garibaldi, organo armato del Partito comunista. Escluso Luigi Longo, comandante generale, e altri tre dirigenti inquadrati con il grado di ispettori generali, sono “civitavecchiesi” Pietro Secchia (commissario generale), Giancarlo Pajetta (vicecomandante generale), Giorgio Amendola, Francesco Leone, Umberto Massola, Francesco Scotti (tutti ispettori generali), Gerolamo Li Causi ed Emilio Sereni (rappresentanti PCI nel CLNAI) e Giovanni Roveda (direzione Pci Alta Italia) tutti transitati per le camerate del penitenziario in riva al mare. Per la verità a Civitavecchia fu detenuto Pietro Amendola non il fratello Giorgio.

Sempre quest’anno Claudio Natoli, figlio di Aldo, ha curato il volume “Da Regina Coeli a Civitavecchia. Lettere dal carcere (1939-1941)” che contiene l’epistolario di Lucio Lombardo Radice, anch’esso ospite del carcere civitavecchiese. Nel 1976 Lombardo Radice è intervistato da Laura Migliorini. Il frutto è “1940: l’Università popolare del carcere di Civitavecchia”:

La giornata era regolata dal “collettivo” in modo molto rigoroso. Eravamo una scuola, con un orario di studio e di lezioni con alcune materie principali: storia d’Italia, economia politica, teoria e pratica del socialismo. Ero uno degli insegnanti di storia d’Italia, ma ero allievo nelle altre materie: i miei professori erano compagni operai, o anche contadini. Studiare insieme era proibito. La parola d’ordine dei carcerieri fascisti era “ignoranti sono entrati, più ignoranti debbono uscire”. Me lo gridò il capoguardia, un bruto (c’erano però anche delle guardie brave e umane), quando mi schiaffò per tre giorni in cella d’isolamento, a pane e acqua, perché mi aveva sorpreso mentre insegnavo matematica a un bracciante ferrarese. Tutti i libri che più ci interessavano erano stati proibiti: ma qualche compagno muratore o artigiano era riuscito a salvarne qualcuno (che so, il “Manifesto dei comunisti” di Marx-Engels), costruendo nascondigli nei muri, doppi-fondi nei porta-immondezze, o rilegandoli con copertine innocenti. Tutto sommato, abbiamo vinto noi, anche se loro erano i forti, noi i deboli: siamo usciti dal carcere molto più colti, più maturi, più capaci di cambiare la faccia del mondo.

Antonio Gramsci fu detenuto nel carcere di Civitavecchia per soli diciotto giorni dal 19 novembre al 7 dicembre 1933. Fu lo stesso Gramsci a chiedere di essere trasferito nella città tirrenica in una lettera indirizzata al direttore generale per gli Istituti di Prevenzione e di Pena, Giovanni Novelli:

mi permetto di esprimere il desiderio che la Casa Penale sia quanto più possibile vicino a Roma (io sceglierei Civitavecchia, dove pare esista un’infermeria attrezzata modernamente), perché sono persuaso che questa Direzione non vuole che i condannati siano torturati fisicamente e immagino che vicino al centro amministrativo i regolamenti e le circolari siano osservate meglio che alla periferia.

Sul breve “soggiorno” civitavecchiese di Antonio Gramsci abbiamo una testimonianza alquanto particolare, quella di uno dei suoi carcerieri: Michele Ferlito, funzionario dell’amministrazione carceraria, che nel suo libro di memorie “Di là del muro. Testimonianze di un direttore di carcere 1934-1976” pubblicato nel 2020 dalla Regione Toscana, lo ricorda. La sua prima assegnazione lavorativa fu al carcere di Civitavecchia dove rimase dal 1934 al 1937

incaricato – per ordine superiore – di mantenere, con assoluta modestia e con diplomazia, i contatti tra la direzione (retta dal valorosissimo Comm. Alfredo Doni) e la sezione dei detenuti politici, fra cui i grossi calibri dell’Antifascismo, … cui dovevo soprattutto assicurare e facilitare, con opportuno garbo, ogni rapporto familiare e sociale con dignità, serietà e massima regolarità. Peraltro erano – dal punto di vista disciplinare – detenuti che non davano il benché minimo fastidio, ossequienti – per sistema e per educazione – a tutte le norme del regolamento penitenziario che supinamente accettavano, senza discussione o tergiversazione di alcun genere.

Certamente leggendo quello che hanno scritto i suoi “ospiti” qualche dubbio sulla sua onestà intellettuale ci assale se, come scrive Taurasi, “le condizioni delle carceri italiane erano talmente penose, soprattutto dopo le restrizioni avviate nel 1932, da spingere più di duecento detenuti politici di Civitavecchia a fare uno sciopero della fame”.

Il garbato funzionario Michele Ferlito nelle sue memorie carcerarie narra questo episodio legato alla presenza di Gramsci nel penitenziario civitavecchiese:

Di buon mattino, un giorno, vengo chiamato al telefono dal Segretario Particolare di S.E. Benito Mussolini, cui sempre ero in contatto in conseguenza delle funzioni da me esercitate nell’Istituto. Questi mi prega di recarmi subito ad ispezionare la cella ove era stato ristretto Gramsci – di transito a Civitavecchia – giacché il Duce voleva sapere se per caso egli vi avesse lasciato qualcosa di particolare rilievo.

In essa – rimasta vuota dopo la partenza del detenuto – mi portai immediatamente, esaminandola con la massima accuratezza, centimetro per centimetro.

Vi regnava il più completo ordine e la massima pulizia: su uno dei muri – precisamente quello cui era accostato il letto – faceva bella mostra, vergato in rosso (sangue?), un suo scritto del seguente tenore: “Il segreto della vita è uno solo: adattarsi”. Firmato A. Gramsci.

Pedissequamente e senza alcun commento, quanto sopra comunicai, senza indugi, al richiedente.

Possiamo augurarci che un giorno il carcere di Porta Tarquinia possa trasformarsi nell’Università libera dell’Antifascismo in cui studenti di tutto il mondo possano studiare i misfatti delle dittature e i mezzi per combatterle utilizzando come armi la cultura e la piena libertà di espressione.

ENRICO CIANCARINI