Rabbia – Pòlemos e il Leviatano

Intervista a PATRIZIO PAOLINELLI a cura di GIUSEPPE BACCARELLI

È appena arrivato in libreria “Rabbia – Pòlemos e il Leviatano”, scritto da Patrizio Paolinelli. Il libro, agile e di facile lettura, si inserisce nella collana Lessico pandemico che la casa editrice triestina sta dedicando all’analisi dei riflessi della pandemia sul tessuto sociale ed economico, soprattutto italiano. L’argomento Rabbia è stato preceduto da Virus, Cura, Angoscia, Libertà e sono in cantiere altri saggi.

Sociologo e giornalista, Paolinelli traccia un quadro di riferimento politico e strutturale pre-pandemico. Quindi approfondisce l’indagine intervistando sei testimoni privilegiati: l’economista Francesco Schettino, i sindacalisti Maria Grazia Gabrielli, Marino Masucci, Giovanni Sgambati, lo storico dell’economia Giulio Sapelli e Paolo Ferrero, ministro del secondo governo Prodi e attualmente vice presidente del Partito della Sinistra Europea.

Paolinelli, quali sono i temi principali di cui si occupa nel suo libro?

Sostanzialmente due: il lavoro e il conflitto sociale al tempo del Covid-19. Sul piano del lavoro la pandemia ha acutizzato il problema della disoccupazione, di per sé già molto grave. Nel giro di poco più di un anno i disoccupati sono cresciuti di oltre 600mila unità e sono aumentati gli italiani cosiddetti inattivi. Ossia, coloro che non hanno un lavoro e non lo cercano. Di conseguenza sono aumentate le disuguaglianze sociali e la povertà.  Questa caduta si è verificata nonostante lo Stato sia intervenuto con la cassa integrazione, il blocco di licenziamenti, sostegni agli autonomi e così via. Per il futuro post-pandemico quello che si può ipotizzare è che con tutta probabilità precariato e disoccupazione continueranno a crescere.

Sul piano del lavoro mi pare di capire che secondo lei c’è una forte continuità tra il prima e il dopo pandemia, posto che a tutt’oggi si possa parlare di dopo pandemia. La stessa cosa si può dire sul piano del conflitto sociale?

Intanto confermo la sua impressione: prima, durante e in questa prima fase post-pandemica le élite politico-economiche hanno continuato a esercitare il loro potere sul lavoro. Per quanto riguarda il conflitto sociale possiamo dire che con la pandemia si è registrata un’importante discontinuità: dalla fine degli anni ’70 del XX secolo non si era vista una rabbia sociale così estesa. Hanno protestato contro le misure del governo per il contenimento del contagio una gran quantità di categorie sociali: dalle estetiste agli intellettuali, dai lavoratori dello spettacolo agli studenti delle scuole superiori; dai parenti degli anziani falcidiati nelle case di riposo ai ristoratori, al personale sanitario, agli operatori turistici e così via. Tuttavia la discontinuità si è presentata, per così dire, ripiegata su sé stessa ed è stata immediatamente assorbita dal sistema pre-Covid. E il motivo è semplice: la rabbia sociale non si è trasformata in conflitto, non si è trasformata nella richiesta generalizzata di in un nuovo assetto dell’ordine politico ed economico.

Come è potuto accadere?

Semplice: ogni gruppo e categoria sociale ha pensato al proprio orticello. Che in genere consisteva nella richiesta di aprire attività chiuse per decreto governativo o di ampliare la fascia oraria di questa o quell’attività. Una logica da sindacato autonomo o corporativa, se preferisce, che certo non ha impensierito le élite.

Cosa impedisce alla rabbia sociale di trasformarsi in conflitto?

L’ideologia. Viviamo in una società iperideologica. Una società dove differenti ideologie non si fanno concorrenza come nel recente passato: nell’occidente l’ideologia liberale ha il monopolio pressoché assoluto nel formare l’opinione pubblica e la coscienza collettiva. Questo è possibile perché i ceti dominanti controllano pressoché completamente il sistema dei media e la produzione della cultura. Dato che essere giovani e d’attualità conta molto nel nostro mondo, faccio presente che l’ideologia liberale è più vecchia del marxismo. Ma ha trionfato sul marxismo e oggi domina incontrastata tra i giovani, i ceti popolari e gli sfruttati.

Si sta riferendo a quello che è stato chiamato il pensiero unico?

Solo in parte, perché la formula è ormai in via di esaurimento per il semplice motivo che il pensiero unico è diventato sempre più unico. Ma lo si chiami pensiero unico o in qualsiasi altra maniera oggi noi viviamo sotto la cappa dell’ideologia capitalistica affermatasi a fine Settecento col trionfo politico della borghesia. Tanto è così che nei suoi libri Bill Gates cita Adam Smith. Lo stesso discorso vale per le aggettivazioni della nostra società. Se lei oggi parla di società capitalistica in tanti storcono il naso. Eppure ancora oggi questa definizione coglie l’essenza della società attuale.

Perché si esita tanto a chiamare le cose con il loro nome?

Perché se si parla di società del rischio, della comunicazione, della tecnica, della rete e così via non si individua la classe dominante, quella che determina la struttura e la direzione della società. In tal modo l’aumento delle disuguaglianze sociali, della povertà, dell’insicurezza per il futuro appaiono come fatti naturali. Non ci sono responsabili. Peggio ancora: se sei povero, precario o disoccupato la colpa è tua. Non sei un buon imprenditore di te stesso, non sei resiliente.

Credo che questa sua riflessione si colleghi con quello che lei chiama lo psico-esercito di cui accenna nell’introduzione al suo libro.

Esatto. Per spiegare come mai durante la pandemia la rabbia sociale non si sia trasformata in un conflitto in grado di cambiare la società chiamo in causa lo psico-esercito. Si tratta di una massa enorme di professionisti dei più disparati campi: giornalisti e esperti della comunicazione, personaggi dello spettacolo e della musica leggera, pubblicitari e docenti universitari, guru del digitale, stilisti, designer, editori e insomma tutte quelle figure che compongono quella che negli anni ‘60 veniva chiamata l’industria culturale. Industria che è avanzata moltissimo in termini quali-quantitativi e che determina il modo di essere e di sentire, di pensare e di immaginare della maggior parte dei cittadini.

Quali sono le funzioni dello psico-esercito?

Sia quella di mantenere inalterati gli assetti di potere, che infatti durante la pandemia non sono stati minimamente messi in discussione: per esempio, la pubblicità ha continuato a incitare a consumare e indebitarsi nonostante tanti esercizi pubblici fossero chiusi; sia di formare la coscienza collettiva dei dominati sui valori dei dominatori: individualismo, utilitarismo, culto del denaro e così via. Da oltre un anno i media ripetono continuamente che tutti non vediamo l’ora di tornare alla normalità. Cioè alla società mostruosa che c’era prima della pandemia. E in effetti questo è accaduto ogni volta che la pandemia ha concesso una tregua. In conclusione si può dire che oggi lo psico-esercito è riuscito in un’operazione storica: impedire che la maggioranza dei cittadini possa anche solo immaginare una società diversa in quella in cui vivono.

Dunque, secondo lei la pandemia è stata un’occasione mancata per costruire una società più giusta?

Risponderei di sì, ma occorre essere molto cauti. Perché, che mi risulti, nel corso della storia nessuna epidemia, nessuna pandemia ha condotto a un ribaltamento della società. Ora, il fatto che la storia sia andata sistematicamente in una direzione non significa che si debba procedere sempre nella stessa maniera. Gli effetti della pandemia si misureranno nei prossimi anni quando si capirà meglio come evolverà la transizione epocale in corso. Ovviamente le élite economiche cercheranno di accrescere il loro potere. Staremo a vedere se i cittadini, i corpi intermedi e gli sfruttati saranno in grado di contrastare questa tendenza.

Il suo libro è composto soprattutto da interviste. Lei ha infatti interpellato sindacalisti, economisti, uno storico dell’economia e un politico. Rispetto alle conseguenze della pandemia quale quadro emerge dalle parole dei suoi intervistati?

Un quadro differenziato. I sindacalisti hanno una visione molto prudente rispetto alla crisi economica acuitasi con la pandemia. Sono estremamente realisti e hanno un atteggiamento compatibile con quelle che sono le politiche del governo e di Bruxelles pur chiedendo dei correttivi. Chi invece scarta da questa logica sono gli altri intervistati: l’ex ministro Paolo Ferrero, Francesco Schettino, economista di formazione marxista, e Giulio Sapelli, cattolico, storico dell’economia.

Proprio l’intervista di Sapelli è quella che più colpisce perché prevede che il futuro sarà dominato da anomia, depressione e alienazione.

Sapelli parla senza mezzi termini di totalitarismo liberista. Condivido pienamente questa idea e credo che, tra l’altro, si fondi su un furto che le élite economiche hanno perpetrato nei confronti della società: la speranza di un futuro migliore. L’involuzione neoliberista del capitalismo ha ucciso il suo stesso presentarsi come portatore del progresso. Da tempo infatti l’idea di progresso si è spenta: in pochi pensano che il domani sarà migliore dell’oggi. Eppure è grazie all’idea di progresso che abbiamo martirizzato la natura, sterminato interi popoli in ogni angolo del mondo e ancora oggi invadiamo e bombardiamo Paesi, magari per esportare la democrazia o liberare le donne dal patriarcato. Tuttavia l’idea di progresso non è più funzionale agli interessi del grande capitale. Quindi se ne è disfatto utilizzando massicciamente gli intellettuali al suo servizio (la stragrande maggioranza), la stampa, il sistema dei media, lo psico-esercito di cui dicevo poco fa.

In tutto questo discorso il grande assente sembra sia la sinistra o i movimenti di sinistra.

Se per sinistra si intende un’organizzazione politica che ha un progetto sociale alternativo al liberismo, allora la sinistra in Italia non c’è praticamente più e quel poco che rimane ha un’esistenza residuale. Ormai dobbiamo prenderne atto: siamo stati completamente americanizzati, e non solo sul piano politico, ma anche su quello culturale. L’Italia di oggi è una stella spenta della bandiera statunitense. D’altra parte, siamo un loro protettorato. In quanto ai movimenti, c’è un grande brulichio nella società, ma non credo che possano determinare grandi cambiamenti. Guardi la questione ambientale. I finanziamenti europei andranno in mano a coloro che l’ambiente l’hanno distrutto. E non hanno alcun interesse a rimettere a posto le cose.

Nella nota conclusiva lei scrive che la piccola borghesia sarà la classe più colpita dalla crisi economica.

La pandemia lo ha dimostrato: le aziende che si sono trovate in maggiori difficoltà sono le piccole imprese. Le quali hanno chiuso o sono in procinto di chiudere. Avremo grandi aziende nazionali e internazionali che domineranno il mercato, per cui ci sarà sempre meno spazio per la piccola borghesia. Fino a ieri è stata utile al grande capitale contro il pericolo rosso. Oggi che il pericolo rosso non c’è più è meno utile ed è destinata ad essere fortemente ridimensionata.

In questo panorama che lei e una parte dei suoi intervistati prospettate, c’è almeno un elemento di speranza?

Diceva uno storico statunitense, Immanuel Wallerstein, che il capitalismo non morirà per i suoi insuccessi, ma per i suoi successi. Speriamo che imploda. Fenomeno che in certa misura sta già avvenendo e che preoccupa tanti studiosi liberali. Si è accentuata la corsa alla concentrazione della ricchezza tramite la quale alcuni grandi monopoli e oligopoli domineranno il mondo. L’economia digitale è già così. L’occidente è dominato dai cosiddetti 5 big five statunitensi: Apple, Amazon, Google, Microsoft, Facebook. Il ritorno di élite onnipotenti suggerisce che siamo entrati in una sorta di neo-feudalesimo. Fin dove potrà arrivare? Non lo sappiamo. Tuttavia, diversi libri di fantascienza del passato ipotizzavano scenari che oggi appaiono concretamente possibili. D’altra parte Marx diceva che per comprendere la società talvolta è più utile guardare alla letteratura che alla filosofia.

GIUSEPPE BACCARELLI