IL TEMPIO SACRO
di CARLO ALBERTO FALZETTI ♦
La coscia grassoccia insaccata nella rete smagliata tendeva verso l’alto sfidando una gravità sempre presente, anche nei momenti meno opportuni.
Le gambe, Santo Iddio, dovevano proiettarsi con veloce alternanza verso il soffitto lottando contro quella fastidiosa, impertinente forza attrattiva ed evitando, parimenti, che il colpo troppo ardito proiettasse con roteazioni e volute la scarpina nella sala.
Felix culpa, questa, che avrebbe creato uno scompiglio, forse un groviglio nella effervescente irrequieta platea. Ma che di certo avrebbe intristito le magre finanze dell’anonimo impresario.
Quando le “signorine” s’immettevano nel palco, battendo con fragore di cavalli ferrati il duro legno e melodiando un francesismo romanesco, gli ottoni e la grancassa riuscivano a coprire le osannanti grida dello scelto pubblico ivi riunito.
L’intera legion d’onore del Porto assieme a militari e ragazzi “metà prezzo” s’era riunita per lo spettacolo: il balletto, un comico dotato di spalla, un numero d’attrazione basato su un funambolo o un contorsionista o un’illusionista, una pellicola sgangherata come finale.
E, al centro, lei!
La soubrette, acclamata- osannata -urlata -desiderata-smaniata-bramata. Piena di forme esuberanti, che anelavano, dopo ogni movimento, a debordare dai sottilissimi contenitori di raso tempestati di lustrini.
La maliarda con il reggicalze nero merlettato agitava di spasimi incontrollati la fossa dei leoni automanipolanti. Leoni in parte spelacchiati in parte in pieno vigore. Regina incontrastata sempre richiamata a forza dall’eccelso pubblico di intellettuali, pretenziosi oltre ogni limite.
Recitava il Cartellone che tal mago Bustelli, il cui blasone erano due buste sovrapposte, offriva alle genti del mare della città portuale alchimie e magheggi impressionanti.
Con l’occhio scaltro e disincantato lo spettatore dei nostri tempi avrebbe certo gridato al ridicolo, alla miseria della trovata. Ma, in quel momento, tutto era lecito. Tutto, pur di godere della libertà. Niente più camice nere, niente sabati mostruosi, niente aquiloni, niente delatori, niente “pantere nere”, niente bombe, niente sirene, niente morti innaturali. Una becera, sguaiata rappresentazione era, comunque, espressione di vita riconquistata.
Anni ed anni dopo sapemmo che quel mago venuto da chissà dove era Ranieri Bustelli capofila degli illusionisti che hanno, poi, popolato la nostra TV. Ed ancora, sapemmo che il mago non veniva da una misteriosa esotica quanto lontana contrada ma era semplicemente un tarquiniese di Tuscania.
Ma il Cartellone, che annunciava l’avanspettacolo prima del modesto film a seguire, non menzionava il vero numero d’attrazione che scaldava gli animi. Era il pubblico stesso l’attrazione: una sorta di autoreferenzialità, un divertimento indotto da chi doveva ricevere il divertimento.
La quinta scenica era certo separata dalla platea ma questa separazione era solo fisica. In termini di spettacolo la platea era una specie di proscenio, parte integrante della rappresentazione a causa del continuo scambio verbale fra pubblico ed artisti. Quando il misero comico accennava alla prima fuoriuscita vocale lo spazio si riempiva del suono dovuto a quel soffio d’aria che le labbra serrate, con in mezzo la lingua protratta fuori, sanno fare egregiamente, sempre che tali labbra appartengano alla nostra simpatica italica gente.
Dopo pochi istanti il grado di sopportazione veniva acquisito come essere fuori del limite. E, dunque, con il dovuto garbo che contraddistingueva la sala giungevano al personaggio in scena ,con crescente tonalità e varia modularità, cortesi richieste di sospendere, nei limiti del possibile, la prestazione da lui erogata fino a quel momento. Il tutto, ovviamente, con il dovuto rispettoso stile formale della gente genuina della nostra città.
Ha’ rotto.
Vattine.
Falla finita.
Smamma.
Non ce cacà più er…
Ahoo, buttite dar quarto piano!!
Datte na’ riporverata
Rivolemo lee.
Sparisce.
Ed ella, la Venere dalle calze smagliate e dalle adiposità incontinenti riappariva quale luce dopo la tenebra, accompagnata da un precipitoso quanto provvidenziale fracasso degli ottoni e della grancassa.
E tutto si ricomponeva come d’incanto.
Una prece nel finale.
Venerato Marco Ulpio,
tu che volesti esser insignito della virtù della clementia e della temperantia,
liberaci dalla colpa d’averti offeso accostando il tuo nome a quello d’un luogo che, a guerra finita, attirava il popolo dei lupanari.
Noi ci pentimmo, noi patimmo, noi ci contristammo,
ma un giorno noi purificammo
lo spazio,
con te riconciliandoci.
Orsù, dunque, Protettore nostro non guardare a ciò che avvenne, bensì degnati di compiacerti del luogo che oggi ospita degne esibizioni che onorano il nome tuo nei secoli dei secoli a venire.
Amen!
. . .
Dedicato alle Signorine che per un tozzo di pane, spesso lasciando la “creatura” in qualche angolo del camerino, tentavano di sbarcare il lunario offrendo un piacere di fantasia al maschio belluino ardore.
CARLO ALBERTO FALZETTI