APO’ NOANTRE

di CARLO ALBERTO FALZETTI

L’EFFETTO

Dice la molecola alla sua vicina: se io non posso espandermi io faccio del tutto perché tu non possa espanderti. Così facendo ciascuna, l’intero sistema implode invece di trovare una espansione seppur irregolare.

Una società del rancore può concentrare il suo obiettivo verso l’esterno attraverso una chiusura identitaria: via il diverso dal mio spazio! (Lega docet)

Una società del rancore può concentrare il suo obiettivo verso l’interno attraverso l’invidia: se io non posso tu nemmeno! (Apò lue).

Una società del rancore o del risentimento non va lontano. E’ una società “in colpa”.

Il discorso potrebbe finire qui, eppure non è tutto così tragico.

Esistono Comunità dove l’invidia da vizio privato (vizio capitale) riesce a divenire una pubblica virtù. Come è possibile questo passaggio da un male individuale ad un bene, se posto in termini collettivi? Come è possibile che la naturale invidia individuale invece di incarognirsi in una Comunità del rancore collettivo dia luogo ad una evoluzione in positivo per l’insieme della collettività? Come è possibile che un vizio privato possa divenire pubblica virtù?

LA CAUSA

Tutto dipende dalla Cultura Sociale del luogo!

L’invidia potrebbe essere ricondotta  semplicemente ad una una scarsa potenzialità dell’individuo: io non ce la faccio, sono impotente rispetto all’altro. Ciò mi crea una segreta ammirazione verso chi può. Un tempo, in ambito greco-romano, questa segreta ammirazione si traduceva in venerazione verso il migliore a causa di una relazionalità sociale che favoriva l’ammirazione verso chi possedeva capacità. E ciò avveniva senza offendere il perdente, il meno potente.

Ecco, dunque, che in una società dove vige l’antagonismo controllato si riesce a trasformare il vizio privato in pubblica virtù, evitando il dramma della società del rancore.   

Una società, come l’attuale, dove le relazioni sociali premiano, invece, solo il successo ed ignorano l’impotenza trasformandola, anzi, in disprezzo sociale (basti pensare alla terribile “irrilevanza del perdente”) sono il laboratorio dell’invidia: Credimi, io sono profondamente triste per il bene altrui e lo sopporto, lo sopporto come un terribile male proprio, che mi lacera le carni, giorno dopo giorno, istante dopo istante. Io annego in questo abisso di odio!.

Dunque, la relazione sociale è il nodo essenziale che può permettere o non permettere il passaggio dell’invidia individuale in virtù pubblica!

(Salto a piè pari le cause remote dell’uguaglianza forzata dovuta al cristianesimo, crogiuolo di latente invidia fra uguali, che certo uguali non potevano mai essere. L’articolo del Venerdì precedente sull’ IO permette di capire come non la religione ma la mistica può solo superare l’invidia).

CALIAMO LO SGUARDO VERSO LA CITTA’

Il Covid qualcosa ci sta insegnando.

Il Capitale Quotidiano (ciò che ci serve ogni giorno per sopravvivere:  sanità, servizi, assistenza, trasporti, scuola, acqua, gas, elettricità, fogne, telecomunicazioni, trattamento rifiuti, socialità, bar, ristoranti….) dopo anni di austerità , di tagli lineari, di outsourcing e di privatizzazioni sembra essere alla ribalta. Noi viviamo di esso, senza di esso un dramma. Questo lo abbiamo ben sperimentato.

Ma una cosa, in particolare, abbiamo cominciato a capire all’interno del capitale di cui sopra: se ci viene meno la socialità sono guai seri. Non lo capivamo bene perché era ovvia. Fino a che è venuta a mancare di colpo un giorno, d’inverno. Ma la socialità è una conquista, un retaggio della storia.

Un luogo non è solo spazio seppur organizzato con infrastrutture umane. Un luogo è la coscienza che i cittadini hanno di quello spazio. Una Comunità è tale se ha coscienza dello spazio che abita, ovvero se pensa che quello spazio sia un “luogo”. Così esiste una Comunità, altrimenti è solo aggregato umano che con-divide spazio urbano e geografico.

Se oggi, con l’articolo di Fabrizio e i tanti interventi a seguire, poniamo in evidenza il problema identitario è perché Covid ha disvelato l’importanza dello stare assieme. E nel riflettere sulla socialità ecco il ritornare a galla un vecchio problema: esiste una identità valoriale in quella che è la “citta come il Papa volle”?

Viterbo ha le sue mura che la difesero da Federico II. In quelle mura si affacciò Rosa gridando contro il nemico (se è un mito è però verosimile e tanto basta!). Tarquinia si sente erede ricca di un passato libero e glorioso. L’autonomia nel corso della storia, sia pur controllata, non è cosa da poco conto nel patrimonio genetico di una popolazione.

Lascio, tuttavia, agli storici il cavar fuori i giusti argomenti e mi limito solo a chiarire come il ricostruire una identità carente, debba fare i conti con le attuali fragilità che certo costituiscono un freno ad ogni buona intenzione di politica culturale del luogo.

Civitavecchia soffre di una fragilità economica. Quante volte è stato scritto nel blog l’incertezza della vocazione economica?

Civitavecchia soffre di fragilità demografica perché deve poter integrare culture diverse ( un giorno recitammo Dante in dialetto e riuscimmo a tirar fuori quasi tutti gli idiomi italici da parte dei residenti in città).

Civitavecchia soffre di fragilità sociale perché come ben sa Nicola scarseggia di Capitale Sociale (dal confine laziale in giù è un guaio).

Civitavecchia  soffre di fragilità paesaggistica per i vincoli militari, l’invasività ovvia del porto.

Civitavecchia soffre di fragilità ambientale per motivi che tutti sanno.

CARLO ALBERTO FALZETTI