LA NOTTE DELLE STELLE (3-FINE). LA RIVOLUZIONE MANCATA DEL CALCIO SPETTACOLO
di NICOLA R. PORRO ♦
Mi concedo qualche riflessione conclusiva per esaurire le mie incursioni in tema di Superlega e, più estensivamente, di sport spettacolo. Il calcio dei top club, “Gran Teatro del Mondo”, evidenzia infatti in modo speciale le connessioni del fenomeno con le politiche nazionali, con i processi di integrazione comunitaria e con quella dialettica fra neoliberismo e ritorno dello Stato che è stata innescata in Europa dalla pandemia. Voglio ricordare, ad esempio, come l’operazione Superlega abbia suscitato una ferma, tempestiva (e persino inattesa) reazione della Commissione europea attraverso la sua vicepresidente Margherita Schinas. Un intervento che potrebbe annunciare quel salto di qualità nelle politiche comunitarie di settore invocato dall’economista olandese Tsialle van der Burg («EU competition law, football and national markets» in Managing Sport and Leisure, DOI: 10.1080/23750472.2020.1863851. Id. «Superlega e nuova Champions League, dov’è la concorrenza?», nella Voce online del 20 maggio 2021). Lo studioso osserva come, negli stessi giorni in cui naufragava l’operazione Superlega, il congresso della Uefa avesse varato una riforma della Champions League destinata anch’essa ad accrescere il divario di risorse e di opportunità fra grandi club e società meno blasonate. Una pura coincidenza temporale? Burg non lo crede. Ritiene invece che stia prendendo rapidamente forma un’autentica transizione di modello del calcio professionistico chiamando in causa la Commissione europea a tutela di tre distinte tipologie di attori: i tifosi in senso lato, il pubblico degli stadie i telespettatori. Se infatti un torneo internazionale di eccellenza coinvolgesse una squadra capace di mobilitare non solo ascolti televisivi ma anche le tradizionali tifoserie da stadio insediate nello stesso spazio territoriale e demografico di altri competitor– accadrebbe in Italia nel caso dei quattro distretti urbani di Roma, Milano, Torino e Genova –, quel club godrebbe di un indiscutibile vantaggio di posizione rispetto al proprio concorrente diretto. Per fare esempi concreti: qualora sia il Milan sia l’Inter militassero nella vagheggiata Superlega, la concorrenza fra i due club milanesi per la conquista di tifosi, pubblico pagante e telespettatori rimarrebbe inalterata. Ciò non accadrebbe invece nel caso torinese, con la Juventus in Superlega e il Torino no. La prima godrebbe di una tale rendita di posizione da far venir meno qualunque interesse a contenere i prezzi degli ingressi, degli abbonamenti e del merchandising o a negoziare prezzi abbordabili per le utenze televisive. La Superlega penalizzerebbe perciò seriamente uno dei competitor– non necessariamente di modesto profilo agonistico (proprio il Torino è stato più volte a un passo dalla promozione a campionati di rango continentale) -, contraddicendo quella filosofia antimonopolistica e concorrenziale cui si ispira il diritto comunitario quando assimila i club di calcio professionistici a vere e proprie imprese obbligandoli a rispettare le norme Ue in materia di concorrenza.
Anche in Inghilterra, sottratta dopo la Brexit ai vincoli comunitari, la reazione del primo ministro Boris Johnson è stata assai poco british verso i sei club coinvolti nel progetto Superlega. Nessuno di essi, con la sola eccezione del Tottenham, è di proprietà britannica, ma la levata di scudi del governo e la protesta delle tifoserie ha imposto una repentina retromarcia al Chelsea, il cui patron è il magnate russo Roman Abramovich, e al Manchester City, di proprietà emiratina (ragione questa di una complicata vertenza diplomatica fra Abu Dhabi e Gran Bretagna). Gli altri club della Premier si sarebbero anch’essi ritirati presto in buon ordine sotto la pressione delle rispettive tifoserie. Una mobilitazione spontanea che, nell’orientare l’esito della vicenda, è risultata più efficace delle roventi parole di Aleksander Ceferin, il presidente sloveno dell’Uefa che aveva definito la Superlega “un cinico progetto fondato sull’interesse personale di pochi club”.
Tuttavia la vicenda, nei suoi svolgimenti al crocevia fra business, politica e conflitto mediatico, ci ha restituito un profilo aggiornato del grande calcio professionistico a pandemia ancora in corso. Il Covid, peraltro, ha infierito su un sistema già allo stremo. La mancanza di introiti a fronte di uscite quasi inalterate – nella media dei cinque campionati europei maggiori gli stipendi dei giocatori pesano da soli per il 60% del fatturato – ha accelerato la resa a discrezione del sistema calcio a una finanza globalizzata e interessata soltanto a quegli utili di certa e rapida esigibilità rappresentati dai diritti televisivi. L’attenzione degli investitori si è di conseguenza concentrata sui bilanci dei top clubnei cinque Paesi maggiori assumendone come indicatore di rischio la sostenibilità finanziaria (stimata pari a una o due finanziarie di un Paese Big Five).
D’altronde, tutti i protagonisti della intricata vicenda, dai governi nazionali agli sponsor, dalla Uefa ai top club, dalla Commissione Ue al grande business digitale, affermano di condividere – pur per ragioni e con finalità diverse – la necessità e l’urgenza di una profonda riforma delle competizioni calcistiche internazionali, a partire dalla Champions League. È persino possibile, sostengono alcuni commentatori, che l’offensiva scatenata sulla Superlega da parte dei top club mirasse non tanto a conseguire un risultato immediato quanto ad anticipare un riposizionamento delle società a capitale transnazionale in vista di interventi strategici che avrebbero imposto una complessa e delicata negoziazione fra le parti interessate. Quella che si annuncia non rappresenterebbe perciò l’inevitabile fisiologica evoluzione del vecchio sistema bensì una discontinuità che sancirebbe anche formalmente il divorzio fra sport tradizionale e sport spettacolo.
È rivelatrice, in proposito, la tempistica degli svolgimenti. Tutto si è consumato in un arco di tempo brevissimo a partire da domenica 18 aprile 2021, quando un articolo del New York Times anticipa la creazione di una breakaway leagueeuropea. Poche ore dopo la notizia trova conferma in uno scarno comunicato stampa emesso dalla società di diritto spagnolo European Super League Company S.L. con cui si rendono noti i dodici club fondatori, la formula e la virtuale composizione del torneo, riservato a «The best clubs. The best players. Every week». Tempi e modalità dell’operazione non vengono precisati, ma è chiaro l’intento di dar vita a un’alternativa iper-campionistica alla Champions League tramite un consorzio di società che avrebbero amministrato in proprio e senza intermediari i rapporti con sponsor e broadcaster spartendosi i proventi da diritti di trasmissione e accordi commerciali. A tambur battente, mentre si rincorrono le voci su un imminente ingresso in campo della JP Morgan, la Uefa – ente insieme regolatore e organizzatore delle coppe continentali di club – sconfessa l’iniziativa insieme alle federazioni calcistiche inglese, spagnola e italiana e alle rispettive leghe.
Questo passaggio merita attenzione perché proprio la Uefa è stata, a partire grosso modo dalla metà degli anni Novanta, fra i maggiori responsabili della mutazione genetica intervenuta nel calcio europeo, rendendo via via più profondo a tutti i livelli il fossato che avrebbe separato i club più ricchi e celebri dagli altri. Sorprende anche scoprire – lo ha rivelato Il Sole 24 Ore– che le leghe dei Paesi interessati alla Superlega fossero a conoscenza del progetto già un paio di mesi prima del tentato blitz. Insomma: più che l’operazione in sé lasciano stupiti le tante zone d’ombra della vicenda e l’improvvisazione e la superficialità della sua gestione mediatica pur in un contesto comunicativo definito infodemico, imperante da un paio di decenni e particolarmente invasivo nel caso dell’informazione sportiva. Da parte sua, nel tentativo di rifarsi una verginità, la Uefa ha proposto della intricata vicenda una rappresentazione a tinte populistiche che associava legittime ragioni di contestazione a una del tutto immeritata beatificazione delle istituzioni calcistiche europee.
Al di là del profluvio di retorica e di non poca ipocrisia, la tragicomica vicenda della Superlega ha comunque conferito teatrale evidenza ad alcuni tratti del calcio europeo fondati su criteri di metodo e di merito del tutto diversi da quelli dello sport professionistico nord-americano. Quest’ultimo esalta senza infingimenti la redditività del business e, in stretta simbiosi, la spettacolarità garantita dal sistema delle leghe chiuse e tendenzialmente permanenti. Elementi che connotano in profondità le stesse tifoserie, assai più inclini, rispetto al modello del calcio europeo, alla celebrazione campionistica e all’esaltazione spettacolare e specularmente assai meno sensibili al richiamo delle appartenenze localistiche e delle tradizioni identitarie.
Guai però a scambiare la cantonata di dirigenti ricchi di soldi e di ambizioni più che di capacità critiche per la pietra tombale di un progetto ispirato all’idea della Superlega. Sarebbe invece utile mantenere viva l’attenzione sulla strisciante metamorfosi del sistema e vigilare sulle logiche opache che presiedono al reticolo delle proprietà transnazionali. Non si tratta di rigurgiti di anacronistico nazionalismo. I tifosi più avvertiti cominciano infatti a chiedere di essere più ascoltati e a contestare vivacemente le proprietà estere, come ha esemplarmente evidenziato la protesta che ha travolto il Manchester United. Con il risultato paradossale di legittimare e rinforzare le leadership dei club non scissionisti, come il Bayern e il Paris Saint-Germain. Il presidente di quest’ultimo, l’imprenditore qatarino Nasser Al-Khelaifi, siederà sulle poltrone occupate da Andrea Agnelli: un significativo transito dalla tolda di comando della European Clubs Association all’incarico nell’esecutivo Uefa.
Sarebbe in conclusione semplicistico liquidare la vicenda come una battaglia vinta dai buoni – gli alfieri del calcio popolare e patriottico – contro i cattivi affaristi del calcio apolide e miliardario. Sono piuttosto emerse criticità e contraddizioni che vanno indagate e che interessano un sistema in profonda trasformazione. C’è lavoro di riflessione per onesti tifosi e osservatori non distratti.