APÒ LUI

di FABRIZIO BARBARANELLI ♦

Era gennaio 2013 quando Ute Lemper, la grande cantante tedesca, fu ospite del nostro teatro riempiendo per tre sere consecutive ogni ordine di posti e suscitando l’entusiasmo generale.

Un evento indimenticabile e spero indimenticato anche in una città dalla memoria fragilissima come la nostra.

Una sera si trattenne a cena e nel corso della conversazione alla taverna del Moro, davanti a un piatto di baccalà che trovò il suo massimo apprezzamento, chiese quale fosse l’espressione che meglio poteva caratterizzare il popolo di Civitavecchia.

Ci fu l’impegno di tutti per trovare il motto che fosse identificativo delle nostre “virtù” e alla fine il consenso andò all’intuizione di Pino Quartullo che sostenne che ciò che meglio ci caratterizza è l’espressione “Apò lui”. Sopravanzò “Mancalicani” che pure ebbe un buon piazzamento.

Ute Lemper volle conoscerne il significato e infine ne prese atto. Era divertita e pensierosa e dava la sensazione di rimuginare qualcosa che però non disse.

La sera, durante lo spettacolo, uno spettacolo che incantava il pubblico che gremiva il Traiano, interruppe improvvisamente la canzone che stava magistralmente cantando, si chinò lievemente in avanti, si fermò a guardare il pubblico e, con l’indice della mano destra puntato sui presenti come a volerli indicare uno ad uno, con aria tra il divertito e il derisorio, da attrice consumata, ci rivolse un “Apò lui” che riecheggiò dalla platea alla galleria, creando stupore e incredulità.

Ci fu un attimo, ma solo un attimo di smarrimento in sala, perché subito lo stupore lasciò il posto alla ilarità e a uno scrosciante applauso.

Ci eravamo riconosciuti.

Apò lui che nella versione più civitavecchiese sarebbe Apò lue, tradotto letteralmente può significare “guarda un po’ lui” con l’aria canzonatoria, come a dire “ma chi si crede di essere quello?”

Ed ha ragione Pino che può essere elevato a nostro simbolo. Simbolo del nostro provincialismo e, diciamolo pure, di quel conflitto permanente che serpeggia nella società cittadina e di cui in città abbiamo piena consapevolezza. Non si accetta il successo, di qualsiasi natura esso sia, dell’altro, del vicino di casa, di chi incontriamo al cinema, al ristorante, nelle strade cittadine.

Ci infastidisce. Si tratta di una eterna sotterranea competizione che non costituisce uno stimolo a migliorare ed emergere. In qualche caso forse lo è, ma soprattutto c‘è il desiderio che altri del nostro territorio non abbiano successo.

“Nemo profeta in patria” è una espressione antica, affermatasi dal tempo dei Vangeli, non l’abbiamo inventata a Civitavecchia. Ma qui da noi è nel profondo, radicata, invasiva ed invadente, permea il tessuto cittadino.

Sentire la vicinanza di una persona di successo, può significare mettere a nudo le proprie insufficienze, le proprie frustrazioni e può risultare inaccettabile.

È la fragilità della natura umana che in una cittadina di provincia come la nostra, si esprime e si consolida nel tempo, condizionata dalle complesse vicende della storia che nella nostra realtà coincidono in larga parte con lo Stato pontificio.

Finché queste fragilità restano nella sfera privata si possono esaurire nel disdicevole sentimento dell’invidia che è sofferenza per chi la prova e fastidio per chi la subisce.

Se si fermasse qui il danno sarebbe lieve. Ma da noi travalica il privato ed invade la sfera del pubblico.

Ci sono comunità in cui il sentimento dell’invidia è forte quanto da noi ma nei momenti in cui c’è da fare scelte, pur tra tante ostilità, divisioni, contraddizioni e personalismi, prevale la difesa dei conterranei e si sviluppa una sorta di linea del Piave: di qui non si passa sembrano dire soprattutto quando c’è da distribuire vantaggi o incarichi.  E tra gelosie, invidie, contrapposizioni, alla fine il prescelto deve essere comunque del territorio.

Citiamo spesso a titolo di esempio la vicina Viterbo, e ripetiamo insistentemente che sarebbe impossibile per un civitavecchiese superare la linea di confine, anche per i vantaggi o gli incarichi più modesti.

Da noi no. Da noi l’Apò lui, è sempre riferito al concittadino, al vicino, e prevale su ogni altra considerazione.

Meglio un forestiero che valorizzare un autoctono.

E ciò che vale per la sfera pubblica vale anche, dicevamo, per quella privata.

Provate ad aprire un locale. Che so? un negozio, un ristorante. Soprattutto se è di buon livello scattano le domande: e i soldi, dove li ha presi? E come corollario: cosa ci sarà dietro?

Ed è così che col passare degli anni ci si è persino rassegnati a considerare naturale e scontato che gli incarichi più prestigiosi siano assunti da degnissime persone, certo, ma a condizione che non siano della città.

Al forestiero nessuno dirà mai “Apo lui”. Questo lo custodiamo gelosamente per noi.

Eppure è una città che ha individualità di sicuro livello nei campi più diversi: nella letteratura, nella musica, nell’arte, negli studi storici e scientifici, nel teatro, nell’artigianato, nella moda, nelle professioni. Tanti che si impegnano e che svolgono un lavoro di qualità, ma che troppo spesso operano in solitudine o chiudendosi in gruppi ristretti di amici, anche per non rischiare di essere raggiunti da un inesorabile “Apò lui”.

Noi, malgrado le indubbie qualità presenti nella società cittadina, non siamo destinati alle postazioni importanti, neppure a quelle che decidono le nostre sorti. Noi siamo vittime del virus dell’“Apò lui”.

Sono consapevole che il mio è un gioco un po’ paradossale e che c’è, intenzionalmente, una forzatura di toni. C’è anche una visione un po’ caricaturale di ciò che siamo, ne ho piena consapevolezza. Ma se ciò può essere utile per provocare una discussione sui processi di sudditanza culturale (chi viene “da fuori” è sempre migliore) e di “colonizzazione” anche economica che subiamo da decenni e che costringono le migliori energie di cui disponiamo ad emigrare in luoghi più riconoscenti, accetto il rischio che chi legge alla fine mi rivolga con la stessa aria di scherno di Ute Lemper un sonoro e forse meritato “Apò lui”.

FABRIZIO BARBARANELLI

La foto di copertina è tratta dalla serata: Ute Lemper “Last tango in Berlin” al Teatro Traiano   11/12/13 gennaio 2013