LA NOTTE DELLE STELLE (2). LA SUPERLEGA, I SOLDI E UN’IDEA DI EUROPA

di NICOLA R. PORRO

Se mi occupo ancora del caso Superlega e degli effetti di ritorno che hanno interessato l’intero sistema calcistico europeo, è per sviluppare qualche riflessione utile a meglio ricostruirne la genesi e a fissare alcuni punti fermi. Una considerazione preliminare riguarda l’incidenza dei vincoli europei e il ruolo esercitato da osservatori professionali adusi, nel bene e nel male, a indagare il pianeta calcio attraverso le stesse lenti inforcate per analizzare qualsiasi altro business di ampia portata. È infatti significativo come l’allarme, rivolto soprattutto ai dirigenti di società non pregiudizialmente ostili al progetto, sia partito proprio da osservatori specializzati.  Spulciando fra lapidari comunicati stampa e scambiandosi preziose indiscrezioni, avevano compreso per primi che i club promotori dell’Eurolega non intendevano affatto rinunciare ai campionati nazionali e ai loro proventi, a cominciare dai diritti televisivi. La partita delle royalties, del resto, era stata scatenata negli stessi giorni con l’ingresso in campo della Dazn, un colosso dell’intrattenimento televisivo, domiciliato in Gran Bretagna, che offre a pagamento in trenta Paesi lo streaming on line di eventi sportivi, in diretta e on demand. La sua sola comparsa aveva fatto bruscamente lievitare il costo dei diritti televisivi nell’area Big Five (i cinque campionati nazionali di Francia, Germania, Inghilterra, Italia e Spagna). 

Per i club della serie A italiana l’offerta per il triennio 2021-24 era stata di 840 milioni. Tanti soldi, ma destinati a essere drasticamente decurtati se tre top player come Juventus, Inter e Milan avessero abbandonato, volenti o nolenti, la massima serie nazionale. Insieme, questi tre club hanno vinto 73 dei 117 scudetti assegnati nella storia della serie A. Insieme possono contare su qualcosa come 16 milioni di tifosi. Insieme hanno gestito nel 2020-21 il 38% di tutti i ricavi prodotti dal campionato nazionale. Il panorama italiano non è del resto molto dissimile da quello di altri Paesi. In Gran Bretagna Bt Sport, un’associazione cui aderisce una costellazione di reti televisive a pagamento, ha rilevato per quattrocento milioni di sterline i diritti sul campionato inglese di prima categoria. La stessa operazione, relativa alla Ligue 1 francese, è costata a Bein e Canal+ 380 milioni di euro, mentre Telefonica ne ha spesi pochi di meno (360) per acquistare i diritti del campionato spagnolo. Sullo scenario italiano, sin qui dominato dalla trimurti Sky, Mediaset e Amazon, l’esborso dei contraenti ha superato “appena” i 240 milioni. Vale a dire oltre il 40% di tutti i profitti mobilitati dal calcio italiano. 

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Questa ricognizione è sufficiente a spiegare le ragioni reali del tentato blitz di aprile: bisognava mettere il sistema davanti al fatto compiuto per negoziare da posizioni di forza il “dopo”. Un’operazione, insomma, condotta con metodi del tutto affini a quelli adottati dai grandi raider d’impresa sul mercato del commercio e della finanza. Forse, però, gli «scissionisti» hanno sottovalutato proprio l’effetto di ritorno del tentato blitz. L’arena mediatica, infatti, è oggetto da almeno venti anni di specifiche politiche comunitarie. Il terremoto della Superlega si è configurato, forse persino al di là delle intenzioni dei promotori, come un’offensiva frontale rivolta ai princìpi di regolazione della concorrenza fra sistemi di produzione tv. Sono queste regole del gioco, faticosamente negoziate, che, ad esempio, ancora garantiscono, nella maggior parte dei Paesi Ue, la sopravvivenza delle reti televisive generaliste. La Superlega avrebbe scatenato un conflitto difficilmente ricomponibile fra i vari attori interessati. Il depotenziamento dei maggiori campionati nazionali avrebbe penalizzato anche le reti generaliste, declassate a emittenti a servizio del “calcio minore”. I  network commerciali sarebbero stati trascinati in una guerra senza esclusione di colpi fra potentati transnazionali. A rischio anche la posizione delle pay tv come Canal+, Bein e la stessa Sky, collocate sulla linea geopolitica di scontro fra i maggiori media europei.

Approfondendo l’indagine per un articolo di prossima pubblicazione su una rivista specializzata, ho anche scoperto le dimensioni inattese di un fenomeno che meglio di qualsiasi altro illustra la crescente internazionalizzazione delle tifoserie. Ho appreso, ad esempio, che il Milan vanterebbe ben 43 milioni di tifosi di nazionalità non italiana. La Juventus ne avrebbe 23 e l’Inter 14. Se invece calcolassimo i follower attivi sui social, i sostenitori juventini che usano Instagram sarebbero addirittura 48 milioni: i digital-juventini rappresenterebbero così ben l’87% del totale, grazie soprattutto a tifosi non domiciliati in Italia.  Addirittura 97 milioni quelli che frequentano la pagina Facebook del club torinese, pari all’82% del totale dei supporter di tutte le società di prima categoria. Sono cifre interessanti per ridisegnare il profilo sociologico del tifo, purché siano analizzate con l’opportuna cautela, per esempio verificandone periodicamente l’attendibilità, depurando i dati da troppe sovrapposizioni e mettendo sotto controllo l’effetto di reti “circolari” dedicate, come nel caso prima ricordato del massiccio ricorso a Instagram da parte dei fan bianconeri. 

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Le cifre segnalano tuttavia, senza ombra di dubbio, l’emergere di un fenomeno sottovalutato, che interessa il tifo “transnazionale” – i nostri club hanno tifosi non italiani, ma non mancano tifosi italiani del Real Madrid o di altri top club europei – e che, se consideriamo tifosi “militanti” e follower, rende l’idea della posta in gioco attorno all’offerta a pagamento di calcio televisivo: un enorme bacino di utenza che genera profitti distribuiti assai poco equamente. Quasi due terzi dei 458 milioni di sponsorizzazioni incassate dai club della serie A italiana nel campionato 2019-20 (l’ultimo prima della pandemia), inoltre, hanno beneficiato le tre squadre italiane che compaiono fra i club promotori della Superlega. 

Ve però osservato come questo scenario finisca per entrare in rotta di collisione proprio con il progetto Superlega. Infatti, se esso avesse avuto successo e ai club di élite fosse stato concesso di militare sia nella lega europea sia nel campionato nazionale, le società si sarebbero imbattute in problemi non da poco. Per citarne uno, a differenza di quanto avviene nel basket professionistico, non è nel calcio tecnicamente possibile impegnare in due turni settimanali, a distanza di pochissimi giorni, la squadra migliore. La partecipazione a una Superlega imporrebbe così ai club interessati di impegnare nel campionato nazionale formazioni di ripiego con grave detrimento della qualità tecnica. Ne risentirebbero gravemente la spettacolarità e la stessa redditività del torneo. Oppure, in alternativa, si produrrebbe un fenomeno di ipertrofia degli organici dei club maggiori scavando un fossato invalicabile fra club di eccellenza e parenti poveri, generando un ferreo oligopolio e producendo un inesorabile declino dei tradizionali campionati di categoria. 

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La vicenda Superlega, insomma, ha avuto almeno il merito di dare palmare evidenza alle dimensioni e al profilo sociale (nonché all’esigenza di un’adeguata analisi sociologica… ) del complesso universo del calcio spettacolo. La risonanza di quell’arrischiato progetto riflette peraltro un interessante fenomeno di europeizzazione. Anche nel calcio lo spazio europeo è divenuta l’arena materiale e simbolica della più diffusa passione popolare della tarda modernità, sino a rimuovere – nello spazio temporale dei novanta minuti calcistici – persino i conflitti che ancora insanguinano le aree periferiche del continente. Il Real Madrid o la Juventus che si esibiscono in Ucraina o in Bielorussia rappresentano di per sé un evento il cui valore sfugge all’algido calcolo delle esternalità economiche esaltandone piuttosto un profilo politico-culturale che non riflette le convenienze delle parti ma descrive un’inedita quanto compiuta geopolitica del continente. C’è il nocciolo duro dei grandi club di area Ue, c’è lo spazio calcio-politico britannico, c’è una periferia orientale stretta fra il rinascente egemonismo russo e la potenza commerciale comunitaria, ci sono i prosperi ma politicamente insignificanti Paesi extra-Ue dell’Europa centrale e nordica.

Il futuro calcistico di questo sistema è in divenire come come quello politico dell’intero continente. A maggior ragione occorre fissare rigorosamente alcuni punti fermi. Un pizzico di ottimismo viene dalle parole con cui la vicepresidente della Commissione europea, Margherita Schinas, ha concluso il suo risoluto e tempestivo intervento a proposito della Superlega:

Dobbiamo difendere un modello di sport europeo basato sui valori, sulla diversità e sull’inclusione. Non c’è spazio per riservarlo ai pochi club ricchi e potenti che non vogliono legami stretti con tutto ciò che le associazioni rappresentano: campionati nazionali, promozione e retrocessione e sostegno al calcio dilettantistico di base… 

Insomma: la palla è al centro, forse la partita vera può avere inizio.

NICOLA R. PORRO