IL CREPUSCOLO DEL CAV. MANZI 3/5
di SILVIO SERANGELI ♦
Le svariate attività del cav. bastano a mantenere un tenore di vita dignitoso. Per dire che i tanto lodati ritrovamenti nelle campagne di scavo non danno ricchezza: c’è da fare i conti con il fallimento di alcuni tentativi con la manodopera comunque da pagare, c’è il costo per il risanamento dei terreni agricoli e, quando va tutto bene, ci pensa il clero, imbattibile non solo nelle professioni di fede, ma per l’avidità e le sue capacità ricattatorie. Le recensioni, le cronache del prestigioso Bullettino dell’instituto di corrispondenza archeologica sulle notevoli campagne del Cav. Manzi sono la poesia, la prosa parla di grettezza mercantile dei porporati, disinvolti contrabbandieri e mai paghi di arricchirsi. Così il rinnovo delle concessioni viene accordato al prezzo di qualche cadeau di grande valore a sua sanità. Significativo il racconto che Stendhal fa all’amica Sophie Duvaucel nella lettera del 28 ottobre 1834 sul ritrovamento di Manzi del Sarcofago del Poeta. La Commissione Consultiva di Belle Arti chiede di acquistarlo per arricchire la collezione del pontefice Gregorio XVI, celebre per la sua dispendiosa passione per le arti e altrettanto per il dissesto delle finanze dello Stato della Chiesa. Il Cav., con l’intento di tenersi buono il santo padre, in vista di future richieste di scavo, fissa il prezzo in 1.200 scudi, ma gliene vengono accordati solo 300 e, dopo un lungo contenzioso, contrassegnato da umilianti anticamere, riuscirà a riscuoterne soltanto 200.
Non è un incidente di percorso, è la norma, il pizzo da pagare ogni volta, mentre con il tempo il mercato delle etruscherie è inflazionato e sempre meno remunerativo. L’erede Manzi paga il crollo economico del padre Camillo e dello zio Giovanni, assentisti spazzati via dalla disfatta di Abukir. Più di 25 mila scudi di sole forniture andati in fumo. Nel luglio del 1808, la causa intentata contro la Camera Apostolica ottenne la liquidazione di 15 mila scudi svalutati, appena la sesta parte della somma sborsata. I pignoramenti, le ipoteche, le vendite forzate, l’assillo dei creditori si trovano, come mi è capitato di leggere, scorrendo gli atti dei notai Bruni e Torraca, conservati nel nostro Archivio comunale, nel quale mi è sembrata vistosa l’assenza (?!) di un faldone «Manzi» registrato però nell’indice generale.
Verrà impegnata con iscrizione ipotecaria perfino la dote di duemila scudi di Angela Cocconari [Coccanari], moglie di Pietro (notaio Bruni, 27 luglio 1821, rep. 192). La conferma desolante, che potrei definire con una mia impressione personale perfino imbarazzante, della situazione finanziaria del Cav. Manzi sono il testamento del padre Camillo (rep. 306) e, soprattutto, l’ «inventario dei beni», redatto dal notaio Torraca (21 dicembre 1826, rep. 623).
La definizione «mediocre» si ripete per ogni oggetto, mobile, suppellettile. Perfino i materassi e i cuscini sono in stato pietoso; il perito Francesco Mollica, il padre della stendhaliana «signorina Mollica» che incanta con la sua bellezza e la sua voce, si guarda intorno e scrive: «di niun valore»; anche la cappella è in stato di abbandono. Forse si salvano i libri di Pietro. E dire che queste stanze avevano visto incontri, feste, banchetti di grandi personaggi fino all’abbandono e alla sopravvivenza, alla sporcizia e alle muffe che è facile immaginare. Nessuna attenzione desta la «camera delle pitture sul mare», poi ribattezzata come «camera con pittura rappresentante Attila» con le «sedie di bambù affastellate in un angolo». Nel documento risalta la cifre del debito: 7560 scudi. Mi sono chiesto, e mi chiedo senza nessuno spirito polemico nei confronti degli illustri sostenitori di queste pitture di Raffaello (?) raffaellesche (?) di piazza Leandra, che hanno fatto il giro del mondo con un tormentone che dura ormai da decenni: possibile che non fosse riconosciuto il valore dell’Attila, o più realisticamente era valutato per quello che era: una decorazione di genere?
Sorge spontaneo il dubbio di come sia stato possibile che i frequentatori di casa Manzi non abbiano fatto cenno a questo piccolo capolavoro. Come mai non ha speso neppure una riga un personaggio sempre curioso e attento ai particolari e all’arte come il console Stendhal che, è bene ricordarlo, le Stanze di Raffaello le aveva viste dal vero? Comunque, alla morte del padre Camillo resta ben poco, anzi in uno dei tanti rendiconti stilati dal notaio Torraca leggo: «debiti secchi: 2034.34 scudi». C’è da dire che il Cav. Pietro non ricavava molto dal suo lavoro d’avvocato, dei guadagni provenienti dagli scavi si è detto, e nonostante nei titoli fosse un notabile, per certi versi inserito nel sistema, quando si trattava di trarre dei vantaggi economici, veniva messo da parte dall’oligarchia dei potenti della petite ville.
SILVIO SERANGELI (3/5 segue)