UNA MISSIVA PER MARIO DRAGHI

di CARLO ALBERTO FALZETTI

Caro Presidente.

quando Le giungerà questa mia, Ella sarà colto da stupore ed incredulità apprendendo che il Suo vecchio Professore di Università possa scrivere da qualche misterioso luogo del cosmo.

Ma La prego di aver fede, la lettera ha il crisma della autenticità. Non ho facoltà di far luce sulle cause che permettono tutto questo. Abbia fiducia in nome del passato e si limiti solo a leggerne il contenuto.

Diverse volte, nella vita civile del nostro Paese, è risuonato il richiamo di rivolgersi alla storia. E anche oggi, malgrado i ripetuti inviti a pensare al futuro, il passato può esser guida feconda. Nel dopoguerra uomini politici hanno assunto responsabilità  inaudite e  non nascondendo le difficoltà alle quali avrebbero dovuto far fronte hanno preferito tentare, intraprendere, organizzare.

Posso fra tanti riferirmi a Luigi Einaudi nella profonda consapevolezza di tutto quello che gli dobbiamo. E Lei ben sa quanto distanti possono essere le mie idee dalla innata saggezza dell’allora Governatore della Banca Centrale.

Se mi permetto di scriverle e di ricordare il contributo coraggioso dei Padri Costituenti è perché si ha l’impressione che le difficoltà ad una azione concretamente realizzatrice siano, in larga misura, da ricercare all’interno delle stesse forze del Suo governo.

Al compromesso inevitabile nei governi di coalizione si sovrappone un pluralismo di indirizzi contrastanti e spesso “coloritamente” polemici, non riconducibili ad un camino comune, anche con l’intervento più paziente e sagace di chi, come Lei, ha compiti di mediazione e di guida.

Riconosco del tutto illuminanti le osservazioni di Norberto Bobbio allorché superava la vecchia antitesi tra buongoverno e malgoverno  scoprendo che la vera antitesi fosse tra governo e non governo.

A me sembra che nella stessa sede di governo si manifesti una non dissimulata conflittualità di orientamenti, di interpretazioni e di decisioni che contribuiscono alla difficoltà di navigazione mentre il mare è in tempesta.

 Quanto alla società civile, così frequentemente oggetto di critiche, di censure e di ammonimenti per osservare obblighi di lockdown, mi sembra che essa dia prova di una pazienza che, in quanto incline all’atavico rinchiudersi nel particolare, non può che considerarsi come atteggiamento positivo.

Caro Presidente, non necessita che sappia quanto io la stimi, tuttavia vorrei far notare come l’inseguimento della fata morgana della mediazione permanente  mirante alla precostituzione di consenso  per future desiderate decisioni non sempre permette il passaggio al piano del reale da parte del progettuale.

Il riformista è consapevole, se è vero riformista, che alla derisione di chi lo considera un impenitente “tappabuchi” si aggiunge lo scherno di chi pensa che ci sia poco da riformare. Ma egli procede senza tregua, con ferma decisione allo scopo di fuoriuscire dal dramma, anche a costo di perdere quel consenso ricercato.

Non posso rassegnarmi che una intera generazioni di giovani debba pensare che sia nata in anni sbagliati e debba subire come fatto ineluttabile il suo stato di assenza di insegnamento. Non posso rassegnarmi che un intera generazione debba subire il precariato occupazionale. Non posso rassegnarmi che i piccoli imprenditori  debbano rischiare la loro impresa. Come non posso che rifiutare con tutto il mio animo il trade-off tra equità ed efficienza: una società deve essere prima di tutto equa, se è equa tanto più sarà efficiente.   

La miseria genera l’odio. Lo sappia bene, Presidente.

Non voglio eccedere, da ultimo, in atti di vanagloria. Mi permetto solo di rammentare che molti anni fa potevo acquisire la carica di senatore, titolo certo per me prestigioso, ma trovai in me la forza per rifiutare la candidatura propostami da Berlinguer. Chiunque voglia rifarsi al mio pensiero sappia che questo non è mai stato scisso dal comportamento che ho avuto nella mia vita.

Presidente, so bene che conserva nel suo cuore il ricordo del suo vecchio Maestro. La prego di aver presente anche nelle sue azioni di governo il mio insegnamento.

Voglia gradire, Presidente, l’espressione del mio devoto ossequio.

                                                                                                     

                                                                                                                     Federico Caffè

Federico Caffè,  antifascista ed impegnato nella Resistenza,  fu chiamato a Roma nel 1959 come ordinario di Politica Economica nella Facoltà di Economia e Commercio. Ha introdotto l’insegnamento di Keynes  e l’Economia del Benessere. Ha insegnato ad un intera generazione di studenti di economia. Ha stretto fecondi rapporti didattici con i quadri sindacali, in particolare con la CGIL .Provato da alcune vicende familiari , dalla perdita tragica di alcuni amici (tra cui Tarantelli ucciso dalle Brigate Rosse), sconfortato per l’uscita dall’insegnamento, sua unica ragione di vita,decide di “scomparire” tra la notte del 14 e l’alba del 15 aprile del 1987.

Nessuno ha idea di come sia avvenuta la scomparsa.

CARLO ALBERTO FALZETTI