È il Mercato, bellezza! La pandemia e i limiti del capitalismo pt.1

di ROBERTO FIORENTINI
Il perdurare della pandemia, esplosa ormai da un anno, sta mettendo in luce numerosi problemi della vita socioeconomica del Mondo Occidentale. Problemi di cui, da più parti, si parlava già da tempo ma che l’establishment fingeva di non vedere. Partendo dal nostro Paese la contraddizione più forte che sta emergendo è la grande differenza tra garantiti e non garantiti. L’Istat ci dice che i dipendenti pubblici in Italia sono un filo più 3 milioni e mezzo, e lavorano in circa 12.800 istituzioni diverse. Il dato non è certissimo, anche perché non comprende affatto quanti operano a tempo determinato. A questi dobbiamo sommare gli oltre 16 milioni di pensionati. Si arriva, pertanto, ad oltre venti milioni di persone che non hanno avuto alcun danno dalla situazione scatenata dalla pandemia di Covid-19. Anzi, in alcuni casi, hanno ricevuto anche dei benefici, ad esempio risparmiando sulle spese di spostamento, visto che in gran parte stanno lavorando in smart working. Ci sono poi i lavoratori dipendenti delle grandi imprese private che spesso non hanno ricevuto contraccolpi.  Dall’altra parte della barricata ci sono, i lavoratori autonomi che sono 5,3 milioni, ovvero il 23,2% degli occupati, ben oltre la media Ue che si ferma al 15,7%. I 5,3 milioni di indipendenti sono stati suddivisi dall’Istat in tre segmenti: a) i datori di lavoro che sono 1,4 milioni; b) gli autonomi cosiddetti puri che arrivano a quota 3,3 milioni e che a loro volta si suddividono in 2,1 milioni di lavoratori in proprio e un milione abbondante di liberi professionisti; c) i lavoratori parzialmente autonomi che sono 378 mila e operano per lo più in regime di monocommittenza. Se la frattura tra garantiti e non garantiti in era ante-Covid era profonda, adesso è una voragine. Chi era garantito prima ora lo è anche di più. Chi lo era poco, adesso non lo è per niente. Le reazioni sideralmente opposte alle nuove restrizioni lo spiegano bene: pensionati, subordinati del pubblico, parte dei lavoratori delle aziende private (specie se grandi e forti o con partecipazioni pubbliche), sentendosi tutelati concordano sulla nuova stretta e, anzi, preoccupati per la diffusione del virus, sono favorevoli a nuovi lockdown. Dall’altra il mondo dei non garantiti e dei settori più colpiti, come turismo, commercio, palestre, ristorazione, eventi, è in ebollizione. Tra piccoli imprenditori, partite Iva, autonomi, lavoratori precari, a chiamata, in nero, in molti sono al limite dello sconforto e della disperazione. Qualcuno si prepara a chiudere bottega. Altri l’hanno già chiusa. Altri arrivano a dire che “è meglio rischiare di ammalarsi di Covid che morire sicuramente di fame”. La tensione, strisciante dall’inizio della pandemia, sta per esplodere in una ennesima guerra tra poveri, alimentata da una comprensibile ventata di invidia sociale. A questi, poi, dobbiamo sommare quanti hanno perso il lavoro, che sono 841.000, di cui il 60% circa sono donne e quanti erano disoccupati anche prima del Marzo 2020. Tutti questi non garantiti si stanno giustamente appellando allo Stato e protestano per le misure restrittive e per la inadeguatezza ed il ritardo dei ristori. Non c’è dubbio che chi deve restare chiuso a causa di provvedimenti amministrativi abbia diritto a ricevere una qualche forma di risarcimento da parte del settore pubblico. Ma non possiamo certo far finta che gran parte di questo mondo, composto per lo più da piccoli se non piccolissimi imprenditori, sia storicamente piuttosto lontano dall’intrattenere rapporti di correttezza con quelle istituzioni cui oggi si appella. Secondo i dati forniti dal MEF l’evasione di imposte e contributi vale oltre 100 miliardi di euro l’anno. Lo stesso Ministero stima che circa il 70% di questa immensa somma sia addebitabile proprio a questa categoria che oggi protesta per essere stata lasciata sola ad affrontare la crisi causata dalla pandemia. Sappiamo bene che quando si affrontano questi temi i lavoratori autonomi storcono il naso. Lamentano i ritardi nei permessi, una burocrazia borbonica, tasse troppo alte. E di sicuro non lo fanno a torto. Ciò non toglie che, senza voler citare il rischio d’impresa che è alla base del principio capitalistico, non è possibile appellarsi all’intervento dello Stato solamente quando conviene. Il Covid-19 in Italia sta sottolineando con incredibile forza le contraddizioni che da decenni limitano la crescita del nostro Paese. Da un lato un apparato pubblico vecchio, sclerotico, lentissimo e insensibile, appesantito da un sistema fiscale vessatorio. Dall’altro un comparto privato sovradimensionato e anarcoide, scarsamente sensibile alle regole e poco disposto alla fedeltà fiscale. Uno stato sabaudo, ottocentesco e un capitalismo anch’esso poco incline alla modernità. Basti pensare all’idiosincrasia dimostrata da sempre dai commercianti nei confronti del denaro elettronico. In un Paese così contraddittorio e arretrato, dove, da almeno da 4 decenni, il Mercato – scritto con la M maiuscola – pare l’unico moloch rimasto in vita, c’è certamente bisogno dell’intervento pubblico. Uno Stato, però, che deve diventare prima efficiente e moderno per poter regolare la tendenza dell’impresa italiana all’egoismo antisociale. Un’impresa difficile, anche per Draghi.
Mi fermo qui. Nella seconda parte proverò a parlare del Mercato in rapporto ai vaccini, in chiave più internazionale.
ROBERTO FIORENTINI