UNA PAGINA DI STORIA: LA TERRA RESTITUITA AI CONTADINI.

di CARLO ALBERTO FALZETTI

GUIDOBALDO DELLA GHERARDESCA, marchese per antico retaggio  –  “ La proprietà è un furto! Questa la verità! Hanno sottratto quasi millettari del mio pe’ dalli a qualche foresto villanporco il cui titolo di proprietà (quel giorno che l’avranno a riscatto) è d’averla sgraffignata al legittimo dominio che vanta titolo dal Dugento ad oggi.  

I corpi aviti si raggirano nell’avello. Questo è quanto.

 Omino, drizza bene lo zotico orecchiaccio. Tu, che la vuoi far da padrone sulla mia terra allora io ti dico: l’è dura la piòta con la cotenna erbosa avviluppata. Saranno secoli che la terra l’è calpestata e ricalpestata dallo zoccolo della bestia. Eppoi, o che tu non sai che il salino del mare s’è infiltrato , con guinze, fossi ed acquitrini vari nel budello della terra, in codesta terra che stai per oltraggiare, nella terra che mai c’è venuto a cuore di porre a bonifica?

Hai voglia tu, villano!

Tu e la tu’ famiglia a zappar e gettar di letame.

Tu avrai tanto da defecare in lungo e largo, a levante ed a ponente, d’estate e d’inverno , di notte e di giorno in ogni solco per azotare quest’aridume che hai tolto al mio sollazzo venatorio ed al mio bestiame”.   

RONCA AGUSTARELLO, villano di generazione in generazione – “ El mi’babbo l’ha detta giusta: meno se parla più se combina. Lascio parlà chi pole spiegà. Il resto vien dopo”.

Ed ecco, dunque, amorevoli,  lettori che spetta a me il compito di descriver l’animo d’Agustarello assegnatario di  10 ettari di dura terra a poca distanza dal mare nel cuore delle maremme amare dove il padule è stato da poco prosciugato e la perniciosa più non miete vittime tra i bifolchi.

La lesta decisione di Agustarello  ci fa strada per dare una sbirciatina al podere col suo terreno ancora sodo e con la casetta a due piani immacolata come il corpo verginale di Santa Barbara, la santa il cui nome è impresso in ben evidenza sullo sfondo bianco giglio della colonica.

Che sta accadendo nel nostro poderuccio? Sembra ci sia del trambusto. Aguzziamo la vista.

Sul mezzogiorno l’Adalgisa appare alla finestra e la si sente gridare a tutta gola: “ Agustarè la minestra va in malora, salta su ch’è l’ora”.

Ma il nostro assegnatario non ode suono. Tacco dopo tacco a gambe ritte muove passi ben cadenzati lungo la linea diritta dell’incerto confine. La falcata di un metro disegnata dalle sue gambe l’ha misurata e rimisurata nei giorni avanti.  Petto in fuori, sguardo fisso per mantenere l’allineamento, procede senza distrazione alcuna per non perder di conto.

Ecco, ora s’è fermato. Si mette diritto contro il cielo bofonchiando :

-“Quattrocento”-

 I passi sono quelli, quattrocento. Agustarello fa perno con la gamba sinistra, gira il corpo di centottanta gradi  verso la sua destra ed inizia di nuovo col passo d’ un’oca sfrontata  lungo un fossetto di confine. Ora s’è fermato di nuovo:

-“Dugencinquanta “.

L‘informativa che vien dai passi sembra esser esatta : il geometra dell’Ente l’ha detta giusta. L’ettaraggio è quello lì! Ma Agustarello scrolla la testa. C’è un assillo che lo tormenta

-“ Boiaccia! Bisogna prende  la misura giusta, ora! Ora o tutto va poi in malora. Io, la misura, me la fo da me”.

Ed allora, eccolo riprender di nuovo il verso andando a giro per tutto il perimetro a computare e computare incurante della fatica. Anzi, l’ànsimo sembra ficcargli in petto sempre più energia.

Ma non è solo, l’Agustarello.

Certo, non è solo.

Lo accompagnano una fitta serie di avi, dal babbo mezzadro, al nonno fittavolo, al bisnonno a colonìa. Eppoi, assiepati, tutti gli altri, bonànime remote della famiglia che premono sull’ardente assegnatario per farlo “move” con baldanza alla conta e riconta della terra.

-“ Fallo per noi, fallo Agustarè. Da sempre abbiamo offerto le braccia, mai potemmo fa’ quello che tu puoi. Ogni volta che te tu fai un giro noi si gode. Continua Agustarello”.

L’appello antico dà fiamma al cuore del nostro.

-“La terra l’è mia. Della mi’famiglia. Non c’è padrone. Non devo spartì. Non devo obbedì! La terra m’appartiene, m’appartiene…”

Afferra lesto una zolla, l’annusa, la guarda-“ Sei terra fredda, nessuno t’ha dato cura. Io lo so quanto ti ci vò per rasciugarti al sole. Ma bada che t’avrò doma a forza di còncio e di sovescio. Vedrai come t’accomodo ora che stai dalla mi’parte”.

Ha voglia l’Adalgisa a gridare della minestra che si va a freddare.   

Agustarello non molla, tira via a disegnare quello che con linguaggio un po’ aulico definiremmo il limes.Visto dall’alto, il tutto sembra un po’ come la scena di Romolo impegnato con il bure ed il vomere a fendere la terra per tracciare il limite invalicabile.

 E’ il momento del rito aurorale, perché strabiliare? Poi saranno a seguire le opere e i giorni, la fatica e la cura, gli affanni e le gioie. Ma questa è tutt’altra storia.

Ecco, ci sembra che a questo punto noi s’abbia assolto al compito affidatoci e si possa lasciare il nostro a dar di passo, ben sapendo quanto il suo petto sia gonfio di respiro ed il cuore gli palpiti di gioia e di baldanza.

 Tuttavia, mentre ci accomiatiamo dal podere, dobbiamo aver un po’ d’accortezza e far del nostro meglio perché il marchese non sia “a giorno” di quanto va accadendo al podere Santa Barbara. Di quanto la tracotanza di un villano osi, attraverso quel calpestio insolente, rivendicare diritti plebei  dopo secoli di gentilizia dominanza

Per la tranquillità del lettore procedo senza indugio a dar annuncio che quell’irriguardoso passo marziale non ha fatto punto notizia e che, dunque, le ugge marchionali non sono state gravate dal fattaccio di Santa Barbara.

E con ciò cedo volentieri al commiato.

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Nel 1950 la “Legge Stralcio” varava una riforma agraria di grande momento storico(“ colpo d’ariete”, così Luigi Einaudi e Giuseppe Medici definirono la Riforma).  Risultarono espropriati, sull’intero territorio nazionale, 760.491 ettari di cui 180.741 tra Lazio e Toscana (Ente Maremma). Nel Lazio furono assegnati 2.844 poderi con una media di circa 11 ettari a podere .La maremma (da Cecina a Corneto)dopo il DDT americano subì un’ enorme bonifica integrale che sconfisse il secolare male della “perniciosa” causa di migliaia di morti stagionali.    

Vennero costruiti “borghi rurali” in tutto il territorio. A Civitavecchia: Pantano. A Tarquinia: Monte D’Oro.

La ristrutturazione fondiaria ebbe, naturalmente, il maggior impatto sul latifondismo in particolare su quello grossetano sul quale meglio è possibile individuare i contrasti tra espropriati ed assegnatari. In tal senso si comprende perché la breve immaginaria storia sia stata ambientata con riferimento alla maremma di quell’area.

CARLO ALBERTO FALZETTI