IL LUNGO NOVECENTO DEL CONFINE ITALO SLOVENO

di ELISABETTA GALLO ♦

Convegno Anpi
Per parlare di una questione così complessa, si è partiti proprio dal testo della Legge n. 92 del 2004 con cui si istituisce il “Giorno del ricordo”. La data scelta è 10 febbraio, anniversario del trattato di pace tra l’Italia e le potenze alleate (tra cui la Jugoslavia) del 1947.
Nel trattato di pace del 1947 l’Italia, paese sconfitto, perse territori a favore della Jugoslavia, da cui l’esodo Giuliano-Dalmata dall’Istria di circa 350mila italiani. L’attribuzione della provincia di Trieste rimase invece sospesa: affidata temporaneamente ad un governatorato degli alleati Anglo-americani e jugoslavi (Zona A e zona B), sarà definitivamente assegnata con il “Memorandum” del 1954, ratificato dal Trattato di Osimo nel 1975.
L’articolo 1 della legge definisce il proposito di commemorare le vittime italiane e l’esodo italiano ma va ricordato che le vittime non furono solo italiane, così come gli esuli ed i deportati. La questione del confine orientale, che sarebbe meglio definire italo-sloveno superando un’impostazione “italo-centrica”, è definita dallo stesso testo di legge molto complessa. La storia del confine non inizia certo nel 1943: essa ha origini molto antiche legate al dominio della Repubblica di Venezia sulla Venezia-Giulia.
Limitandoci solo al Novecento, è il 1918 la data spartiacque: essa segna la fine della Prima guerra Mondiale e la dissoluzione dell’Impero Austro-Ungarico, multietnico e plurilinguistico. Tra la Venezia Giulia e la Dalmazia convivevano comunità di lingua tedesca, italiana, slovena e serbo-croata. L’ingresso nella Prima Guerra Mondiale dell’Italia era scaturito dal patto segreto di Londra,  in cui si accordò all’Italia, in caso di vittoria,  non solo Trieste e Trento ma anche l’Istria e la Dalmazia. Al momento della stipula del patto non si era tenuto conto che dalla dissoluzione dell’Austria sarebbe nato il Regno di Jugoslavia, a cui il Congresso di pace di Versailles assegnò la Dalmazia e la città di Fiume. Questo mancato rispetto degli accordi avrebbe dato vita al mito d’annunziano della “Vittoria mutilata”.
Il nascente fascismo degli anni 1919-20 si coniuga quindi al forte elemento nazionalista ed antislavo. Mentre l’Impero austriaco aveva cercato una convivenza sostanzialmente pacifica tra gruppi culturali e linguistici, il Regno d’Italia assume da subito la linea dell’assimilazione nazionale forzata: proibisce l’uso della lingua slovena persino nelle chiese, chiude le scuole slovene, scoraggia la diffusione dei giornali in sloveno, procede all’italianizzazione dei cognomi. Il  13 luglio 1920 viene dato alle fiamme il Narodni Dom, il centro culturale sloveno più  prestigioso. Il fascismo di confine adotta con largo anticipo, e ben prima del “Bienno Rosso” e l’occupazione delle fabbriche, l’uso della violenza squadrista contro una classe operaia, comunista e per di più slovena.
Anche il movimento partigiano e la Resistenza nacquero in quest’area molto prima dell’8 settembre del 1943. Il T.I.G.R. (Trieste, Istria, Gorizia, Fiume) era una organizzazione terrorista jugoslava, antifascista e nazionalista, operativa già nel 1930 e discioltasi poi nel 1943, confluendo nella Resistenza. Nel corso del ventennio l’opera di repressione fascista in quest’area è stata particolarmente efferata: circa un quinto delle condanne totali del Tribunale Speciale riguardano antifascisti slavi. Molte delle leggi di segregazione, che verranno poi attuate nei confronti degli ebrei, trovano una forma di realizzazione già prima del 1938 nei confronti della comunità slava. Non è infatti un caso che le leggi Razziali verranno annunciate da Mussolini proprio a Trieste.
Prima dello scoppio della Seconda Guerra mondiale, i Rapporti tra il Regno di Jugoslavia e Italia furono tesi ma conoscono anche momenti di distensione in funzione antitedesca, specie quando Hitler, divenuto cancelliere nel 1933, esplicita le sue mire espansionistiche sui Balcani. I Regni d’Italia e di Jugoslavia, per opera di Ciano, stringono nel 1937 rapporti commerciali.
Nell’aprile del 1941 l’Italia procede all’invasione della Slovenia dando vita alla “Provincia di Lubiana”. L’operazione segue la debacle italiana in Grecia, l’invasione del Montenegro e della Dalmazia. Una larga parte dei Balcani viene quindi occupata dall’Italia.
La popolazione accoglie l’occupazione italiana come un “male minore”  rispetto a quella tedesca, ma l’Italia si rivela invece il “male peggiore” una volta che la resistenza slovena comincia ad organizzarsi. La reazione repressiva è feroce: esemplare è la famosa “Circolare delle 3 C” di Mario Roatta con la quale si autorizzano gli incendi dei villaggi, le deportazioni di massa verso i campi di concentramento italiani, le fucilazioni sommarie ed anche l’uso delle foibe. I crimini di guerra italiani si concentrano in questo periodo ma per nessuno di questi sarà istituito un “processo di Norimberga”.
L’8 settembre del 1943 vede la dissoluzione dell’esercito italiano e la fine di un incubo nelle aree occupate. L’Istria cade in preda a fenomeni di ribellismo diffuso. Si verifica quello che lo storico Claudio Pavone ha descritto come “un intreccio tra liberazione nazionale, antifascismo e lotta di classe”. Le vittime italiane delle foibe istriane del 1943 si devono all’esplosione di una rabbia spontanea ed incontrollata delle comunità contadine, vessate da possidenti, spesso italiani, e gerarchi fascisti. Si calcola che le vittime delle foibe istriane del 1943 siano state ca. 500.
Questa fase dura poche settimane, se non giorni. Immediatamente la zona cade sotto il diretto controllo tedesco: l’Adriatisches Küstenland è annessa direttamente at Terzo Reich. Il fascismo si riorganizza (RSI) ma in questa zona le squadre fasciste sono sotto il diretto controllo tedesco; solo alla “X Mas” guidata da Valerio Borghese, gode di una certa autonomia. La rappresaglia per la reazione antifascista è spietata. Le foibe accolgono partigiani ed antifascisti. Si attiva il campo di sterminio nella Risiera di S. Sabba. Dall’8 settembre 1943 lo stabilimento era stato utilizzato dai tedeschi come campo di prigionia provvisorio per i militari italiani, ma verso la fine di ottobre diviene luogo di smistamento dei deportati in Germania ed in Polonia e di prima eliminazione dei prigionieri, con l’attivazione del forno crematorio. Il biennio dal 1943 al 1945 è caratterizzato dal terrore in tutta l’area; il triste fenomeno della delazione esplode nella città di Trieste. Le vittime della Risiera vengono calcolate dalle 3000 alle 5000.
Si arriva al maggio del 1945. Il C.L.N.A.I. (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) ha già liberato Milano ma nel confine orientale la guerra continua.  L’esercito di Liberazione Jugoslavo, schierato con le forze alleate, conta nelle sue file interi reparti di militari dell’ex regio esercito italiano, sparpagliatosi nei Balcani dopo l’8 settembre. A Yalta si incoraggia l’avanzata di tutti gli eserciti alleati, dichiarando che diritti territoriali saranno rivendicabili nelle zone liberate. L’esercito di Tito entra a Trieste con il chiaro intento di annettere la città alla Jugoslavia. L’occupazione dura 40 giorni ed ha come obiettivo  fascisti ed collaborazionisti; una volta catturati, la loro esecuzione è immediata. Le vittime delle foibe giuliane del 1945 sono calcolate da 3000 a 4000.
I lavori della commissione storica italo-slovena, istituita dal parlamento italiano nel 1993, ha dimostrato che  l’occupazione del 1945 non assume il carattere della pulizia etnica: gli italiani non sono considerati un nemico in quanto tale. Anche il recente studio di Eric Gobetti, pubblicato da Laterza nel 2021 (“E allora le foibe?”) tenta di collocare le vicende nel loro contesto storico: il nemico dell’esercito titino è il nazi-fascismo.
Ciò naturalmente non significa negare l’orrore della giustizia sommaria e della violenza. L’ANPI non è un’associazione negazionista né può essere avallata, secondo Valerio Strinati, una considerazione meramente numerica sull’importanza delle vittime. Le vittime restano vittime, siano esse duecento o ventimila, e come tali vanno rispettate. La ricerca storica dovrebbe comprendere i fenomeni analizzando i documenti con uno sguardo plurale e utilizzano diversi punti di vista. La memoria inoltre non è il monopolio di una parte ma è un patrimonio collettivo. La “spartizione della memoria” a cui ogni anni si assiste (il 27 gennaio e il 25 aprile sarebbero appannaggio degli antifascisti mentre il 10 febbraio è lasciato alla destra) rende un pessimo servizio non solo alla storia ma alla stessa memoria delle vittime, di ogni nazionalità.
La fine del Secondo conflitto mondiale apre una fase di grandi esodi, raccontata da Primo Levi nel romanzo “La tregua”: enormi masse di popolazione si spostano in flussi incrociati, per tornare nella loro terra ma anche per abbandonarla, vista la ridefinizione geo-politica europea e medio-orientale.
A chiusura del convegno è intervenuto il Presidente dell’ANPI provinciale Fabrizio De Sanctis che ha sottolineato come l’impegno dell’ANPI sia volto al riconoscimento delle responsabilità e della complessità storica. La posta in gioco, sia nella Guerra di Liberazione europea ma anche oggi, non è solo la memoria ma è la democrazia, il rispetto dei diritti umani, la dignità delle donne e degli uomini, senza distinzione di razza, sesso, religione. Per questa differenza dei valori di riferimento, l’ equiparazione in Europa tra fascismo e comunismo è del tutto fuori luogo: i comunisti e forze antifasciste rifondarono il patto democratico puntando, con la Costituzione, al superamento dei nazionalismi e al pluralismo politico quale garanzia della dialettica parlamentare. Anche se la cronaca esalta oggi grandi ed indistinte maggioranze, l’ANPI cerca di mantenere uno sguardo storico sia sulla memoria che sulla cronaca, nonché sulla progettualità futura.

ELISABETTA GALLO