OLTRE I NUMERI DELLA PANDEMIA

di ENRICO IENGO ♦

Siamo arrivati ad oltre 80000 morti dall’inizio della pandemia nel nostro paese.

Rispetto a paesi vicini a noi culturalmente e geograficamente  come Francia, Germania e Stati Uniti sembra che il Covid 19 in Italia sia più spesso mortale e la domanda è quella che ci assilla tutti, operatori sanitari e non: risponde al vero che in Italia si muore di più? E se è vero, perché?

E’ diventato purtroppo un triste rituale contare giornalmente i deceduti, ma cosa c’è dietro quei numeri? Una cosa va detta subito: nessuno, neanche i virologi o gli epidemiologi, hanno risposte certe.

Secondo stime di qualche settimana fa della Johns Hopkins University di Baltimora  l’Italia era fra i paesi a più alta letalità al mondo, con un indice che varia fra 3,5 e 3,8%, all’incirca come la Gran Bretagna. Peggio di noi il Messico con il 10% e l’Iran con il 5%. In Europa siamo secondi solo al Belgio.

Secondo questo studio la Germania era all’1,6%, la Francia circa 2%, la Spagna 2,8%, gli Stati Uniti , che contano il maggior numero di decessi, hanno un tasso di letalità all’1,8%.

Secondo questa ricerca le cause andavano ricercate:

  1. nell’età anagrafica dei pazienti deceduti per Covid 19, che in media è di circa 80 anni per gli uomini e 85 per le donne ( il nostro paese ha la popolazione più vecchia d’Europa),
  2. nel numero di tamponi effettuati: ovviamente più tamponi si fanno, più si abbassa l’indice di letalità,
  3. nell’efficienza del sistema sanitario, nella rapidità delle cure prestate.

Secondo i dati riportati dall’ Istituto Superiore di Sanità (ISS) i deceduti hanno circa 30 anni di più rispetto alla media di chi ha contratto l’infezione (48 anni). Solo l’1,1%  dei pazienti deceduti per Covid 19 ha una età inferiore a 50 anni.

E’ interessante sapere che la certificazione di decesso a causa di Covid 19 deve essere accompagnata da parere dell’ISS .

Sempre secondo l’ISS i deceduti da Covid 19 avevano un numero medio di oltre tre patologie concomitanti (3,5),  soprattutto cardiorespiratoria e metabolica.

Solo il 3,3% non aveva nessuna patologia,  il 13% aveva una patologia, il 18,9 aveva due patologie. Nel 90,6% dei ricoveri le diagnosi sono: polmonite, febbre, dispnea, tosse. I tempi mediani  dall’insorgenza dei sintomi al decesso sono 12 giorni; dall’insorgenza dei sintomi al ricovero 5 giorni. Se il paziente viene trasferito in terapia intensiva l’intervallo fra inizio dei sintomi e morte si allunga di 6 giorni. 

Vorrei ora sottolineare che I dati di letalità sopra detti rischiano di essere fuorvianti, perché basati sulla cosiddetta letalità apparente, che calcola semplicemente il rapporto fra morti e contagi.

Per prima cosa occorre distinguere fra tasso di letalità e tasso di mortalità, perché spesso questi due termini vengono confusi: il tasso di letalità stima quante persone muoiono tra quelle che hanno contratto il virus, mentre il tasso di mortalità misura quante persone esposte al virus sono decedute sulla popolazione media di un paese o di una regione. Ciò che cambia è il denominatore.

E’ chiaro che il tasso di letalità misura la gravità della malattia e la stima che ne risulta sarà tanto più vicina al vero quanto più si è stati capaci di tracciare tutti i decessi e tutte le persone contagiate.

Ora tutti sappiamo le difficoltà che il sistema incontra nel sottoporre a tampone la totalità dei potenziali contagiati, specialmente quelli asintomatici, e nel tracciamento dei contatti con positivi. Per fare un esempio nel Marzo scorso in Lombardia venivano fatti i tamponi solo ai ricoverati, che peraltro arrivavano già in condizioni gravi e il tasso di letalità arrivò al 16%.

Quindi il dato epidemiologico da ricercare,  per avere una stima più attendibile del numero dei contagiati (da mettere al denominatore),  secondo Antonio Clavenna, responsabile dell’Unità di Farmaco-Epidemiologia dell’Istituto Mario Negri di Milano, si può ottenere solo con una “indagine di sieroprevalenza  sulla popolazione” cioè una ricerca degli anticorpi nel sangue che testimoniano una avvenuta infezione.

Il numero di persone che hanno sviluppato gli anticorpi, sostiene Clavenna, è quello più vicino alla realtà del totale dei casi, sebbene anche questo possa essere sottostimato rispetto al numero reale , perché alcuni non hanno sviluppato anticorpi oppure li hanno sviluppati, ma con il tempo sono scomparsi. I dati di sieroprevalenza  raccolti dall’ISTAT e pubblicati a Luglio su un campione di 65000 individui, mostravano una presenza di anticorpi nel 2,5% degli Italiani a fronte dello 0,4% di casi confermati positivi ai tamponi.

Ma anche il numero dei decessi attribuiti al Covid 19 può essere fuorviante: non basta che la persona deceduta abbia contratto il virus per affermare che la morte sia dovuta all’infezione virale, così come molte persone morte di Covid, specialmente in casa e soprattutto nella prima ondata non sono state conteggiate, perché non sottoposte a tampone.

Quindi come spiegano su “Le Scienze” i fisici Giorgio Parisi, Luca Leuzzi, Enzo Marinari, e Federico Ricci-Tersenghi dell’Università La Sapienza, Il numero dei decessi potrebbe essere sottostimato, ma il numero dei contagiati è sottostimato in misura molto più grande. 

E’ evidente quanto sia difficile e impreciso stabilire con certezza il tasso di letalità da Covid 19.  Allora in che modo comprendere se il nostro paese, rispetto ad altre nazioni stia gestendo meglio o peggio l’emergenza sanitaria?  Stiamo riuscendo a dare la migliore assistenza ai pazienti che si aggravano e muoiono?

Un modo per avvicinarci ad una stima più veritiera del tasso di letalità consiste nel calcolare l’eccesso di mortalità, cioè tutte le morti avvenute in un certo periodo di tempo, confrontandole con quelle di un periodo analogo degli ultimi 5 anni e quindi senza la pandemia. Quindi come sostiene Clavenna: al numeratore l’eccesso di mortalità e al denominatore i soggetti positivi agli anticorpi contro il Covid 19, cioè al test sierologico e non semplicemente al tampone.

Ma l’eccesso di mortalità non è solo in grado di stimare la mortalità da Covid 19, ma anche di calcolare le morti avvenute per altre cause in modo da comprendere quanto la pandemia abbia influito sulla risposta sanitaria nella gestione di patologie diverse, in pratica gli effetti perversi del dilazionare interventi e ridurre la sorveglianza e/o la prevenzione a causa o del timore dei pazienti o delle difficoltà del nostro Servizio Sanitario Nazionale, stressato dall’emergenza Covid 19.

Paola Michelozzi  sottolinea che l’ISTAT ha fatto grandi passi avanti e in relazione all’epidemia in corso, ”ha reso disponibili on line i dati della mortalità totale con solo due mesi di ritardo”. “In soli tre mesi (Marzo-Maggio) ci sono stati 50000 decessi in più e circa il 40% dei decessi in eccesso  è stato attribuito al Covid 19”: è evidentemente sottostimato il reale numero di vittime della pandemia.

Il rapporto Sismg 1° Settembre- 1° Dicembre 2020 evidenzia che l’eccesso di mortalità è sovrapponibile a quello della prima ondata (rispettivamente + 35% e + 31%), nonostante le differenze geografiche: la prima ondata si concentrò soprattutto al Nord, la seconda ha interessato tutto il territorio nazionale. Il Nord comunque secondo questo rapporto, continua a pagare il prezzo più alto: nel mese di Novembre per esempio, l’eccesso di mortalità è stato pari al 73% nelle città del Nord e al 46% nelle città del Centrosud.

A tal proposito giova ricordare che la Lombardia, la regione più martoriata dalla pandemia, secondo i dati ISTAT ha avuto un  tasso di sieroprevalenza (presenza di anticorpi) del 7%, rispetta alla media italiana del 2,5%, raggiungendo tassi del 25%  e secondo alcuni studi del 38,5% nella provincia di Bergamo, fino ad arrivare al 50% in Val Seriana!

Tornando agli interrogativi iniziali è ora più chiaro come tasso di letalità e tasso di mortalità possano essere soggetti a troppe variabili da un paese all’altro e all’interno dello stesso paese: ciascun paese può utilizzare criteri diversi nel diagnosticare i decessi, possono variare i numeri e i tipi di test diagnostici, può variare la risposta sanitaria all’emergenza.

Per quanto riguarda l’Italia abbiamo detto che la nostra percentuale di anziani è più alta e con più alta aspettativa di vita rispetto agli altri paesi europei, ma è anche vero che la nostra capacità di assistenza ad anziani che si ammalano non sempre è adeguata alle necessità: scontiamo carenze e inefficienze della sanità nel territorio. Abbiamo inoltre fatto errori anche gravi nella gestione della pandemia all’interno delle RSA. Il risultato è che noi abbiamo tanti anziani, ma più fragili e quindi più vulnerabili.

 Clavenna sostiene che possono influire anche fattori socio-culturali: nel nostro paese è più diffusa la coabitazione degli anziani con figli e nipoti, la rete familiare svolge un ruolo che va oltre il semplice vincolo affettivo; sappiamo tutti come dietro questo si celi anche una sorta di “Welfare familiare”, sotto forma di aiuto economico e abitativo ai giovani in difficoltà, magari in cambio di compagnia e aiuto domestico.  Nel Nord Europa è più comune vedere anziani che gestiscono da soli la loro vita o si affidano a risorse socio sanitarie del territorio.

Per concludere, è chiara l’importanza di adottare strumenti operativi omogenei in tutto il paese per seguire l’andamento della pandemia e adottare quindi le determinazioni necessarie. Servirebbero per esempio più dati su dove e come avvengono i contagi: ancora oggi ci troviamo di fronte a difficoltà nel tracciamento dei contagiati. Sarebbe interessante comprendere i motivi del fallimento della iniziativa “APP Immuni”, che poteva rappresentare una utile risposta alla necessità di tracciamento: sono subentrate preoccupazioni riguardanti la privacy e la propria libertà? Oppure, come è sicuramente successo, il sistema di sorveglianza oberato dai tanti casi si è inceppato e non ha assicurato le risposte che i cittadini si aspettavano?

Ma abbiamo anche constatato come tali determinazioni vadano ad impattare sulla qualità di vita dei cittadini, sulla loro libertà e sui loro interessi. Tutti stanno facendo uno sforzo immane con i sacrifici  che conosciamo e che richiedono il massimo rispetto. Occorre realizzare una comunità di intenti, fare “sistema”, come si suol dire,  nella consapevolezza che solo così si riuscirà ad uscirne fuori.

Questa guerra va combattuta con tutte le armi necessarie, ognuno deve fare la sua parte: i cittadini, gli operatori sanitari, l’organizzazione della campagna vaccinale di massa, ma è anche necessaria una giusta informazione, trasparente, che spieghi perché si adottino certe misure, quale sia il reale rischio che corre il Paese e per fare ciò non si può non partire dalla storia di quest’ultimo anno, dagli errori che tutti abbiamo commesso durante una folle estate.  

Quegli errori sono costati morti, che oggi trasferiamo sinteticamente in numeri, in percentuali, in ricerche scientifiche, in tentativi di risposte a domande lecite, ma  dietro ai quali ci sono storie, affetti, vite.

Occorre ricordarlo. Occorre ricordare che quei morti non appartengono agli altri, sono nostri, soltanto nostri.

ENRICO IENGO