LUCE E OMBRA

di GIORGIO LEONARDI

«Le tenebre… oh, le tenebre!» (ultime parole di Maupassant).

«Più luce!» (ultime parole di Goethe).

Il buio non è assenza, semplicemente nasconde la presenza. È presenza di tutto quello che la luce non illumina ma che c’è, in latenza, e giace nell’ombra. Compreso il peccato nella tradizione giudaico-cristiana. Dante entra nell’Inferno inoltrandosi in una «selva oscura». E Dio, nel primo giorno della creazione, crea la luce perché non deve esistere tenebra che il divino non possa rischiarare. Dio creò il cielo e la terra… ma, prima di inventare la luce, «le tenebre ricoprivano l’abisso» (Genesi 1,2). Ogni altra cosa viene dopo la luce, ma essa, a sua volta, viene dopo il buio. Quindi in origine fu il Buio.

Partendo da questa riflessione (che avrebbe certamente raccolto il consenso di un Jean d’Ormesson), mi torna alla mente il breve racconto con cui si apre “Lo scialle andaluso”, raccolta di Elsa Morante pubblicata nel 1963, che ha un titolo evocativo quanto suggestivo: “Il ladro dei lumi”. A raccontare la storia è una donna che rievoca ricordi della sua infanzia, quando aveva appena sei anni. Siamo a Roma, al Portico d’Ottavia, il ghetto ebraico, ma lo scopriamo solo nel finale della narrazione, perché potremmo essere ovunque. Il luogo morantiano è uno spazio simbolico, nell’accezione greca del termine: “syn-ballein”, “mettere insieme”. E in questo senso è simbolica anche la presenza di un bordello proprio a fianco della sinagoga, un’irriverenza involontaria, uno scontro urbanistico tra sacro e profano. E ancora simbolico è, infine, il buio in cui è sovente immersa la casa della bambina: il petrolio per accendere le lampade costa caro, e non tutti possono permetterselo. Ma nel succedersi di portoni scuri tra le vie del ghetto, l’ingresso al tempio sacro è invece rischiarato dalle lanterne che Jusvin, lo zelante guardiano, deve tenere sempre accese perché la luce è salvezza. Il motivo è tipico delle fiabe: il lume acceso del portone di una casa in un bosco oscuro attira il viandante che si è perso. Si scoprirà però che Jusvin è in realtà un ladro, un ladro di luce, perché una notte spegne le lanterne rubando parte dell’olio del tempio per mantenere la sua famiglia, lasciando al buio l’edificio sacro. Nel corso di una sera d’estate, la bambina inflessibile ha però una visione, in cui una sfilata di morti e peccatori (tra cui lo stesso Jusvin) chiedono pietà a Dio proprio nei pressi della sinagoga. Una teoria di reprobi che, brancolanti nel buio metaforico in cui sono immersi, tendono tutti alla luce di quelle salvifiche lanterne che devono restare accese. L’immagine è potente, e riporta alle processioni di anime defunte della classicità (dell’Iliade e dell’Eneide, ad esempio, o quelle della Commedia dantesca), ma anche ai cortei di morti viventi (o vivi morenti) dietro i cancelli di Auschwitz e di altri campi di sterminio, ricordati da Hannah Arendt. Altro tipo di buio, quello della Storia, che però non avvolge i colpevoli bensì le vittime.

Quando, nel 1962, l’artista Bill Morrow, l’amante di Elsa, si suicidò buttandosi giù dall’Empire State Building, lei gli scrisse versi bellissimi in cui la morte è un luogo buio, una notte oscura, priva persino del lume lunare, ma in cui infine una luce s’accende, quella dello stesso Bill, sorta di eroe solare: «La tua morte è una luce accecante nella notte», scrive Elsa. In pratica come Lucio, il protagonista delle “Metamorfosi” di Apuleio, che scorge «il sole lampeggiare di candida luce nel mezzo della notte». E, in questa dimensione intima affettiva, persino un po’ magica, luce e tenebra sono ancora insieme, fin quasi a diventare indistinguibili, come la vita e la morte, appunto. Il peccato e la redenzione, in un unico scenario. Le due forze primigenie sembrano complici: non vi sarebbe luce se non vi fosse un buio da rischiarare. 

Io penso che siamo tutti un po’ come Jusvin, il custode della sinagoga: ladri di luce per sopravvivere al buio che incombe, per accendere le piccole lucerne delle nostre case, non per dissolvere le ombre ma solo per renderle meno fitte. Le ombre che vedevano Goethe e Maupassant “in articulo mortis”.

Poi, sulla faccia di questo stolto pianeta (lo stesso su cui, dicono, Jahvè abbia pronunciato il suo «Fiat lux»), viviamo anche il paradosso di una luce che invece ottenebra la ragione. Quando è troppa impedisce all’uomo di vedere, lo acceca. Sono così le luci della guerra, delle bombe che esplodono magari in un bagliore atomico. E sono così anche certe luci di un “progresso” che abbaglia nella sua smania evolutiva, disconoscendo il buio della dimensione interiore. Quel progresso che era già, per Baudelaire, un «fanale oscuro». Perché, in fondo, come diceva anche Brecht, noi non siamo padroni della luce e dobbiamo, invece, essere consapevoli della nostra ombra.

GIORGIO LEONARDI

Immagine del titolo tratta da Wikimedia Commons