SI FA PRESTO A DIRE GIALLO… 2. MASCHERE E PERSONAGGI DELLA GIALLISTICA ITALIANA

di SIMONETTA BISI  e NICOLA R. PORRO ♦

Il giallo all’italiana prende forma a fine dell’Ottocento, quando Ettore Schmitz (non ancora ribattezzato Italo Svevo), Matilde Serao, Carolina Invernizio e Federico De Roberto cominciano a cimentarsi con il genere importato dalla Francia. [1] Dalla quale proviene anche l’interesse per conoscenze e competenze – dalla sociologia di Tarde e Durkheim alla criminologia – che aiuteranno a scandagliare scientificamente l’universo del crimine e del malessere sociale. Nel 1909 comparirà a puntate, a firma di un misterioso William Galt (pseudonimo del sicilianissimo Luigi Natoli), il feuilleton I Beati Paoli, contenente tutti gli ingredienti di un thriller ante litteram: malavita, scandali, un’incalzante sequenza di fatti criminali, buoni contro cattivi, una spolverata di denuncia sociale. Fra le due guerre si assisterà a una certa chiusura provinciale, favorita dal regime fascista, in una produzione autarchica, semiclandestina e di scarso pregio, in cui si misurano giallisti improvvisati come Luciano Folgore o il giornalista Guglielmo Giannini, il futuro fondatore del Partito dell’Uomo Qualunque. Per un rilancio bisognerà attendere il secondo dopoguerra e autori come Gadda e Sciascia [2]cui farà seguito, dopo i Sessanta, la stagione associata ai lavori di Piero Chiara e poi di Fruttero e Lucentini. Nel fatidico 1968 La doppia indagine di Giuseppe Bonura sperimenta il primo giallo “senza vittime”. Due anni dopo Piero Chiara inventa l’ispettore Sciancalepre (I giovedì della signora Giulia). Un noir sui generis, come Il nome della rosadi Umberto Eco, pubblicato nel 1980, diventerà il maggiore best seller italiano dell’Italia postbellica, tradotto in tutte le lingue del mondo. Con i primi successi di Andrea Camilleri si affaccerà una generazione di autori impegnati a esplorare tutte le potenzialità del genere sino a fare della giallistica italiana, fra gli Ottanta e i Novanta, un caso internazionale. L’ironia, l’innovazione linguistica e l’eclettismo tematico di Camilleri influenzeranno autori come Malvaldi e Vitali, mentre I racconti del maresciallodi Mario Soldati rappresenteranno un’esperienza pionieristica di trasposizione televisiva del genere. Sarà invece l’investigatore maledetto Duca Lamberti, partorito dalla fantasia di Giorgio Scerbanenco, a proporre attraverso il giallo una sorta di lettura sociologica dei nuovi contesti metropolitani. Un’ispirazione già presente in Laura Grimaldi (1959) e che ritroveremo più avanti in Loriano Machiavelli, Attilio Veraldi, Renato Olivieri e poi in Gianrico Carofiglio, Massimo Carlotto, Giancarlo De Cataldo, Maurizio de Giovanni, Barbara Garlaschelli, Carlo Lucarelli, Laura Mancinelli, Antonio Manzini, Margherita Oggero e tanti altri. 

Il nostro movimento, così esteso e variegato, mostra esemplarmente quale straordinario caleidoscopio di situazioni e di contesti, di profili umani e di dinamiche sociali, possa essere rappresentato da questa produzione. Ingiustamente ritenuta “minore”, le andrebbe invece riservata la stessa attenzione che Antonio Gramsci aveva dedicato al romanzo popolare nel tempo incipiente della modernità industriale e dei grandi totalitarismi. 

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Per quanto varia, la produzione “poliziesca” italiana presenta tuttavia alcuni tratti ricorrenti. I nostri autori, ad esempio, raramente concentrano la storia sul solo fatto criminoso e fanno ampio ricorso alla digressione narrativa. Frequente è anche un’architettura corale del racconto che valorizza i personaggi di contorno. Non è però facile classificare gli autori italiani per tipologie rigorose. Più interessante è analizzarne la scrittura. Molti critici, ad esempio, le attribuiscono il successo di autori come Emmanuel Carrère o il nostro Roberto Saviano, che danno prova di talento proprio eludendo il “genere” e trasformando in invenzione artistica materiali attinti alla cronaca, alla storia o al giornalismo d’inchiesta. Non stupisce perciò che i giallisti italiani più apprezzati all’estero siano quelli più innovativi sul terreno della scrittura e più capaci di farla aderire alla narrazione di una variegata e vivace antropologia nazionale. Esemplare anche qui il caso Camilleri. La sua è una lingua inventata: non appartiene a nessuno ma la comprendono tutti anche quando è tradotta in decine di idiomi diversi. Giallista o non giallista, il bravo scrittore è sempre quello capace di trovare un giusto equilibrio fra realtà e finzione e di elaborare una scrittura che dia ali alla sua fantasia. 

Ci si domanda allora perché non giudicare un giallo abbandonandoci solo alle emozioni che ci trasmette, come fa del resto, senza attendere l’autorizzazione dei critici, la stragrande maggioranza dei lettori. Le categorie, utili o meno che siano, non dovrebbero discendere dai contenuti anziché viceversa? La violenza, la morte, il crimine, non offrono forse abbondante materia prima per ogni tipo di narrativa? Il modo migliore per riconoscere al genere una piena dignità letteraria non sarà quello di leggerlo come un qualsiasi romanzo? Si tratta di domande palesemente retoriche. Esse aiutano però a evidenziare le differenze presenti non solo fra chi scrive ma anche nel più vasto popolo dei lettori esigenti, non rassegnati al ruolo dello “sfogliatore di pagine” (page-turner). Non va del resto enfatizzata snobisticamente la distinzione fra letteratura dozzinale e prodotti “di alta gamma”. Già da qualche decennio le fortune di non pochi best seller – e di buona parte della giallistica di rango – costituiscono il prodotto di un circuito industriale di confezionamento, affidato alle cure di editor professionali, e di strategie promozionali curate da agenti specializzati, più che del talento dei singoli autori. Occorre allora tornare al social drama e alle intuizioni di Victor Turner, che fanno del racconto poliziesco un caso di osservazione privilegiato. Si può infatti divorare il racconto come frenetici page-turner, ansiosi solo di sapere “come va a finire”, ma anche esercitarsi a “togliere la maschera” ai personaggi per rimontare la storia come aveva suggerito, mezzo secolo prima dell’antropologo scozzese, lo scrittore siciliano Luigi Pirandello. 

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Pirandello e Turner, ciascuno a suo modo, ci istigano alla rivolta: ci esortano a strappare le maschere scoprendo come il prodotto artistico sia spesso il frutto di un consapevole sovvertimento dei canoni formali (i generi). Un buon giallo non può fare a meno delle maschere, ma il social drama che l’autore mette in scena ha bisogno di emanciparsi dalla galleria degli stereotipi: il poliziesco costituisce sempre, in qualche modo, una fenomenologia della maschera. Non è l’evento in sé – il delitto, la sua scoperta, la soluzione del caso – bensì l’interazione fra il narrato e l’immaginato che permette alla fine di scoprire i volti. Le maschere che dobbiamo riuscire a strappare non sono espedienti per descrivere i personaggi bensì strumenti per rappresentarli. [3]  

Il tema del rapporto fra “veridicità” e finzione suggestiva è esemplarmente incarnato nella produzione italiana più recente dal personaggio del commissario Ricciardi, partorito dalla fantasia di Maurizio de Giovanni. Vive nella Napoli degli anni Trenta, è una personalità solitaria e scontrosa. È anche un sensitivo capace di entrare fugacemente in contatto con le vittime di omicidi o di incidenti consumatisi nel luogo di ritrovamento dei corpi e di afferrare i loro pensieri al momento della tragedia. L’espediente narrativo dà vita a una modalità di racconto limitrofa al classico psychothriller. [4]

Nei gialli italiani la relazione fra ciò che viene nascosto (il personaggio) e ciò che viene mostrato (la maschera) produce però non di rado un effetto  teatrale in cui si inseguono e si confondono dissimulazione e rivelazione, eventi inattesi e ritorno alla routine. Soprattutto in Carofiglio e nei giallisti più inclini a una narrazione sensibile a tematiche sociali – e talvolta politicamente allusiva – è sempre la decostruzione della maschera che consente di risalire al colpevole senza troppe concessioni agli stereotipi criminali. Solo liberando la maschera dal pregiudizio mitomagico che ne fa una prerogativa “non umana”, anche il personaggio più truce può infatti essere liberato tanto dallo stigma moralistico quanto dallo banalizzazione narrativa. 

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Il protagonismo della provincia è un’altra caratteristica saliente del poliziesco nazionale, in coerenza con la nostra storia. Esso non è riducibile alla mancanza di vere e proprie megalopoli, come nel caso Usa, o di metropoli egemoni, come Londra o Parigi. La cosiddetta periferia è rappresentata da noi da una fitta rete di sistemi urbani, di persistenze culturali e di robuste identità regionali. Il Paese dei mille campanili e delle cento capitali si riflette puntualmente nella letteratura: anche fra i maggiori scrittori italiani contemporanei è schiacciante la prevalenza dei “provinciali”. [5]

In assenza di una metropoli egemone, Milano, Roma, Torino, Napoli e Bologna sono le città più rappresentate nel panorama degli autori e dell’editoria di genere e lo stesso insediamento editoriale del genere si presenta diffuso. Genova, ad esempio, ospita una delle poche case editrici europee, la Fratelli Frilli, specializzata nei “gialli di prossimità”. [6]Anche Bari, Firenze e Palermo vantano autorevoli “cantori in giallo”. Senza dimenticare la Venezia della indecifrabile Donna Leon, la Reggio Calabria di Domenico Gangemi, la Padova di Massimo Carlotto. Altri autori hanno preferito spaziare in ambiti più estesi: l’area del Lago di Como, dove Piero Chiara ha ambientato le indagini dell’ispettore Sciancalepre, la Romagna di Carlo Flamigni, la Valpadana investigata dal commissario Arnaudi di Mario Soldati, la Barbagia di Marcello Fois, la Parma di Varesi e del Bevilacqua di Giallo Parma. Un panorama caratterizzato anche da quella invenzione, tipicamente italiana, che dà vita alla Sicilia immaginaria e insieme realistica di Camilleri – con le sue Vigata, Montelusa, Fiacca – o alla Pineta di Malvaldi. Località perfettamente riconoscibili ma sottoposte a un camouflage che consente all’autore un gioco narrativo più libero. [7]  Simmetrico e speculare è l’iperrealismo di ambientazioni come il commissariato del Rione Monti nella Roma televisiva in cui il regista Marco Pontecorvo ambienta le avventure dell’ispettore Guerrieri, la Aosta dove viene spedito l’indocile commissario Schiavone di Manzini, la Matera di Imma Tataranni o la Bari dei romanzi di Carofiglio, solo per fare qualche esempio fra i tanti possibili.  

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Quanto al profilo dei protagonisti dei gialli italiani, spesso si tratta di figure eponime che danno identità e continuità a cicli narrativi. Il protagonista è solitamente unico, come i commissari Montalbano e Ricciardi, o l’avvocato Guerrieri di Carofiglio. Autori di successo come Lucarelli e de Giovanni amano invece variare i protagonisti o affiancare al protagonista eponimo qualche altro personaggio centrale.  Spesso c’è una squadra che affianca il protagonista valorizzandone la leadership, come per i Bastardi di Pizzofalcone, posti da de Giovanni ai comandi dell’ispettore Lojacono in una felice rivisitazione dell’ormai classico 87° Distretto di Ed McBain, del pittoresco commissariato diretto da Montalbano o dei vecchietti del BarLume di Malvaldi. Da un paio di decenni si sono affacciate con maggiore frequenza figure femminili, spesso rese popolari da produzioni televisive (la commissaria Fusco, la procuratrice Tataranni, l’ispettrice Delicato importata di gialli della Gimenéz-Bartlett ecc.). Più variegata si è fatta anche l’identità professionale: non solo appartenenti a qualcuna delle Forze dell’ordine (soprattutto, ma non esclusivamente, alla Polizia di Stato) ma anche legali, magistrati, giornalisti, pensionati ficcanaso, esuberanti baristi. 

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Ai centri urbani maggiori sono più spesso riservate narrazioni drammatiche che talvolta richiamano lo stile “hard boiled”. Quando il racconto ha per teatro la provincia prevalgono invece tinte meno cupe, toni più ironici e persino scanzonati. Spesso si affaccia una bonaria satira di costume e prendono forma personaggi, storie e pettegolezzi che condensano l’identità – e non di rado gli stereotipi – della provincia italiana. Ciò ci differenzia soprattutto dalla giallistica anglosassone e scandinava dove proprio la provincia profonda fa solitamente da scenario a vicende raccapriccianti, popolate da spietati serial killer o da inquietanti presenze criminali. L’aristotelica unità di spazio, di tempo e di azione è peraltro quanto di più estraneo alla giallistica postmoderna. La vicenda può essere ubicata in in una sola localizzazione o in contesti circoscritti, ma anche spaziare per il cosmo, come in alcuni esempi recenti di contaminazione con la letteratura fantascientifica. Il tempo del giallo può essere concentrato in poche ore, abbracciare i secoli oppure fare ricorso alla tecnica dei flashback, come spesso nel sottogenere storico. Non mancano storie interamente ambientate nei secoli passati e persino nell’antica Roma, dove possiamo imbatterci in Publio Aurelio Stazio, il decano dei detective ideato da Anna Comastri Montanari. 

In (provvisoria) conclusione: un panorama ricco e multiforme, dove può essere stimolante censire e magari tentare qualche sperimentazione. Ne parleremo la prossima volta. 

SIMONETTA BISI   NICOLA R. PORRO

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[1]Crovi, con grande acribia, segnala anche una produzione antecedente che fa capo ad autori come Emilio De Marchi (Il cappello del prete), Francesco Mastriani (Il mio cadavere), Cletto Arrighini (con la fortunatissima La mano nera) e Giulio Piccini, che inventa la prima star della nostra giallistica nella figura del commissario Lucertolo. A ispirare i pionieri del giallo italiano saranno invece scrittori francesi come Eugène Sue, Alexandre Dumas, Victor Hugo ed Émile Zola.
[2]Gadda pubblica Quer pasticciaccio brutto de via Merulana nel 1946. Sciascia, con il già ricordato Il giorno della civetta, dà alle stampe nel 1961 uno dei rari polizieschi che ha per protagonista la mafia siciliana.
[3]Ci aiuta l’etimologia. La parola persona in latino significa maschera e l’italiano personaggio condivide questa eredità lessicale, a evidenziare la relazione simbolica fra maschera e soggetto. Lo aveva intuito Pirandello analizzando la necessaria interattività della finzione ma già Lucrezio, duemila anni prima, aveva evocato nei versi del suo De rerum natura (…Eripitur persona, manet res…) quella fascinosa e inquietante relazione fra sostanza e apparenza che è la chiave di volta del giallo. 
[4]La denominazione risale ai primi anni Sessanta, ma non mancano esempi del periodo fra le due guerre, compresi alcuni lavori di Agatha Christie. Introdotta dal critico Wayne Clemens Booth, comprende un arco vastissimo di autori e di opere, da quelle di Patricia Highsmith alle ultime di Sebastian Fitzek o di Fiona Barton. Da segnalare la presenza nel genere di almeno due validi autori italiani come Donato Carrisi (Il suggeritore, 2009) e Mirko Zilany (È così che si uccide, 2016). 
[5]Il protagonismo della periferia non si esaurisce nell’ambientazione bensì rinvia a una costellazione di “narrazioni di contesto” talvolta permeate di umori politici, come avviene in con la serie Millennium dello svedese Stieg Larsson o con la produzione della catalana Alicia Gimenéz-Bartlett, militante antifranchista e femminista, senza scomodare la copiosa giallistica di denuncia sudamericana. Nel caso italiano si può assumere ad archetipo l’amara conclusione del Giorno della civetta in cui Sciascia tratteggia una rara quanto disincantata disamina dei sistemi criminali e delle complicità del potere.
[6]Il capoluogo ligure è stata scelto da Sky nel 2020 per ambientarvi la versione televisiva in lingua italiana dei racconti di Alicia Bartlett-Gimenez con Paola Cortellesi nela parte dell’Ispettrice Petra Delicato..
[7]Nel caso dei racconti di Camilleri va segnalato en passant come Vigata e il suo comprensorio rappresentino l’unico esempio al mondo di una località inesistente diventata meta di un discreto flusso turistico essendo ormai da anni proposti dai tour operator programmi dedicati alla “Sicilia di Montalbano” .