16 settembre 1870. Fu vera gloria? Via Bixio o via del baccalà?
di ENRICO CIANCARINI ♦
La pirocorvetta corazzata Terribile penetra nel porto di Civitavecchia il 16 settembre 1870: “allo scoccare delle ore 7 con a riva la gran gala eseguendo la salve di 21 colpi di cannone, per andare a dar fondo innanzi al Lazzaretto, e appena possibile, mettere a terra la Compagnia di sbarco che rapidamente occupò la Capitaneria, il piccolo arsenale, la darsena, i magazzini, le adiacenze del porto nonché il molo del Bicchiere”.
Le cronache navali dell’anno 1870, pubblicazione dell’Ufficio storico della Marina militare (1932), proseguono annotando che un’ora dopo sulla Fortezza Giulia è ammainata la bandiera pontificia e innalzato il Tricolore italiano, il tutto salutato dalle salve regolamentari della Squadra e dall’entusiasmo dei Civitavecchiesi.
Carlo Calisse, all’epoca adolescente essendo nato nel 1859, celebra trent’anni dopo nella sua Storia di Civitavecchia (1898) l’entrata delle truppe al comando del generale e senatore Nino Bixio:
Poco dopo, per le tre porte di Corneto, Campanella e Romana, entrarono in lunghe file le milizie, e l’inno nazionale echeggiò la prima volta, tra gli applausi e le voci di gioia, per le vie della città, tutta adorna di bandiere e risplendente la sera la sfarzosa illuminazione. L’antico desiderio era soddisfatto, Civitavecchia era parte della patria italiana.
Il 16 settembre 2020 la Città festeggia i suoi centocinquanta anni di appartenenza alla patria italiana, prima monarchica, poi repubblicana. Per Calisse è esaudito l’antico desiderio dei civitavecchiesi di congiungersi all’Italia, unita sotto la corona sabauda, mettendo fine al governo teocratico dei pontefici romani che ha governato la città per mille anni.
Nei civitavecchiesi che aderiscono senza remore alla nuova realtà istituzionale, sono in prima fila gli esponenti di quella classe mercantile strettamente legata al traffico portuale. In loro alberga la speranza di acquisire con l’Unità maggiori libertà politiche e sociali ma anche incassare sostanziosi vantaggi economici. Concedono credito al governo italiano, confidano che si impegni nel trasformare il piccolo scalo già al servizio del Papa, nel porto ufficiale della nuova capitale di Vittorio Emanuele II, la Terza Roma. La città potrà incassare oltre al prestigio istituzionale soprattutto cospicui finanziamenti volti all’ampliamento dello scalo cui corrisponderebbe un sostanzioso incremento del traffico merci e passeggeri dando ossigeno alla spenta economia cittadina e a loro ricchezza.
Va così? Civitavecchia acquista vera gloria e più di ogni altra cosa ricchezza dal diventare italiana? Domanda retorica a cui possiamo già rispondere che per la piccola cittadina tirrenica le cose non si modificano in meglio se non addirittura peggiorano almeno nei primi anni unitari.
Amministratori comunali, presidenti della Camera di Commercio, deputati del collegio, cercano per anni di persuadere ministri e parlamentari a concedere i finanziamenti necessari allo sviluppo del porto civitavecchiese che i pontefici romani nei secoli non erano mai riusciti a far decollare.
La giovane classe dirigente italiana sembra essere maldisposta verso Civitavecchia, un sentimento che forse è giustificabile in parte dalla presenza nello scalo della nave francese Orénoque lì ancorata fino al 1874 a disposizione di Pio IX nel caso volesse abbandonare Roma, ormai capitale di uno stato governato da scomunicati ed eretici. Certamente anche gli interessi del proprio collegio elettorale influiscono sulla delicata questione.
Di questa presunta diffidenza nei confronti della città ne restano appuntiti indizi negli atti parlamentari svoltesi durante l’XI legislatura del Regno d’Italia, che va dal dicembre del 1870 al settembre del 1874, la prima che vede presente nel parlamento italiano un rappresentante eletto a Civitavecchia. Anni che coincidono con l’ultimo periodo di governo della Destra Storica, segnati dal governo di Giovanni Lanza (1869-1873) e dal secondo presieduto da Marco Minghetti (1873-1876) che il 16 marzo 1876 annuncia il risultato storico del pareggio di bilancio.
I ministri delle Finanze e dei Lavori Pubblici di questi governi sono interrogati e criticati per le mancate scelte effettuate per Civitavecchia. Interventi e discussioni che vedono protagonisti alcune delle più illustri figure che hanno caratterizzato il Risorgimento italiano, riconosciuti unanimemente come “padri della Patria”, ai cui nomi sono intitolate piazze e vie in tutta Italia, consacrate lapidi e statue di marmo. Uno di essi si rivela acerrimo nemico di Civitavecchia, del suo porto e dei suoi abitanti, tanto da guadagnarsi l’appellativo di mancato “Attila” di Civitavecchia e del suo porto.
Annibale Lesen, avvocato, presidente della Società Democratica, Industriale, Commerciale e di Mutuo Soccorso fra gli Operai di Civitavecchia, primo deputato della città, mette sull’avviso i suoi concittadini, ammonendoli che il passaggio da uno stato teocratico e ultraconservatore in cui il bilancio era eternamente in disavanzo ad un giovane ed ambizioso regno in frenetica ricerca del pareggio di bilancio non sarebbe stato per la città un percorso facile. Lesen nell’incipit del suo programma elettorale del novembre 1870 raccomanda ai suoi concittadini:
Dopo che il sogno di tanti anni si è avverato, dopo che quella libertà da tanto tempo sospirata è ottenuta, sarebbe errore gravissimo cullarsi neghittosi nella gioia di esser liberi, di aver scosso un giogo molesto.
La credenza che la libertà ci faccia piovere tesori nelle tasche, che Essa, come ai cittadini di Sparta, faccia trovare a spese dell’erario imbandite le mense in sul mezzodì, sarebbe un’illusione fatale.
La libertà senza il lavoro, la libertà senza l’industria, la libertà senza la volontà ferma di fare cose utili a sé ed agli altri, è vana conquista.
La libertà è mezzo si di ricchezza ai volonterosi, non fonte di lucro ai neghittosi, agli infingardi.
Nelle pagine successive Lesen si sofferma sulle condizioni economiche del circondario civitavecchiese: i campi sono fertili ma deserti, il mare è fonte di ricchezza ma il porto è vuoto di navi “mentre i navigli genovesi portano ai più remoti lidi la bandiera italiana, a mala pena una barca nostra rimonta il Tevere”!
Rimprovera i civitavecchiesi le cui speranze “non si volgono che ad un oggetto, e cioè alla demolizione delle mura interne di fortificazione” per motivi di igiene e di crescita urbana della città. Li mette in guardia che “da quel fatto, noi non avremo benefici materiali così grandi, come qualcuno ama di far credere” Le sue parole conclusive hanno un valore profetico per noi civitavecchiesi di oggi, i centocinquanta anni trascorsi dal 1870 sembrano passati invano in questo surreale 2020 in cui la Comunità e la sua classe politica non possono più indugiare su quale strada percorrere per conseguire il risultato desiderato: il reale sviluppo economico e sociale che Civitavecchia insegue da secoli:
Non è invero col dare un lavoro precario a pochi operai, che si prepara l’avvenire di un popolo. Fabbricare una città nuova quando poi i cittadini non sien sicuri di non doverne emigrare in cerca di una sussistenza, è follia. Adoperiamoci si a distruggere questa cerchia di sassi che ci soffoca, ma che questa non sia l’unica nostra preoccupazione. Quello che più deve importarci, è il provvedere all’avvenire di una intiera popolazione la di cui agiatezza deperisce ogni giorno più da dieci anni a questa parte. Dare pertanto alle forze del paese l’indirizzo che meglio ci porti al risultato desiderato, senza cadere in errori, senza accettare illusioni che potrebbero condurci alla rovina.
Il primo intervento alla Camera del deputato Lesen (XI Legislatura, 2 giugno 1871) ha la finalità di ritardare l’applicazione dell’imposta fondiaria nella Provincia Romana. Per questo il neofita e trepidante onorevole si appella al ministro Quintino Sella, monumento della Nuova Italia, chiedendo il rinvio dell’imposizione dei “nuovi balzelli”. Lo blandisce con opportuni complimenti: “da quel distinto economista che egli è, mi insegna che, prima di aumentare i pesi di una popolazione, bisogna farsi conto delle condizioni in cui la medesima si trova”. Ribadisce all’Assemblea che nessuno può accusare le popolazioni romane “di poco patriottismo quando i rappresentanti di queste provincie vengono in quest’Aula a combattere una proposta di legge che l’aggrava di un balzello”. Lesen, navigato avvocato, interpreta la sua arringa agli onorevoli colleghi, per ottenerne il consenso, insistendo ripetutamente sul sincero patriottismo dei suoi elettori:
Io spero, o signori, che niuno di voi dubiterà che sia mancata in noi la fede nell’unità italiana, che niuno di voi dubiterà che ci sentiamo fieri e superbi di appartenere alla famiglia italiana; niuno di voi dubiterà che siamo pronti a subire i sacrifizi i più forti perché questa unità non si spezzi, perché questo grande fatto della rigenerazione della nazione italiana si avveri in tutta la sua grandezza.
Io spero che niuno di voi dubiterà che, quando le popolazioni romane hanno con voto solenne dichiarata la loro unione al regno d’Italia, quelle popolazioni intendevano di uscir fuori dai pesi che l’aggregarsi della famiglia italiana portava per necessaria conseguenza.
Il resoconto parlamentare postilla che in coda alle palpitanti parole pronunciate dall’onorevole Lesen risuonano i Bene! i Bravo! provenienti dalla destra dell’aula.
Non tutti i frequentatori delle aule parlamentari apprezzano Civitavecchia e i suoi abitanti. Qualcuno cova contro di loro antichi e profondi rancori: “Dico la verità che se Civitavecchia fosse stata una città straniera, oggi non la si troverebbe più”! Parole pronunciate nei primi mesi del 1871 nella solenne aula del Senato del Regno, ancora a Firenze, in un lungo e astioso intervento in cui si parla di Civitavecchia e del suo porto in termini scarsamente promettenti. Dure accuse pronunciate nell’Interpellanza dell’onorevole senatore Bixio fatta ai ministri sul commercio internazionale marittimo.
A capo della 2° Divisione del Corpo di spedizione italiano, incaricato dal generale Cadorna, comandante in capo, di occupare Civitavecchia, Nino Bixio nei giorni dell’assedio del settembre 1870 carezza in cuor suo la terribile idea di bombardare la città guadagnandosi così la fama di novello “Attila” ma “certo prima di distruggere una città italiana, il che non era intendimento del Governo, bisognava che ben gravi interessi nazionali fossero in pericolo”. A difesa dell’eroe garibaldino, si frappone il suo primo biografo Giuseppe Guerzoni (La vita di Nino Bixio, 1875). Lo storico garibaldino scrive che Bixio quando vide sventolare la bandiera bianca sul Forte Michelangelo, segno di resa della piazzaforte civitavecchiese, “ne balzò di gioia, e ne telegrafò tripudiando al Governo e a sua moglie, d’ogni ventura di sua vita prima depositaria e partecipe”. Prosegue Guerzoni: “se Civitavecchia fu presa senza colpo ferire, la nomea d’Attila novello, appioppata per forza a Nino Bixio, non c’entrò per poco!”.
Per loro fortuna, quelli che erano stati i responsabili della “vigliacca consegna di Civitavecchia nel 1849”, coloro che furono membri di quel “Consiglio di guerra, che così si chiamava, il quale discuteva la resa prima della difesa” si salvano arrendendosi rapidamente a colui che nel 1849 si era opposto alla resa ai francesi guidati dal generale Oudinot, schiudendogli la strada verso la sanguinosa conquista della Roma repubblicana di Mazzini.
Il 17 novembre 1869 è inaugurato in pompa magna il Canale di Suez, nuove rotte si spalancano nel Mediterraneo che ne modificano profondamente il traffico marittimo, spostandone decisamente il baricentro commerciale verso oriente, offrendo ai porti italiani affacciati sull’Adriatico nuove opportunità di espansione. Civitavecchia rischia di essere condannata ad un ruolo ancora più marginale nel mar Tirreno, soffocata dalla arretratezza delle sue strutture portuali che le impediscono di competere ad armi pari con i maggiori scali di Genova, Livorno e Napoli.
Bixio, abile marinaio e mercante, esorta il governo italiano ad impegnarsi nel cogliere le nuove possibilità commerciali verso il non più lontano Oriente. L’interpellanza mette in luce “quanta sia la necessità di provvedere ai bisogni del porto di Brindisi” tappa finale della linea ferroviaria internazionale “Valigia delle Indie” che parte da Londra, dopo 44 ore di viaggio giunge nel porto pugliese dove passeggeri e merci s’imbarcano sui piroscafi che con 22 giorni di navigazione raggiungono finalmente nel porto indiano di Bombay.
Dopo aver parlato a favore di Brindisi, Nino Bixio dice “qualche cosa di quello di Civitavecchia”:
Civitavecchia è nella mente dei più un porto, ma io credo che nessuno dei marini del mondo lo consideri tale, ed è necessario che il Governo prenda delle disposizioni, faccia fare uno studio di orientamento sulle coste, in prossimità della Capitale del Regno, per dichiarare quale sarà il porto di attacco con essa.
Civitavecchia non è un porto per più ragioni. Civitavecchia non ha la superficie ancorabile vasta quanto è indispensabile, né il fondo necessario ai bastimenti che formano al presente il materiale navale, e segnatamente quello a vapore, e non può ricever con sicurezza questi bastimenti.
Civitavecchia non ha rada; quella che potrebbe chiamarsi la sua rada, da buon tempo ha il fondo roccioso. La costa su cui è Civitavecchia, è la pessima di tutta Italia…
Per Bixio “il vero porto di Roma” deve essere Porto Santo Stefano, Orbetello e il Monte Argentario “essendo quella località una specie di Gibilterra, e meglio, per la felice combinazione dei luoghi”, propone quindi di dragare la laguna ed impiantarvi un grande porto al servizio della Capitale del Regno:
Civitavecchia insomma non è un porto. Roma intanto abbisognerà di un porto, ma per me come Napoli è il suo porto da Oriente, S. Stefano-Orbetello sarà il vero porto di Roma dell’avvenire: saranno necessarie delle spese, ma sarà un porto sicuro e grande come si conviene.
Civitavecchia in quei mesi lotta per accaparrarsi la linea postale statale per la Sardegna. Inutile dire che Bixio si oppone anche a questo senza però riuscirci: “sarebbe ingiustificabile la scelta di Civitavecchia”! L’ex garibaldino muore il 16 dicembre 1873 di febbre gialla nei lontani mari dell’Indonesia. La città nonostante queste sue pubbliche esternazioni, gli dedica una via che costeggia il porto che lui mortificava e derideva. Propongo all’Amministrazione comunale al fine di vendicarci centocinquanta anni dopo del nostro “Attila” di intitolare la via al nobile e gustoso baccalà o meglio alla “Fabbrica del baccalà” che per alcuni anni ebbe sede in quella via e diede lavoro a tanti civitavecchiesi.
Che Civitavecchia non possa essere il porto di Roma, è un’idea coltivata non solo da Bixio ma condivisa da altri politici dell’epoca. Lo stesso Giuseppe Garibaldi, di cui Bixio fu luogotenente, propone di rendere navigabile il Tevere, mettendo anche al sicuro la città dalle sue frequenti inondazioni, e di costruire un nuovo porto alla sua foce, a Fiumicino.
La nefasta indecisione che Governo e Parlamento mantengono negli anni su dove concentrare i traffici navali per il mercato capitolino certamente non giova allo scalo civitavecchiese che, rimanendo privo di un’investitura ufficiale a primo scalo di Roma, non riceve dai ministri che si susseguono le auspicate attenzioni né erogano i cospicui finanziamenti di cui ha bisogno lo scalo laziale per fare quel salto di qualità tanto sperato dai suoi rappresentanti politici e commerciali.
In Parlamento portavoce del forte disagio dei Civitavecchiesi è l’avvocato Annibale Lesen che nella tornata del 19 giugno 1872 dedicata al bilancio del ministero dei Lavori Pubblici, retto allora dall’abruzzese Giuseppe Devincenzi, illustra le aspettative che la città coltiva per il suo porto:
Ho domandato la parola appunto per raccomandare al signor ministro dei lavori pubblici il porto di Civitavecchia. [omissis] Io non rammenterò al signor ministro dei lavori pubblici tutte le ragioni che concorrono a che quel porto non sia abbandonato. Basterà dire che sia a due ore da Roma; che tutte le capitali hanno un interesse ad avere il più vicino che sia possibile un porto capace e sicuro, sia pel commercio, sia per altre ragioni che, ripeto, per brevità non voglio ora stare ad enumerare.
Io so che l’onorevole ministro dei lavori pubblici è in questo concetto, vale a dire di fare di Civitavecchia un gran porto; però il signor ministro mi concederà che, prima che gli studi siano incamminati e compiuti, prima che si possano iscrivere nel bilancio dello Stato i milioni necessari per un gran porto e prima che i lavori si compiano, passeranno molti anni, e intanto urge che siano fatti i lavori di miglioramento, sia nell’ingresso del porto, sia nell’interno, i quali permettano alle navi di approdarvi e di rimanervi con sicurezza.
Non abbandonate il porto civitavecchiese è il grido di dolore che il deputato civitavecchiese rivolge al parlamento e governo italiano. La risposta del ministro a tale grido di dolore è articolata in due fasi. Nella prima, accondiscente, afferma che “l’argomento del porto di Civitavecchia è di tutta importanza”: il Governo ha incaricato un ispettore del Genio civile (uno dei più capaci) di studiare i miglioramenti da effettuare nello scalo tirrenico. Studi ostacolati in quei mesi dalle pessime condizioni climatiche. Devincenzi assicura Lesen che è “già allestito il progetto di sistemazione della darsena, e si sta attivamente compilando quello dell’adattamento delle banchine del molo detto del Bicchiere, e quello pure per l’escavazione generale di quel porto”. Ma è chiaro “che i progetti dei porti sono più difficili a studiarsi, e che gli studi dei medesimi richiedono moltissimo tempo”. Con garbata retorica parlamentare domanda a Lesen se lui e sottinteso i suoi elettori “non è di quegli impazienti, i quali vorrebbero sacrificare un’opera e la bontà sua alla celerità dell’esecuzione”.
Non è certo un caso se Alessandro Cialdi, grande scienziato civitavecchiese, esperto di porti, pubblica in quei mesi il suo Disegno per l’ingrandimento e miglioramento del porto di Civitavecchia.
Nella chiusura del suo intervento dedicato al porto di Civitavecchia, il ministro Devincenzi colloca l’amara pillola per Civitavecchia, rivelando come il Governo non abbia ancora chiara la scelta su quale sarà il definitivo porto di Roma capitale:
È intendimento del Governo né di fare un gran porto, né di spendere molto. Prima di venire a ciò, bisogna studiare molto seriamente, perché, se noi riconosciamo il bisogno che vi sia un gran porto nelle vicinanze della capitale, dove dovrà essere non lo sappiamo ancora. Ma per ora intendiamo provvedere ai principali bisogni di Civitavecchia, e crediamo non potervi meglio provvedere che col sistema d’escavazione adottato, e col formarvi delle banchine che renderanno più facili le operazioni commerciali.
Nel 1872 è sferrato un ulteriore colpo a Civitavecchia volto all’abbattimento della più importante prerogativa concessa al porto dai pontefici romani. Il ministro Sella propone e ottiene con la legge del 19 agosto l’abolizione del porto franco istituito da Urbano VIII nel 1630. Le franchigie dello scalo civitavecchiese sono abolite a partire dal 1 gennaio 1875. Tutti i successivi tentativi di ritardare l’entrata in vigore della legge naufragano sullo scoglio che Sella e Minghetti, suo successore alle Finanze, oppongono nell’aula del parlamento. Nel verbale della tornata parlamentare del 17 dicembre 1874 si legge: “i porti franchi sono istituzioni di altri tempi, e ripugnanti ai moderni principii di libertà economica, e quindi dobbiamo applaudire alle leggi che li faranno cessare in tutti i porti del regno” (Pasquale Stanislao Mancini). Minghetti, presidente del consiglio e ministro delle Finanze afferma che “Può darsi che la cessazione della franchigia porti nel primo momento una certa perturbazione; tutto ciò che è nuovo, tutto ciò che si scosta dalle consuetudini arreca sempre perturbazione; ma non credo che questa sia durevole; all’opposto, credo che a lungo andare Civitavecchia si avvantaggerà anziché essere depauperata dalla cessazione del porto franco”. L’abolizione del porto franco e città franca di Civitavecchia è anche finalizzato a mettere fine all’ingente contrabbando di merci che prosperava nella città portuale.
Per la città sono previste a compensazione la cessione del fabbricato della darsena per essere convertito ad uso di magazzini generali, di parte delle antiche mura e gli spazi di terreni che vi sono compresi. Inoltre un sussidio di 150.000 Lire per la costruzione dei magazzini generali. Molto non sarà realizzato.
Nuove prospettive si aprono per Civitavecchia e il suo porto con gli studi che Governo e Parlamento portano avanti per migliorare la difesa di Roma. Dal 1877 la Capitale è serrata da 15 forti che hanno il compito di difenderla da possibili aggressioni nemiche (si parla soprattutto della Francia). Anche Civitavecchia è interessata da questo progetto. Nel 1873 una giunta parlamentare esamina i lavori preparatori della Commissione permanente di difesa che elabora un ambizioso progetto nell’ambito del quale si afferma che: “Lo scopo delle fortificazioni di Civitavecchia era quello d’impedire l’occupazione del porto e della città ad un corpo di sbarco che intendesse farne scalo e base di operazioni contro Roma, e per appoggiare la difesa attiva del litorale adiacente”. Il 1849 evidentemente ha fatto scuola nei padri del giovane Regno.
Si suggerisce la realizzazione di potenti batterie da costa da collocare presso il Forte Michelangelo, sul fronte occidentale della Darsena, fino a trasformare l’antemurale in una sola e potente batteria; porre nuove batterie interne nella Fortezza e nella darsena, restaurare e migliorare l’antica cinta muraria; rafforzare la cinta del campo trincerato; creare un forte principale sul Colle dei Cappuccini ed altro. Spesa prevista sette milioni di lire e un presidio militare di 3500 uomini.
L’ingente previsione di spesa obbliga la Commissione a restringere gli obiettivi difensivi concentrandoli sul forte dei Cappuccini “donde alla distanza di soli 1500 metri si può bersagliare una nave nemica che volesse entrare in porto”. Sono cancellate le potenti batterie da costa e si punta al rafforzamento e miglioramento dell’antica cinta e del campo trincerato per una spesa di soli tre milioni. Alla fine non si realizza nulla se non l’abbattimento delle antiche mura perché “il porto di Civitavecchia, considerato da sé isolatamente, non è atto ad operazioni marittime di sbarco, essendone difficile l’entrata, né presentando area bastante per contenere quel numero di navi che si richiede sempre per tali spedizioni”. Come già affermato da Bixio, si prevede l’eventuale sbarco presso Orbetello e il Monte Argentario “dove una squadra trova il mezzo di ancorare e di eseguirvi operazioni di sbarco” e Civitavecchia potrebbe essere interessata dal nemico perché sulla linea ferroviaria e stradale verso Roma quindi “non è possibile prescindere dal riconoscere l’importanza militare di Civitavecchia in relazione agli ancoraggi di Santo Stefano e Porto Ercole, e di difesa terrestre verso Roma”. La giunta parlamentare all’unanimità propone “di conservare le difese di monte Argentaro” e a maggioranza “di difendere Civitavecchia come viene proposto nel piano ridotto”, segnale che nella giunta non c’è condivisione delle tesi finali sul porto laziale e le sue potenziali difese. Neanche l’ipotetica minaccia militare attira sullo scalo civitavecchiese i necessari investimenti per migliorarlo e svilupparlo.
Molto lentamente, negli anni, il porto riceve finanziamenti per eseguire piccoli lavori che non ne modificano l’antico impianto. Saranno gli ultimi decenni del secolo scorso ad essere contraddistinti da un deciso ingrandimento dello scalo in direzione nord che lo ha trasformato e migliorato radicalmente.
Concludo con l’Augurio con cui Carlo Calisse chiude la prima edizione del 1898della Storia di Civitavecchia. Poche righe ma intense e belle, oserei dire poetiche, ricche di quella passione per la sua bella città che lo storico sparge nelle oltre settecento pagine del suo lavoro. Scompariranno nella seconda edizione del 1936, sostituite da un freddo e retorico tributo al fascismo e al suo duce trionfante. Calisse rivive il 2 ottobre 1870 quando Roma e tutta la regione laziale, Civitavecchia inclusa, sono chiamate a sancire con un plebiscito l’annessione al Regno d’Italia:
Era un giorno meraviglioso di autunno. L’aria tiepida, profumata, lucente: agitate festevolmente le vie dalla folla del popolo; ad ogni finestra drappi e bandiere; gli echi delle musiche penetranti nel cuore. E allora, in quel giorno, ritornando fanciullo in Civitavecchia chi ha scritto, per amor di lei, questo libro, sentì egli profondamente nell’animo la commozione della patria, e “Te bella!, esclamò, te l’avvenire, ch’or si rinnova, incoroni di bene, come il tuo cielo e il tuo mare ti cingono di bellezza immortale”. Possa ad ognuno de’ figli suoi parer Civitavecchia in ogni tempo così bella; possa sempre trargli dal labbro così liete parole di ammirazione e di augurio!”.
La provincia di Civitavecchia il 2 ottobre esprime 4220 voti favorevoli e solo 13 contrari al quesito posto dal plebiscito che chiede ai cittadini romani e laziali di confermare l’unione all’Italia dei Savoia.
Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza.
ENRICO CIANCARINI
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Grazie a Enrico Ciancarini. Documentata e convincente ricostruzione di una pagina cruciale della storia cittadina e un contributo a più ampio raggio di ricerca nel 150° anniversario di Porta Pia.
NP
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Riportiamo di seguito un commento di Francesco Correnti. “Una rievocazione interessante e necessaria. Secondo il parroco di Santa Maria, il “governo ladro piemontese” portò solo guai. Ma i pro e i contro di Bixio, Garibaldi, Cialdi, Lesen, Sella ecc. credo vadano visti anche alla luce di una mentalità che è rimasta molto a lungo anche localmente, quella di credere che lo sviluppo portuale di Civitavecchia avesse qualcosa a che vedere con il porto traianeo e pontificio di Centumcellae/Civitavecchia.”
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Caro Enrico, ottimo ricordo.
Si potrebbe scomodare un titolo appropriato: “a Civitavecchia degna dei suoi destini”.Titolo, questo,che dovrebbe esser volto al negativo così da riassumere le tue osservazioni sul pensiero risorgimentale ed il nostro porto.
Ma corre l’obbligo di una riflessione. Come poteva l’aurorale istituzionalità nutrire affetti sul porto dello Stato Pontificio? Quel porto tanto decantato da un frate domenicano, il porto gloria del papato, il porto del legni pontifici partiti per Lepanto, il porto come sempre il Papa volle.
Nel 1873 il Ministero sollecitato da alcuni di pubblicare il Vocabolario (scritto da un frate e per giunta di Civitavecchia) si trasse indietro. La risposta del Nostro fu lapidaria, vero atto di fierezza da esibire alle generazioni fiacche: io non so niente, non ho chiesto niente, non voglio niente, non rispondo niente!!
Ed a proposito del simpatico Bixio tu, Enrico,ben sai quanto il domenicano fece rispondere alla richiesta dello stesso Bixio di incontrare il “primo marinaio d’Italia”a Civitavecchia(1873):
“si informa (la Signoria Vostra?) che il Padre…non è in casa!”
Infine, riguardo alla scarsa portualità espressa da Bixio&Altri sia sufficiente accedere al volume I della Storia (pag.14-17, prima ediz.) per comprendere appieno le miserrime riflessioni espresse( riflessioni che si confrontano con le dotte pagine magnificanti l’opportunissimo ricetto alle navi offerto da un secolare approdo)
Invidia, astio, livore, assenza di visione unitaria, provincialismo.
Si dovrebbe poter dire: ” dei miseri implora il perdono” ma, invece,hai ragione tu.
Provo ad sintetizzare le tue ragioni che faccio proprie affidandomi all’ironia di un appello.
“Autorità comunali, si rende impellente un ravvedimento di natura odonomastica scaturito dalla consapevolezza di un errore del passato, seppur involontario, che potrebbe dar luogo alla sostituzione di un nome proprio con un nome comune che si rifà ad un pesce salato ed essiccato la cui manipolazione risulta topologicamente ben pertinente”.
Dunque: baccalà versus Bixio. Absit iniuria verbis!!!
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