Poltronavirus 2. Dopo la sinistra c’è ancora la sinistra
di NICOLA R. PORRO ♦
…fu popolare il nazismo, fu popolare il comunismo,
è popolare la democrazia, è popolare il socialismo,
sono popolari i Beatles, è popolare Beethoven,
è popolare molta musicaccia. Sono popolari
ottime cose e pessime cose.
Popolare, dunque, vuol dire tutto e vuol dire niente.
Mentre sinistra e destra vuol dire tantissimo[1].
Il saggio di Fassin sull’inganno populista, commentato il 7 luglio us sul blog, negava qualsiasi possibilità di recuperare alla sinistra i nuovi populismi. Non forniva però una risposta a come ridefinire e ricostruire la sinistra del Duemila. Alessandro Dal Lago raccoglie idealmente la sfida con un sintetico pamphlet dal perentorio titolo Viva la sinistra[2]. Il lavoro è introdotto da una citazione tratta dalla Politica come professionedi di Max Weber. La missione della politica (Beruf) è evocata come imperativo morale, da sottrarre alle convenienze del momento: l’esatto opposto dell’affannosa ricerca del consenso a qualunque costo che identifica, con particolare evidenza, il discorso pubblico dei nuovi populismi.
A gonfiare le vele della flottiglia populista, infatti, vi è per Dal Lago una deformata e deformante rappresentazione sociale. Esemplare, nel caso italiano, la narrazione riservata al fenomeno migratorio: brutale, disonesta ma efficacissima nel veicolare la menzogna. Tutti i sondaggi d’opinione confermano come gli intervistati italiani sovrastimino sistematicamente da due a quattro volte rispetto ai dati reali il numero dei migranti ospitati dal nostro Paese, quello dei “clandestini” e quello dei residenti di fede mussulmana. L’inganno populista, del resto, si nutre di allarme sociale e prospera alimentandolo e rinfocolandolo negli ambienti sociali più vulnerabili agli effetti della crisi. La campagna scatenata nel 2017 da Salvini contro le Ong, con la complice subalternità cinquestelle e la cassa di risonanza dei media legati alla destra, costituisce un caso esemplare di mobilitazione della menzogna. Il suo obiettivo – legittimare pratiche di contrasto giudicate illegali dal diritto internazionale e insieme delegittimare e criminalizzare le organizzazioni di volontariato e le reti di solidarietà da sempre nel mirino delle campagne populiste – avrebbe tracciato la direttrice di un’offensiva xenofoba senza precedenti nella storia recente delle democrazie occidentali.
Il tentativo di dar vita a forme di pseudo-democrazia digitale e plebiscitaria aveva preso forma nei giorni degli sbarchi attraverso la classica combinazione di ingredienti arcaici – la mobilitazione della menzogna, la produzione di allarme sociale, la costruzione di un capro espiatorio collettivo, l’appello al presunto carisma del leader – e di un ricorso sistematico all’impatto comunicativo dei social interattivi. Per Salvini, come per Trump, i tweet di Twitter costruiscono, in senso letterale, l’arena politica per eccellenza. La propaganda populista, in coerenza con il modello delle catene di congruenza descritte nel precedente articolo, mira costantemente a illudere la propria audience di avere un accesso privilegiato al leader e ai suoi pensieri. Insicurezze soggettive e pulsioni gregarie vengono così spacciate per capacità di sintonizzarsi con i “capi” e di poterne addirittura influenzare le decisioni. Un gioco degli specchi fondato sulla pura manipolazione. Lo strumento non è inedito: la “bestia” leghista e le campagne cinquestelle hanno attinto potentemente alla comunicazione politica dei totalitarismi del Novecento sfruttando allo scopo le risorse offerte dalle tecnologie digitali. Ma l’esempio principe è rappresentato da Trump e dalla capacità dei suoi strateghi di contrabbandare una pura tecnica di persuasione e manipolazione per una forma di comunione empatica fra il leader demagogo e il suo popolo.
Il Presidente Usa in fregola di rielezione fornisce un format populista facilmente replicabile. Si combatte la globalizzazione drammatizzando la questione migratoria. Si accusano di intelligenza col nemico i media generalisti che non si fanno manipolare: do you remember Berlusconi? Si tenta di fidelizzare il popolo simulando una relazione carismatica con l’uomo del destino. Come per gli altri caporioni populisti – da Putin a Erdogan, da Orban a Salvini – la narrazione del leader presenta sempre tratti vittimistici che servono a delegittimare il nemico di turno, facendo spesso ricorso a un’insolente aggressività. Fra i bersagli privilegiati ci sono gli attori della coesione sociale, a cominciare da quei corpi sociali intermedi che lo stesso pensiero liberale considera l’architrave sociale e la riserva morale delle democrazie.
In questa prospettiva, per Dal Lago come per Fassin, non è possibile distinguere fra un movimento come i cinquestelle italiani e un partito di destra sovranista come la Lega. Tutti i populismi presentano gli stessi ingredienti subculturali: il moralismo sentenzioso, una strisciante xenofobia, il giustizialismo – efficacissimo nel depotenziare la critica del potere trasformandola in ordalia giudiziaria -, un leaderismo acritico, la fragilità o l’inesistenza di una cultura politica di riferimento. Con l’eccezione di quest’ultimo aspetto – il neofascismo possedeva una ben sviluppata subcultura della nostalgia reazionaria – sono gli stessi costrutti fondanti che hanno identificato a lungo, nel secondo dopoguerra, il Movimento sociale italiano. Della sinistra radicale l’anima grillina ha invece soltanto orecchiato qualche slogan, decontestualizzandolo alla bisogna. Ha anche condiviso, a onor del vero, qualche cantonata alle soglie del ridicolo. L’esempio di infatuazione movimentista è consegnata alla storia dall’indimenticabile foto ricordo che ritrae Giggino e il Dibba in una strada di Parigi in compagnia di qualche arruffapopolo dei gilet gialli. Non si tratta peraltro di pure eruzioni esantematiche: basti pensare ai contributi teorici dei sedicenti profeti di una nuova sinistra (da Benoist al nostro Fusaro) preoccupati più di demolire i costrutti portanti del pensiero progressista che di rinnovarlo.
Il populismo qualunquista, privo di cultura politica e perciò sottratto a qualunque vincolo di coerenza ideale, condivide con gli omologhi della destra sovranista l’attitudine a un ricorso spregiudicato agli armamentari simbolici e l’inclinazione a cavalcare senza freni inibitori i repertori emozionali[3]. Dal Lago annota infatti come alla campagna leghista contro i migranti il fronte progressista abbia opposto argomenti quanto mai civili e responsabili ma privi della capacità di aggredire la mobilitazione della menzogna con una narrazione all’altezza della sfida. Solo Papa Francesco ha saputo proporre una narrazione “liminale”, emozionante e coinvolgente, a contrastare la fiction inscenata dalla coalizione giallo-verde in materia di migrazioni.
Dal Lago ricorda ancora una volta come non saremmo in presenza di novità assolute. Come si possono dimenticare gli anni della Guerra fredda, quando la Thatcher poteva simpatizzare pubblicamente per Pinochet mentre Kissinger strizzava l’occhio ai più sanguinari leader populisti del Terzo mondo eufemisticamente ribattezzati i “nostri bastardi”? Né è difficile rintracciare in tutte le narrazioni del populismo xenofobo e sovranista codici comunicativi machisti, ammiccamenti omofobi e talvolta suggestioni fascistoide.
”Prima gli italiani”, legge e ordine, pieni poteri, ipocrita nostalgia della famiglia tradizionale, ostentazione di un devozionalismo bigotto costituiscono ingredienti ricorrenti, soprattutto nella narrazione salviniana. Spazzatura ideologica non priva, come nel caso degli autocrati sovranisti dell’Europa orientale, di una propria forza d’urto comunicativa a smentire ulteriormente il trito refrain sul presunto esaurimento di qualsiasi distinzione fra sinistra e destra.
Nell’esergo di questo articolo un graffiante corsivista come Michele Serra sintetizza meglio di autorevoli politologi il nocciolo della questione originata dall’appropriazione retorica di concetti come popolo e popolare: i populismi lucrano sempre sull’appeal comunicativo delle parole. I meno giovani ricorderanno tuttavia come già nel 1994 Norberto Bobbio avesse denunciato il rischio di affogare la dialettica democratica in giochi linguistici che davano vita a una sorta di hegeliana notte in un cui tutte le vacche sono nere. Per fare chiarezza, il filosofo aveva proposto di ridefinire l’irrinunciabile opposizione sinistra-destra associandola al conflitto cruciale fra uguaglianza e disuguaglianza. Le riflessioni di Bobbio furono oggetto anche da sinistra di non poche contestazioni. Gli si rimproverava una lettura ormai superata dell’opposizione fra due pensatori come Rousseau e Nietzsche, troppo sbrigativamente identificati come i “padri nobili” delle moderne categorie di sinistra e destra, nonché l’insufficiente attenzione rivolta a tematiche allora emergenti – diritti, genere, ambiente – che avrebbero potuto felicemente “contaminare” e fecondare il pensiero progressista.
Alcune originarie istanze “popolari” furono però realmente cavalcate nei decenni successivi dalle tante varianti del populismo di destra. Per Dal Lago si sarebbe prodotta quella viscosità (l’espressione è di Paul Veyne) che ha caratterizzato in modo peculiare il pensiero della sinistra italiana nel secondo dopoguerra. Viscosa era l’identità del vecchio Pci, ancora comunista nei repertori simbolici e insieme, sin dagli anni Settanta, avanguardia riformista nel sostenere iniziativa privata e democrazia rappresentativa[4]. Viscosi anche gli effetti di processi generatori di una specie di dissonanza cognitiva paragonabile alla “depressione del militante” analizzata da Fassin. In assenza di una formale proclamazione di discontinuità rispetto al paradigma originario, la contrapposizione fra riformismo e massimalismo, fra vecchio internazionalismo e nuovo europeismo, fra atlantismo e terzomondismo si sarebbe consumata nelle sinistre europee per passaggi progressivi. Senza tuttavia annullare le ragioni dell’opposizione alle destre, più tardi divise anch’esse fra paladini oltranzisti del neoliberismo e fautori di una declinazione in chiave sovranista e xenofoba delle politiche sociali.
Questa dialettica ha disegnato l’arena politica a cavallo fra XX e XXI secolo con l’emergere di conflitti etnico-nazionalistici, di insorgenze terroristiche di nuovo genere, di processi controversi di legittimazione e delegittimazione dell’offerta politica progressista. Sono anche emerse figure di leader difficilmente riconducibili ai tradizionali paradigmi dell’appartenenza ideologica, come nel caso italiano incarnato da Matteo Renzi.
A esemplare conclusione della propria analisi, Dal Lago evidenzia l’esito paradossale del voto politico del 2018, quando le destre antiglobaliste si proporranno come difensori dei lavoratori dipendenti e dei diritti sociali. Un’offensiva favorita da forme di estremismo gigione, che l’autore definisce dandista. Dove dandy è il radicalismo parolaio di Bertinotti che affonda il governo Prodi. Dandy è il sedicente comunitarismo di cui si ammanta la demagogia di personaggi outsider, come Bossi prima e poi Grillo, interamente costruiti nella sfera mediatica pur obbedendo a differenti stilemi comunicativi. L’estremismo gigione e il dandismo intellettuale ispirano però anche le acrobazie intellettuali di Badiou, Negri, Hardt, Rancière, Zizek: intellettuali della “post-sinistra”, ormai privi di una patria ideale ma incapaci di disegnare un percorso alternativo.
Il rimedio populista, negando l’opposizione destra/sinistra, è peggiore del male, ma per opporvisi occorre riaffermare senza infingimenti quei principi non negoziabili, fondamentali, polemici, che discendono dalle idee generatrici e possono informare di sé un robusto riformismo progressista. In breve: occorre coniugare radicalità e realismo, fedeltà ai princìpi etico-sociali e sensibilità all’innovazione culturale.
I compiti a casa che Dal Lago assegna alla sinistra europea sono assai impegnativi. Essa non deve accontentarsi della semplice etica della compassione ma deve assumere le implicazioni complesse che discendono dalla comune appartenenza al genere umano. A cominciare dalla difesa dei diritti primari, fra cui quel diritto alla vita minacciato dalle politiche migratorie dei populisti, e dalla capacità di distinguere senza compromessi fra vittime e carnefici delle guerre di globalizzazione, comunque e dovunque combattute. Insieme, bisognerà non abbandonare quel nuovo sottoproletariato interno composto da poveri, marginali, esclusi che l’epidemia ha ulteriormente dilatato. La sinistra dovrà poi interrogarsi sulla questione cruciale della rappresentanza: la rivoluzione digitale non può tradursi in negazione della democrazia, come avviene con la delega alle “piattaforme” populiste di ispirazione plebiscitaria. Parole chiare andranno pronunciate a proposito della questione ambientale, rifiutando le sirene della decrescita felice in favore di un ambientalismo coraggioso ed esigente. Analogamente, bisognerà prendere le distanze dalle suggestioni giustizialiste che confondono, pervertendo entrambe, le ragioni della politica e le logiche giudiziarie. Last not least, l’europeismo democratico andrà rianimato e insieme restituito alle intuizioni progressiste ispirate al pensiero di Altiero Spinelli.
Insomma: dopo la sinistra c’è ancora la sinistra. E un sogno che non può tradire.
NICOLA R. PORRO
Leggo ancora tanta e sviluppata critica ai populismi ma poca e appena appena accennata proposta politica. D’accordo, “dopo la sinistra c’è ancora la sinistra”, ma cosa dovrebbe fare la sinistra? E cosa sta facendo?
La critica al populismo, ancorché sensata e lucida, è certamente più facile per l’uomo ‘di sinistra’, decisamente più ardua appare la proposta che, spesso e volentieri, non segue la critica. Specialmente in questo periodo c’è bisogno di proposte.
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