LO SPORT IN GINOCCHIO DAVANTI A TUTTI I FLOYD

di STEFANO CERVARELLI

Nell’omicidio di George Floyd il paradosso è nel fatto che Dereck Chauvin, l’agente assassino, per compiere il suo orrendo atto, si sia inginocchiato nella stessa identica posa come, nel 2011 aveva fatto durante l’esecuzione dell’inno nazionale, che negli USA precede ogni avvenimento sportivo, il quarterback di San Francisco 49ers, Colin Kaepernick,  in segno di protesta contro un Paese che “opprime neri e minoranze etniche”.

Quel gesto, in questi giorni, si è ripetuto quasi in ogni parte del mondo insieme ad altre tante forme di protesta, assurgendo a simbolo del Black Lives Matter (I neri contano) alla stessa stregua del pugno alzato del Black Power negli anni Sessanta.

Come non ricordare la protesta attuata sul podio di Città del Messico, ai Giochi Olimpici del 1964, da Tommie Smith e John Carlos con la solidarietà dell’australiano Norton?

Ma vi è un ulteriore paradosso in quel gesto usato per dare la morte.

Risiede nel fatto che qualcuno abbia paragonato quella mossa (il chokehold, tecnica militare ora vietata), e che l’agente incriminato aveva usato già molte volte, alle mosse tipiche delle arti marziali.

Indubbiamente siamo di fronte ad una simbologia sportiva usata a sproposito.

Questo episodio ha riportato alla mente le terribili immagini del 1992 quando, a Los Angeles, scoppiò la rivolta per il pestaggio del tassista Rodney King, ma ancor più contro la sentenza che mandava assolti i 4 agenti autori del fatto. Sulla strada rimasero 50 vittime.

La tessa tecnica venne usata nel 2014 a New York dove l’agente Daniel Pantaleo uccise l’afroamericano Eric Garner.

Per tornare al tragico episodio di Floyd, nelle proteste svoltesi davanti alla Casa Bianca, come in tantissime altre località statunitensi, nonostante le misure repressive adottate da Trump, hanno partecipato 200.000 persone con larghissima rappresentanza del mondo dello sport. Primi fra tutti campioni del basket e del football americano, tra i quali Ytirone Carter vincitore del Superbowl nel 2008.

Ugualmente a Minneapolis molti campioni hanno sfilato per le vie cittadine con il pugno alzato.

C’è poi stato Le Bron James che nel corso di un accorato discorso in difesa della gente di colore non ha mancato di pronunciare dure parole contro Drew Brees (quarterback dei New Orleans Saints) che giustificava la repressione; e poi ancora la tennista più pagata al mondo Naomi Osaka scesa in piazza a Los Angeles, dove vive.

Una protesta quella degli atleti di colore, contro le discriminazioni, che affonda le sue radici in tempi lontani, da quando cioè essere neri, seppur capaci di distinguersi e rendere onore al loro paese in varie attività, tra cui lo sport, non dava loro nessun diritto di avere cittadinanza stabile nell’alta società americana.

Situazione questa descritta molto bene già in un film di 50 anni fa “Indovina chi viene a cena?”

E per tutto il tempo seguente, fino all’inizio degli anni ’80, a dispetto dei trionfi di una razza ”votata” per natura alle imprese atletiche, lo sport era stato mai in mano ai neri.

Non lo fu quando Jack Johnson diventò il primo campione mondiale nero dei massimi.

In precedenza, aveva vinto il titolo della categoria riservata ai pugili di colore. Una volta conquistata la corona unificata Johnson venne però arrestato e costretto all’esilio per avere ”osato” sposare una donna bianca. Di lei non si hanno notizie.

Lo sport non apparteneva ai neri neanche quando Jesse Owens, all’Olimpiade di Berlino nel 1934, conquistò 4 ori davanti a Hitler, inferendogli un durissimo colpo alla sua convinzione nella supremazia della razza ariana.

Owens però non fu vittima solo dello sgarbo del “fuhrer”, il quale rifiutò di stringergli la mano; una volta rientrato in patria non venne neanche ricevuto dal Presidente Roosevelt.

Ed eccoci agli anni ’50. Cassius Clay, a quel tempo, era lontanissimo dall’idea di abbracciare la fede musulmana. Il padre un giorno gli racconta che un suo coetaneo, il quattordicenne Emmett Till, residente nel Mississippi, era stato ucciso con un colpo di pistola e gettato nel fiume solo perché aveva osato rivolgere la parola a una cameriera bianca.

Clay che da solo un anno aveva iniziato a tirare di boxe, si rese protagonista del peggior gesto della sua breve vita teppistica: rubò due poggiapiedi, di quelli che si usavano per lustrar le scarpe, e li incastrò nei binari facendo così deragliare un treno in transito nella stazione di Louisville!

Perché fece questo? Perché una giuria composta da soli bianchi aveva assolto, impiegando solo poco più di un’ora, l’assassino di Till.

Questo episodio, che venne ricordato anche da Le Bron James nel corso di una conferenza stampa, (e per questo la sua casa di Los Angeles fu tappezzata di scritte razziste) diede al giovane Clay la consapevolezza che non si poteva più rimanere indifferenti davanti alla segregazione razziale.

Da quella volta nella sua boxe c’era tutta la rabbia e la difesa di un intero popolo che reclamava il pieno rispetto di sé attraverso i suoi pugni. Successivamente Cassius intraprese la strada di emancipazione che lo portò ad abbracciare la causa musulmana di Malcom X, assassinato nel 1965.

Lo sport non apparteneva ai neri neanche alla fine degli anni 40, quando Jackie Robinson, precisamente il 15 aprile 1947, riuscì ad infrangere la barriera razziale diventando il primo giocatore nero della Major League di Baseball, giocando con la squadra di Brooklyn; fino allora aveva giocato nella Negro Major Baseball.

In quel periodo la scritta “Withes Only” (solo bianchi) era dappertutto ed il baseball non faceva eccezione. Gli afroamericani avevano il loro campionato, appunto la Negro League e di questo dovevano accontentarsi; la gente di colore non poteva nemmeno sedersi sulle tribune insieme gli altri ma doveva stare in terra, sui prati rialzati intorno allo stadio.

All’inizio la vita di Robinson non fu facile, ovunque era accolto da insulti di ogni tipo e lancio di oggetti. Un allenatore arrivò addirittura a sputargli in faccia, dopo averlo apostrofato molto pesantemente. Però Robinson sapeva fare una cosa e la faceva meglio dei bianchi: sapeva giocare  e questo lo portava, sebbene lentamente e tra mille difficoltà, ad essere accettato dai compagni di squadra che al suo arrivo gliene combinavano di tutti i colori; la sua perseveranza, la sua forza che venivano alimentate dentro la sua famiglia,  però hanno la meglio portandolo ad essere quel ”42” che tutti i bambini che calpestano un campo di Baseball desiderano avere come numero di maglia.

Ma l’episodio che fece esplodere a pieno la rabbia per la condizione sociale e sportiva nella quale i neri erano costretti a vivere fu il famoso pugno guantato, simbolo del Black Power, innalzato in faccia al mondo alle Olimpiadi di Città del Messico il 16 Ottobre 1968.

Tommie Smith e John Carlos, rispettivamente primo e terzo nella finale dei 200 metri, seguirono l’esecuzione dell’inno stando sul podio con la testa bassa ed il braccio sollevato con il pugno chiuso. A loro diede solidarietà l’australiano Peter Norman, giunto secondo, che indossò una spilletta dimostrativa.

Fu quella la sera che fece cambiare l’ingenua idea di chi credeva che le vittorie sportive avessero lo stesso colore.

Nell’immediato quella protesta non trovò l’adesione di tutti campioni neri, – in particolar modo di quelli più anziani – diciamo più legati, nonostante quello che avevano passato, all’idea di sport asettico nel quale tutto deve essere messo da parte.

Tra questi anche Owens che però, quattro anni dopo, si schierò pubblicamente con i suoi eredi.

Curioso il retroscena di quell’episodio che vale la pena raccontare.

Smith, che era sociologo, disse a Carlos, dei due il più rivoluzionario, che la sua idea di salire sul podio con i calzini neri era insufficiente, bisognava fare qualcosa di più e tirò fuori due guanti di pelle nera e disse a Carlos:” Il destro è per me, il sinistro per te”. A Norman, che accettò, dettero una spilla dimostrativa.

I protagonisti della protesta subirono ovviamente l’ira del CIO che li squalificò dalle Olimpiadi.

Smith, prima di diventare professore di sociologia a Santa Monica, fece in tempo a ricevere l’appellativo di traditore della patria, mentre Carlos fu respinto da qualunque squadra di football americano intendesse giocare. Norman ricevette dagli australiani un boicottaggio quasi continuo fino alla morte avvenuta nel 2006.

Tornando in conclusione all’omicidio di George Floyd, non va dimenticata la protesta messa in atto dai giocatori del Liverpool che radunati su loro campo, l’Anfield Stadium, si sono inginocchiati formando un cerchio.

Anche da noi, In Italia, non sono mancate atti di solidarietà e protesta contro il razzismo. Cortei, flash mob, raduni pacifici si sono volti un po’ in tutte le città italiane, anche se è mancata, purtroppo, l’adesione e la partecipazione ufficiale dei vari club sportivi e delle istituzioni.

STEFANO CERVARELLI