Presidente Per Consiglio
di MATTEO VECCHI ♦
Sul filo del rasoio, in equilibrio, si alternano da anni in Italia sistemi elettorali proporzionali, maggioritari o strane fusioni fra i due. L’obiettivo che i due si pongono è il medesimo: garantire la rappresentanza dei cittadini entro l’emiciclo parlamentare, gli aspetti del percorso per raggiungerlo, al contrario; differiscono.
Se infatti il maggioritario premia il singolo partito e accentua il duello fra due candidati destra-sinistra (o “triello” data la comparsa del M5S da qualche anno a questa parte), il proporzionale favorisce il formarsi di coalizioni, anche e specialmente dopo la fase elettorale. Il maggioritario lega in maniera più stretta il candidato al territorio di elezione, il proporzionale riconosce in maniera più rilevante la funzione del partito ed affida perciò ad esso la scelta dei candidati, la loro distribuzione nei vari collegi e la conseguente elezione.
Questo articolo non vuole tuttavia trattare della legge elettorale quanto più di un costume che si sta venendo a formare riguardo la figura di Presidente del Consiglio in senso ampio.
Alle orecchie di un bambino il termine “Presidente” non può non portare alla mente una figura fondamentale, dotata di forte potere decisionale e soprattutto capace di attirare consensi su di sé. Consensi che, a ragione, lo hanno portato a dirigere le operazioni di governo. Negli esecutivi di coalizione la figura del presidente è spesso frutto di un accordo tra i partiti di maggioranza, in quelli di stampo maggioritario è invece (spesso) la figura del segretario di partito che si fonde con quella del Presidente.
Soffermiamoci sulla formazione di governo di coalizione. Che succede se a formare una maggioranza sono partiti non appartenenti alla stessa area? I casi che voglio richiamare sono: Mario Monti (2011-2013) e Giuseppe Conte (2018-in carica).
Entrambi professori universitari, entrambi fuori dalla politica, salvo qualche punto di contatto con l’Ulivo per Monti ed il M5S (nettamente più accentuato) per Conte, entrambi chiamati a risolvere una crisi, economica nel primo caso a seguito della forte recessione e cattiva gestione del governo Berlusconi del 2008; politica nel secondo dato che l’accordo fra Lega e Movimento tardava a perfezionarsi. La differenza più rilevate che certamente non sfugge è l’enorme gap negli indici di gradimento guardando gli intervalli di tempo al governo, Conte surclassa Monti.
Alla fiducia dell’ormai noto governo tecnico 2011 analisti e non, erano unanimi nell’affermare che la politica avesse fatto “un passo indietro” rimettendo nelle mani di un terzo oneri ed onori della Presidenza del Consiglio dei Ministri, affidandogli l’arduo compito di riportare sui binari un treno quasi totalmente deragliato. La paura di veder aggrediti i risparmi privati dei cittadini e la possibilità concreta di finire come la Grecia era forte e incalzante. Monti dovette avallare riforme pesanti e manovre economiche lacrime e sangue (famosa la legge Fornero per quanto riguarda i pensionamenti). Tutto questo ha garantito poi alla politica di poter tornare come se nulla fosse ignorando totalmente personaggi e fallimenti della stagione politica che aveva aperto la strada ai tecnici.
Come la varicella tuttavia questa esperienza ha lasciato dei segni non del tutto visibili ma riscontrabili ad un’analisi attenta.
La politica ha infatti realizzato di poter godere di una grande capacità di manovra potendo appellarsi, in caso tutto vada male, ad un terzo pronto a risolvere la situazione. Banale deresponsabilizzazione.
Nei governi, erroneamente targati come PD a questa “genialata” nessuno ha fatto ricorso anzi. Si può riconoscere una spiccata volontà di responsabilizzazione col referendum 2016 voluto e promosso dall’allora premier Matteo Renzi.
Saltando al dopo Gentiloni arriviamo alla fase di formazione del governo da parte dei gialloverdi. Oggettivamente i programmi erano sovrapponibili quasi alla perfezione pertanto la complicazione maggiore è derivata dalla forte volontà degli, al tempo leader, Salvini e Di Maio a voler ricoprire la carica di Presidente. I due trovano finalmente la quadra incaricando Conte capo dell’esecutivo. Questa operazione li rende de facto, scevri da ogni responsabilità governativa. Ricoprono sì i ruoli di vice-presidente e ministro ma nello specifico prevale la loro figura da segretari di partito. Pronti a mettere la faccia sui provvedimenti che speravano di veder approvati e che maggiore risalto avrebbero dato alle loro figure come d’altronde capaci di rinnegare un anno e mezzo di operato; chiedendo la sfiducia (Lega) alleandosi col primo partito d’opposizione (M5S). Conte si trova cosi nel giro di pochi mesi ad essere il perno della politica italiana capace di mettere a freno tutti i leader dei principali partiti di governo e opposizione. Un grigio burocrate svolgente funzione di garanzia, volto a mantenere la concordia fra due leader capricciosi. Questo fino all’affacciarsi dell’emergenza covid dove ha smesso di singhiozzare e ha assunto la veste di professore, ma avremo modo di parlarne in un altro articolo.
Perché però parlare di malcostume?
Perché non è certamente con la deresponsabilizzazione che la politica può tornare a decidere e a farsi grande assieme ai suoi leader e partiti. Non è caricando tutte le responsabilità su un volto nuovo che si può costruire una proposta, portare avanti un’ideologia, aprire un dibattito o più semplicemente esporre un programma politico piuttosto che un altro. Non è un caso che ad oggi tutti chiedano il proporzionale puro (che garantirebbe l’elezione agli appartenenti di praticamente ogni partito), non è un caso che ad oggi nessuno abbia su tavolo una proposta elettorale articolata e strutturata, non è un caso che sia i partiti che noi cittadini tendiamo a fare affidamento su singoli leader da fagocitare nel giro di due anni.
Spesso sentiamo la frase “non ci sono più i politici di una volta”. Chiaro, se sommate alle innumerevoli differenze quelli di oggi non hanno più motivo di sentire su di sé il peso e la responsabilità del governo, padroni e schiavi di una perpetua propaganda elettorale.
MATTEO VECCHI
E pensare che il 1919 fu visto come l’anno della” rivoluzione democratica”, dato che le elezioni condotte col nuovo sistema della ” proporzionale ” rivelarono la vastità delle trasformazioni avvenute nell’opinione politica italiana: i due partiti del popolo , il partito socialista ed il partito cattolico, fecero un grande balzo in avanti. Il proporzionale non soffre del leaderismo, malattia del maggioritario. Eppure io con Veltroni vi ho creduto. Forse hai ragione nel dire che la politica sia deresponsabilizzata, senza una adeguata attività parlamentare, attività anche di mediazione politica. Credo che la deresponsabilizzazione dei ruoli dei parlamentari porti al forte potere della magistratura inquirente, che si sobbarca anche in intrusioni di natura ” etica ” e non di diritto.
Non credere che io sia di destra…sono di sinistra, eccome !
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