Si poteva fare meglio?
di ENRICO IENGO ♦
Oggi , 4 Aprile, siamo a circa un mese e mezzo dal giorno che fu diagnosticato il primo paziente Covid 19 positivo.
I numeri ufficiali, non reali, sono questi: in Italia 120000 casi totali con 14.681 deceduti; nel mondo oltre un milione di casi totali con 56.767 deceduti.
Tutti noi stiamo seguendo con trepidazione, angoscia e paura ciò che sta accadendo, consapevoli della straordinaria gravità del momento e dei cambiamenti, forse irreversibili, che determinerà.
Da operatore sanitario, vorrei condividere alcune riflessioni che ho fatto mie, nella speranza che possano essere utili.
Premetto che non mi schiero con coloro i quali giudicano completamente negativo il modus operandi del governo, delle regioni e della sanità in generale, senza tener conto della straordinarietà della situazione (l’ultima pandemia risale a un secolo fa).
Se il termine epocale ha un senso (e spesso è stato usato a sproposito), questa è una crisi epocale.
Prima osservazione:
come tutti ormai sanno nel nostro paese l’infezione da Covid 19 è iniziata molto prima del 21 febbraio. Da Gennaio, ma forse anche prima, si verificavano strani casi di polmonite, con caratteristiche non comuni. Io stesso ebbi a curare tre casi di polmonite che oggi sarebbero sospette per infezione da Covid19, intorno alla metà di Gennaio. Purtroppo la coincidenza con il picco influenzale non ha stimolato l’attenzione verso questi casi, trattati effettivamente come complicazioni influenzali.
Almeno un mese di ritardo nella diagnosi di Covid 19 è un tempo lunghissimo per una infezione così contagiosa. Significa migliaia e migliaia di contatti: feste, stadio, scuole, posti di lavoro.
Un temporale si è trasformato in un uragano.
Poi ci sono stati passi falsi: all’inizio per esempio non si sono create subito sale d’attesa e percorsi dedicati ai malati Covid 19, con diffusione del contagio ad altri pazienti e soprattutto agli operatori sanitari. Occorre rendersi conto di cosa significa che un medico o un infermiere siano contagiati senza saperlo: un qualsiasi medico vede durante il giorno decine di pazienti con contatti che possono durare anche oltre mezzora. Aggiungiamo a questa considerazione che i medici hanno spesso operato sprovvisti dei normali DIP (dispositivi individuali di sicurezza). Il problema dei DIP e le polemiche che ne sono seguite ci spingono a riflettere sul delegare certe attività produttive ad altri paesi, dai quali poi diventiamo dipendenti, salvo poi accorgercene quando ne abbiamo urgente bisogno.
L’altro passo falso è stato l’esitare nel chiudere come zona rossa l’hinterland formato dalle province di Bergamo, Brescia e Piacenza , ritardo legato sicuramente ai timori per le ricadute economiche di tale provvedimento, con conseguenze rivelatesi poi disastrose.
Seconda osservazione:
anche in questo caso ormai siamo tutti consapevoli che i numeri dei casi contagiati e dei deceduti non sono reali. Facendo il calcolo dei morti nelle stesse zone un anno e due anni fa emerge un numero di deceduti molto più alto di quelli con diagnosi di Covid 19 e ciò è strettamente legato al numero dei contagiati che è 10-20 forse 30 volte superiore a quello ufficiale, considerando un tasso di letalità che forse non coincide con quello non veritiero cinese (1,8-2%), ma non può essere il 10% della Lombardia . Come è ben noto la scarsezza dei tamponi e le difficoltà in termini di sforzo umano e economico per eseguire il tampone su larga scala ha sottostimato il numero dei reali contagiati.
L’incubo fin dall’inizio è stato quello della scarsa disponibilità di posti letto in osservazione e in terapia intensiva e della penuria di ventilatori meccanici e di medici, con il rischio concreto di vedere i malati a terra nei corridoi come in Spagna, in una specie di Caporetto sanitaria.
A questo punto la scelta fu obbligata: far stare a casa i sospetti e i positivi con scarsi sintomi o asintomatici e ricoverare solo i casi gravi. Ma quale è il sintomo di allarme che il medico di medicina generale deve rilevare attraverso il triage quotidiano? Non la febbre alta, non la tosse o l’astenia, ma “la difficoltà respiratoria”. L’ esperienza mia e degli altri colleghi che lavorano nel territorio è stata fino ad oggi questa: telefonare 2-3 volte al giorno per sincerarsi delle condizioni di salute e, a fronte di sintomi che rispondono a possibile diagnosi di COVID 19, tranquillizzare il paziente febbricitante, ma senza difficoltà respiratoria, specificando di avvertire se il sintomo insorge. Quasi mai si è potuto ricorrere al tampone, a meno che il paziente non riferiva contatti stretti con persone positive per COVID19 E’ facile immaginare sentimenti come paura e preoccupazione nel paziente e sensazione di impotenza nel medico. Purtroppo il rilevare la difficoltà respiratoria significa che non c’è più molto tempo e il chiamare il 118 e il trovare un posto letto nei reparti adeguati richiede tempo.
Tanti malati sono deceduti a casa e, non avendo fatto il tampone, non sono stati contati come deceduti per COVID 19.
Ciò spiega, come già detto, la discrepanza fra il numero dei morti “ufficiali” per corona virus e quelli reali, specie nelle aree di maggior contagio.
E’ doveroso aggiungere il ruolo rilevante avuto dalle RSA nel numero dei morti: queste strutture abitate da pazienti particolarmente fragili hanno pagato un tributo altissimo, anche da parte degli operatori sanitari, sprovvisti anche essi spesso di DPI; è oggi chiaro che qualcosa non ha funzionato nel sistema di prevenzione e di sorveglianza.
Da qualche giorno si fanno più tamponi, la risposta sanitaria ha aggiustato il tiro e si è più pronti a reagire alle criticità.
Le terapie intensive sembra si stiano svuotando, ma come hanno lavorato in queste settimane? Quante gravi problematiche hanno dovuto fronteggiare in uno sforzo titanico di tentare di salvare tutti e con la consapevolezza di non poterlo fare?
Terza osservazione:
si poteva fare meglio?
Secondo me, se partiamo dalla attuale situazione del Servizio Sanitario Nazionale, probabilmente, a parte alcune criticità che potevano essere gestite meglio, si è fatto e si sta facendo il massimo. Se confrontiamo il nostro percorso di lotta all’epidemia con quello di altri paesi democratici riconosciamo al governo di aver seguito, dopo qualche giustificato tentennamento iniziale, un modello di coerenza e di consapevolezza nelle scelte difficili e coraggiose messe complessivamente in atto, unitamente al tentativo finora riuscito di responsabilizzare l’intero paese, attraverso un messaggio di condivisione del grande sforzo unitario che il momento richiede. Altrove queste decisioni sono mancate o sono state fatte in modo tardivo e confuso e con un occhio alle convenienze economiche prima di quelle della salute, salvo poi tornare sui propri passi e adottare il nostro modello. E’ superfluo parlare degli operatori sanitari, per non cadere in tentazioni retoriche mi limito a dire che abbiamo constatato la loro affidabilità e abnegazione.
Ma occorre essere consapevoli che in quella scelta di tenere a casa i soggetti positivi o sospetti, anche fragili, si nasconde una verità con la quale si doveva e si deve fare i conti e che è frutto di anni di scelte sbagliate.
Siamo arrivati a questo appuntamento epocale impreparati: in questi ultimi 20 anni abbiamo avuto inequivocabili segnali di allarme per epidemie potenzialmente in grado di diventare pandemie: l’Aviaria, la Sars, la Mers. Non era impensabile un evento come quello attuale.
Con un po’ di lungimiranza si potevano programmare meglio i tagli alla Sanità in termini di posti letto e di operatori sanitari. Faccio un esempio: se fosse stata compiuta la scelta di potenziare la medicina del territorio, investendo su esso, l’effetto sarebbe stato quello di svuotare i reparti di Medicina, ormai sovraffollati di anziani con patologie croniche che possono essere curate a domicilio. Ciò avrebbe comportato notevoli risparmi da ricollocare in altri ambiti del Servizio Sanitario Nazionale e sicuramente un miglioramento della qualità di vita del paziente assistito a casa.
Il prolungarsi della, vita media comporta la gestione di certe patologie che non possono essere affrontate con l’ospedalizzazione. I tagli lineari che sono stati attuati negli anni hanno invece avuto l’effetto di indebolire quei reparti specializzati che oggi sono chiamati a fronteggiare le grandi criticità emergenziali.
Non si trattava di allocare maggiori risorse economiche per la Sanità , ma di impiegare le risorse in modo più razionale, anche in considerazione di una vera e propria prossima emergenza sociale, quella demografica, con una popolazione sempre più anziana e una popolazione attiva sempre più esigua. Se ne parla ancora troppo poco.
Ovviamente non è un problema soltanto nostro, ma comune a tutti i paesi occidentali, come stiamo vedendo in questi giorni. Credo che tutti più o meno subiscano le conseguenze di scelte fatte negli scorsi anni e di chiara impronta neoliberista.
Scelte che oggi costano un prezzo alto in termini di vite umane e di sofferenza.
ENRICO IENGO
Grazie Enrico,
detto da un medico esperto della situazione sanitaria italiana conferma quello da me scritto su queste pagine: l’impronta neoliberista è da combattere a livello politico e sociale. Razionalizzare il sistema non significa a mio parere solo spendere meglio, ma capovolgere l’approccio mettendo al centro il benessere di milioni di uomini e di donne .
Ai singoli individui bisogna però chiedere maggiore consapevolezza,assunzione di responsabilità e ora cambiamento di rotta.
Marina Marucci
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Non si può che concordare con questo articolo. Si conferma che i tagli
nella sanità si potevano fare, ma a patto di ripensare ad un nuovo
modello di sanità. Purtroppo ogni anno il nostro deficit ci impone
sempre manovre aggiuntive e spesso impreviste che mal si coniugano
con uno studio reale dell’ottimizzazione delle risorse. Questi tagli secchi
apportati un po’ in tutti i campi, accoppiati ad una burocrazia soffocante,
ci hanno fatto regredire non solo dal punto di vista sanitario, ma anche nelle infrastrutture, nell’informatizzazione del paese e così via. Siamo rimasti arretrati in troppi campi negli ultimi 20 rispetto all’Europa del nord che galoppa e anni e risalire la china è oggi impresa ardua.
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Quando Foucault, mutuandolo niente meno che da Aristotele, introdusse il concetto di biopolitica per spiegare quanto i nostri corpi, con i loro impulsi, desideri, sofferenze e fragilità rappresentino il luogo originario, genetico del potere, della norma e dell’obbligazione, della libertà e dell’obbedienza ci ha spalancato un universo che adesso, improvvisamente e drammaticamente, esce dall’accademia e dai fumi della speculazione filosofica. Si staglia nella sua concretezza, si definisce nei nostri vissuti, si popola delle nostre paure. Grazie a Enrico di avere restituito razionalità e corretta informazione alla narrazione sul dramma che stiamo vivendo. Sono le cose di cui abbiamo più bisogno per contribuire a risolverlo, per quel poco che è in noi.
Nicola
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Ottima analisi Enrico, con una chiara e precisa individuazione degli sviluppi della situazione e una altrettanto precisa individuazione di cosa iniziare a fare da adesso!!
Corrado
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Grazie Enrico per la tua conoscenza che ci hai saputo dare. Proprio ora ho letto la lettera aperta che il dottor Floccari, nefrologo dell’ospedale San Paolo – ed attualmente in isolamento per il Covid19 – ha inviato al dottor Carlo Tarantino, invitandolo a chiedere risposte pubbliche dalla Direzione Generale su sette punti salienti riguardo all’emergenza COVID al San Paolo di Civitavecchia. Ma mi soffermo solo sulla conclusione – che ricalca il senso del tuo intervento – : ..rimango però convinto che ammettere gli errori sia l’unica via per correggerli ed evitare che si ripetano. -. E’ lo stesso tono che ritrovo nei commenti, ossia la presa di coscienza del dramma epocale e la volontà di cambiare, in primo luogo noi stessi e poi la politica.
Dico ” Noi stessi ” e mi sovviene quella forma di soggettivazione che Schopenhauer intuisce e che si attua attraverso il CORPO. Riprendo le parole di Nicola: i nostri corpi con le loro sofferenze….E’ il Gautama, è Siddarta che il filosofo richiama, sono i corpi dei sofferenti per fame d’aria, dei vecchi che , nella sofferenza e nella sopravveniente morte ” squarciano”, soli, il velo di Maya. Noi non siamo ” testa d’angelo alata senza corpo “, l’uomo è corpo e ” vive” dal di dentro, con la materiale sofferenza, la possibilità di accedere al Nirvana.
Tu parli , Enrico, dell’indebolimento di quei reparti ” specializzati “che oggi sono chiamati a fronteggiare le grandi criticità emergenziali:oggi viviamo in una società di massa , globalizzata, specializzata, quell’universo che Nicola, con il biopotere di Foucault, ben definisce : di fronte ai dati della televisione, alle immagini dei medici e dei sofferenti nel corpo, noi riflettiamo su questo cambiamento epocale : siamo ” corpi” viventi sottoposti a specifici processi biologici come quello della nascita ( cosa rimarrà impresso ai neonati del nido dell’ospedale, ” segregati ” e chiamati Numero 1 di Covid19….), della malattia e della morte. Anche il neoliberismo di cui parla Marina sembra che sia offuscato- rimane la radice di tutti i mali…- perchè ora siamo essenzialmente attenti a seguire le procedure volte a dirigere i comportamenti ( State a casa, isolamento sociale, le mascherine che ti proteggono, le mascherine che proteggono gli altri…). Non è un problema urgente quello di definire, ora, il potere come una ” tecnica” che opere attraverso strategie di controllo, ma ci siamo, come ci ha preannunciato Nicola, siamo giunti nei nostri vissuti e con le nostre paure a tenere in conto la biopolitica di Foucault. Paola.
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Non trovo del tutto corretto prendersela con il neoliberismo, altri paesi UE hanno ben altre risorse di quante ne abbiamo noi, e, certamente, non si può dire che non siano democratici o “globali”. Penso che da noi il “liberismo” e la “globalizzazione” si siano ben sposati con una classe dirigente infetta dal virus delle tante mafie del nostro paese, nonchè malata di incompetenza. Tutti fattori che contribuiscono, all’unisono, a bruciare risorse finanziarie ed umane. Come ho scritto nel mio articolo di qualche giorno fa, per superare queste crisi occorre un elevato grado di resilienza che un paese “al limite” non è pensabile, ciò ci obbliga a considerarci il paese dello “speriamo che ce la caviamo”. E siamo fortunati, molto fortunati, che per ora il virus non ha deciso di procrearsi al sud.
Suppongo che stasera sentiremo i vertici della ASL RM4 dire che i protocolli sono stati osservati e che tutti hanno (al presente) i DPI, ma forse in un impeto di trasparenza diranno che “i presidi nei primi momenti non c’erano ed il personale ha lavorato senza protezione”. Non credo che lo diranno, vedremo, ma certo non credo ci sarebbe da scandalizzarsi, visto che non sarebbe certo una esclusiva del San Paolo, sarebbe un ammettere deficienze provvisionali come accaduto in ogni ospedale non specialistico. Non per nulla al Cutugno nessun caso e credo neppure allo Spallanzani o quasi. Ma si sa si cerca sempre di difendere la propria posizione, anche quando non ce ne sarebbe bisogno, si può sempre scaricare le responsabilità sulla regione e la regione sul governo ed il governo sulla UE… Non sono certo di oggi le criticità del San Paolo.
Insomma, non sono certo un fan del liberismo, ma non posso evitare di porre il problema della dirigenza del paese poichè il nostro liberismo è lo stesso che c’è nei paesi che troppe volte invidiamo o, se vogliamo, ci costringono ad invidiare, al di la della contingenza attuale.
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Grazie Enrico, perché nel tuo scritto trovo un senso per quello che sta accadendo, una spiegazione disincantata, una narrazione onesta. In aggiunta, indichi la strada che le politiche sanitarie non potranno non prendere, sperando di riuscire a superare rapidamente la dissennata impronta liberista che per troppo tempo ha costretto un sistema entro confini colpevolmente angusti. Credio che il foucaultiano esercizio del potere, da ora in poi, troverà un contrasto forte è informato, che saprà far brillare di nuovo l’art. 32 del dettato costituzionale.
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Tanti malati sono deceduti a casa e anche medici di famiglia, ancora grazie, Dottore Enrico.
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