2020: un anno distopico

di SIMONETTA BISI ♦

Il 2020: una data strana, che è sempre stata piena di una sorta di significato mitico. Nei libri di fantascienza, nella cultura pop, nella saggistica, il 2020 era il momento in cui avremmo dovuto raggiungere un mondo migliore. Pace sulla terra, macchine volanti, vite felici, assistenza sanitaria dignitosa, trattamenti di estensione della vita, molto per tutti.

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E ora che ci siamo arrivati, questo 2020 è … distopico Un po’ da incubo. E lo è stato fin dalle prime settimane: un continente in fiamme, gli incendi australiani indomabili hanno raggiunto il Sud America.  È l’Amazzonia che brucia. Inondazioni in gran parte dell’Asia. La Gran Bretagna abbandona i suoi migliori amici e vicini senza una buona ragione. L’Artico si scioglie, la temperatura lì è mite come a Milano in un giorno di primavera, i ghiacciai si staccano, l’oceano si innalza….

E poi, come se tutto questo non bastasse: la pandemia. E un mondo intero messo in quarantena.

Una catastrofe.

Che cos’è una catastrofe? Il termine, nel senso della teoria matematica (René Thom), specifica la Treccani, vuole significare un brusco cambiamento della struttura dell’evoluzione di un sistema (ossia della sua traiettoria) come risposta a un piccolo cambiamento del valore dei parametri (cioè condizioni esterne). Esistono cioè delle condizioni iniziali (instabili), per le quali non è possibile prevedere se il risultato sarà 1 o 2. In questi casi, si dice che il sistema è in condizioni “catastrofiche”, nel senso che una piccola variazione delle concentrazioni iniziali in una direzione o l’altra, può comportare fortissime differenze sui risultati finali. La scoperta di René Thom è che il passaggio da una condizione iniziale (equilibrio 1) a un’altra condizione (equilibrio 2) è indipendente dal fenomeno analizzato, sia esso fisico, chimico, biologico, linguistico, storico, psicologico o altro ancora.

In termini più descrittivi possiamo pensare alla catastrofe come una discontinuità rispetto a una linea di tendenza. Questo può capitare quando si dà per scontato un fenomeno stabile da molto tempo e all’improvviso, in un tempo relativamente breve, subentra qualcosa che sconvolge ciò che si dava per scontato.

Una rottura improvvisa, una trasformazione rapida, una curva che si spezza, una linea su un grafico che all’improvviso cambia direzione, sono segnali di una catastrofe che di solito comporta effetti esponenziali e conseguenti reazioni a catena.

Un terremoto, uno tsunami, un tracollo finanziario.

Un virus.

Pensiamo al Covid 19 e alla pandemia che ha scatenato, e in cui stiamo vivendo. Un virus, un piccolissimo essere quasi grazioso – nota Ilaria Capua descrivendolo – è in grado di modificare il mondo. Ci infetta ogni giorno, si espande, attraversa il continente, lo supera si fa largo, l’onda d’urto raggiunge l’economia che subisce uno shock al momento non quantificabile ma di certo notevole, le persone si scoprono inermi e senza armi verso questo nemico invisibile. Se ci avessero detto solo qualche mese fa che gran parte dell’umanità in tutto il pianeta sarebbe rimasta bloccata a casa, a innervosirsi a vicenda, piena di paura e terrore, con bar, ristoranti, fabbriche… tutto chiuso, tutto inaccessibile, non ci avremmo creduto.

Sono cambiate le abitudini di vita. Le città svuotate dei cittadini sembrano uscite da un film di fantascienza, e si fa fatica ad accettare che niente sarà più come prima. Segnalazioni e indicazioni contrastanti hanno reso difficile a funzionari governativi, leader e datori di lavoro prendere decisioni che possano proteggere le persone minimizzando l’impatto sull’economia.

La velocità del cambiamento è tale che le nostre capacità di assimilazione, di elaborazione, di adattamento cognitivo ed emotivo non riescono a tenere il passo: tutto cambia e cambia troppo velocemente. E questo vale sia per i singoli individui sia per l’intera società sia per chi ha il compito di combattere questa guerra, una guerra mondiale “perché è il virus che rende l’intero mondo un’unica popolazione attaccata e inerme…La guerra che come sempre smembra le famiglie, ma questa volta perché rende i fratelli sospetti ai fratelli” (Ezio Mauro, Repubblica, 21.03. 2020, p.33).

Per questo le nostre risposte sono state troppo lente, e per lunghe settimane si è lasciato che il virus si espandesse in modo esponenziale pensando che sarebbe andato tutto bene, frastornati dalla discontinuità improvvisa dei dati per quella che si riteneva una un po’ più virulenta influenza.

È umano. È difficile credere che quello che sentiamo alla televisione, quella tragica enumerazione di nuovi positivi, e di nuovi morti, che proseguono a fare impennare la curva statistica ancora lontana dalla possibile identificazione del punto di massimo, stia accadendo realmente.  

Forse proprio questa riluttanza della nostra capacità cognitiva ed emozionale ad accettare un fenomeno inaspettato, veloce e subdolo ha contrastato la ragionevolezza della necessità di non uscire di casa.  I più giovani per l’incoscienza irresponsabile dell’età, gli anziani perché ne avevano già passate tante, quanto volete duri questa…

Questa visione ottimistica si sbriciola ogni sera di più davanti ai numeri quotidiani nel bollettino serale, alla fila di bare incontenibile nei cimiteri, agli allarmi che arrivano dagli altri paesi europei, e non solo. Ascoltiamo i telegiornali, consultiamo i social nell’attesa dell’arrivo di quel valore da cui la curva comincerà a invertire il tasso incrementale e che per ora rimane soltanto un desiderio. Forse in Italia qualcosa si avverte, un segnale, ancora debole, di diminuzione dei nuovi contagi e delle morti, mentre la Spagna affanna davanti all’aumento che sembra ancora in fase esponenziale. Appiattire la curva è vitale per garantire che il maggior numero possibile di persone che vengono infettate dal coronavirus e necessitano di cure mediche, le possano avere.

Dobbiamo aspettare, ci dicono gli scienziati, anche essi impreparati e confusi, dobbiamo aspettare il rafforzarsi dei dati per potere prevedere in termini probabilistici l’andamento della curva, la sua discesa più o meno rapida: seguirà il percorso della logistica, che dopo una crescita quasi esponenziale, rallenta, diventando quasi lineare, per raggiungere una posizione asintotica dove non c’è più crescita? Oppure, trovati farmaci e vaccino, la curva precipiterà rapidamente…

Siamo tutti sulla stessa barca, anche se sono gli anziani e le persone più fragili quelle più esposte. Per il momento, ognuno di noi individualmente dovrà trovare il modo di far fronte a più livelli con stress, paura e isolamento, cercando nel contempo di rimanere a galla finanziariamente, il che per alcuni non sarà facile.

Adattarsi al cambiamento è importante.

Pensiamo al valore del silenzio, che per la maggior parte di noi ci costringe a confrontarsi. Ci fa anche paura il silenzio, perché lo equipariamo all’insignificanza. Vogliamo essere ascoltati, vogliamo essere rilevanti agli occhi dell’altro. Ci affacciamo ai balconi per salvare il contatto, usiamo Skype o altri social per guardarci negli occhi, cerchiamo di contrastare l’assedio del virus cantando, consolandoci con #vinceremonoi, #tuttiacasa e simili. Ma questo forzato ottimismo col passare dei giorni si smorza, diventa una stonatura, si muta in preghiere, in candele accese, in un minuto del mondo da passare in silenzio. Perché troppe persone muoiono, e muoiono malamente: senza la vicinanza di un famigliare, di una persona che possa tenerti la mano, senza un funerale: è l’emergenza.

Non siamo preparati, nessuno l’aveva previsto.

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Una domanda sorge spontanea: davvero non è possibile prepararsi a un evento del genere? Esiste un modo per prepararsi a essere impreparati? Per evitare di rimanere paralizzati e intrappolati nell’ansia e nello sconforto?

Solo negli ultimi due decenni, abbiamo avuto due precedenti pandemie SARS e MERS. Potevamo prepararci alla possibilità del Coronavirus, potevamo pianificare cosa fare nell’eventuale diffusione di una simile malattia a livello globale. Avremmo dovuto credere alla possibilità di una nuova pandemia globale come a un’eventuale inevitabilità. Invece nessuna società al mondo ha riconosciuto una cosa del genere, dalla Cina all’America, dalla Gran Bretagna all’Europa.

Se ci pensiamo, imprevisti di questo tipo esistono da quando nel nostro mondo di umani sono entrati gli animali: la peste flagellò gli uomini del neolitico, e da allora varie epidemie hanno caratterizzato periodi storici catastrofici, fin ad oggi con questo ultimo microscopico invisibile virus che ha fatto un salto di specie, dal pipistrello all’uomo. Come ha spiegato per noi profani Ilaria Capua, ci troviamo di fronte a un “fenomeno epocale paragonabile alla peste bovina che nell’uomo diventò morbillo. Questo virus è stato portato dalla giungla nelle megalopoli e attraverso gli aerei si è diffuso in un modo non previsto dalla natura”.

Una delle caratteristiche che distingue una vera catastrofe da una semplice crisi è che i nostri vecchi modi di affrontarla, gestirla – forse persino sopravviverle – non funzionano. Una catastrofe è un evento che richiede immaginazione, audacia e coraggio. Dobbiamo lasciarci alle spalle il vecchio e inventare nuovi modi di vivere, lavorare e prosperare insieme, ancora una volta.

E questo sia per i governi e le istituzioni, sia per gli individui.

Non ci si può più rifugiare nell’inconsapevolezza. Le giornate non sono più governate dalla fretta, dal “fare”, ora c’è tempo per pensare, per ascoltare le proprie emozioni, per soffrire ed essere solidali. Anche la macchina dell’odio ha rallentato perché l’esposizione al virus ci accomuna, il Covid19 non bada alle disuguaglianze. Pensa solo a se stesso. Vuole invaderci, assoggettarci, eliminarci.

Per questo parliamo di guerra. Una guerra diversa, per la quale ancora non disponiamo di armi.  Una guerra che può essere gestita solo da azioni collettive nuove, azioni radicali e trasformative, senza timidezze. Non è tempo per la medietà, per i compromessi, per scelte annacquate che minerebbero la fiducia nelle istituzioni e nei leader.

Ho parlato di catastrofe facendo riferimento alla teoria di Thom perché si riferisce a qualsiasi transizione discontinua che si verifica in un sistema in grado di assumere più di uno stato di stabilità o che può seguire più di un processo stabile di trasformazione. Il “salto” catastrofico è un passaggio repentino da uno stato ad un altro, o da un processo ad un altro, con cui un sistema assume una nuova forma irreversibile. Il cambiamento avviene in un arco temporale molto più breve rispetto al tempo impiegato dalle trasformazioni minime degli stati più stabili. Una volta avvenuta la catastrofe, il sistema si trova in un nuovo stato, su un altro piano, e non rimane più niente di ciò che vi era prima, in quanto anche le cose che restano intatte, dopo la catastrofe vengono viste con occhio diverso.

Il mondo come lo conosciamo è finito. Stiamo imparando cosa significano “rischio esistenziale” e “collasso della civiltà”. Le scorte stanno crollando, la produttività sta diminuendo, le persone stanno fermando il loro consumo di merci e trasporti, e l’economia in genere sta precipitando.  

Per vivere una catastrofe bisogna mantenere ottimismo e calma per impedire di essere sopraffatti dall’ansia e dalla paura.  Non saremo mai abbastanza preparati, prendiamo coscienza di questa consapevolezza. È positiva, consente di riflettere, di trovare spazi per pensare e programmare. Espandiamo qualità come coraggio, saggezza, verità e solidarietà. Riscopriamo fiducia e ragionevolezza. 

Il Covid19 sta costringendoci a innovare velocemente. Le lezioni che non erano online sono diventate immediatamente online. Il lavoro dove possibile si è trasformato in Smart Working, la ricerca sta ottenendo finanziamenti e lavora a tutto regime, nuove figure professionali sono necessarie, medici e infermieri sono la risorsa di un paese e la sanità pubblica riscopre il suo ruolo di essere “per tutti”, la difesa della salute dei cittadini è prioritario a qualsiasi business. Poi si vedrà.

In questi giorni, quando guardiamo il mondo, lo stato delle idee, della politica, dell’economia, c’è una domanda che non viene posta: che tipo di futuro dovremmo desiderare per noi, per il nostro paese, e per tutto il pianeta?

C’è solo un modo di dare un senso a questo disastro, ed è capire che quando ci dicevano “non c’è alternativa” non era vero. Abbiamo messo sottosopra un paese per affrontare il virus. Dall’estate dobbiamo farlo per cambiare un sistema al collasso (vds. L. Marsili, https://www.che-fare.com/marsili-crisi-coronavirus-economico/?print=pdf) .

Siamo a un punto di svolta, dobbiamo illuminarci, e preparaci a piani accurati per salvare le persone e le economie, per prevenire la diffusione ed evitare ricadute non solo del Covid 19, ma anche del collasso ecologico, se non si mettono in campo misure in grado di tenere sotto controllo il cambiamento climatico. Potrebbe essere un’occasione per prendere finalmente in mano le grandi sfide del nostro tempo e cambiare tutto. Mettiamo al primo posto grandi progetti di civiltà e di progresso, sopra e prima di cose come piacere, autocompiacimento, guadagno e vantaggio. Lasciamoci alle spalle quel neoliberismo che ha fatto esplodere vecchi legami sociali, comunità, città, stili di vita per sostituirli con transazioni di mercato, senza portare sicurezza, stabilità o mobilità verso l’alto. 

Ci riusciremo? Me lo auguro. Siamo risorti dopo una tragica seconda guerra mondiale che ci aveva ridotto in cenere, in poco tempo ci siamo rialzati passando dal nulla ad alti standard di vita.

L’Europa, che ha fatto da incubatrice a un’idea universale di civilizzazione, che ha fissato la tavola dei diritti dell’uomo, sviluppato l’etica della responsabilità, coltivato l’arte e la conoscenza come beni comuni, oggi può ritrovare se stessa. Può rinnovare i legami sociali, riscoprire la forza dell’essere uniti, può farlo in questi tempi disperati. 

Un altro segnale ci viene dall’Onu. Anche se non sappiamo in quanti e chi lo seguirà, il segretario generale delle Nazioni Unite ha chiesto un cessate il fuoco globale immediato. “È tempo di bloccare i conflitti armati e concentrarsi sulla vera lotta delle nostre vite”.

Se siamo fortunati, e lo saremo, le quarantene e le limitazioni della nostra libertà diminuiranno tra qualche mese, forse tra un anno. Sta a noi utilizzare questo tempo per pensare.

Lavoriamo duramente per immaginare e creare un nuovo mondo. Usciamo dal “cronico sonnambulismo morale” per un benefico travaglio perché “… Soltanto l’ardente pazienza/ porterà al raggiungimento/ di una splendida felicità”, frase con cui Martha Medeiros chiude la sua bella poesia “Lentamente muore…”.

E se questa è utopia, ben venga.

SIMONETTA BISI