Il virus e quelli che lo sconfiggeranno
di NICOLA R. PORRO ♦
Da non pochi anni mi occupo professionalmente di sociologia dello sport e di problematiche connesse: politiche sociali, strategie di welfare, salute come bene comune. Appartengo anche ad alcune associazioni di studiosi che si occupano di tali materie, sia a scala nazionale sia internazionale. L’Associazione italiana di sociologia (Ais) è organizzata in sezioni tematiche e i miei interessi ricadono in quella dedicata alla salute e alla medicina. La comunità scientifica con la quale ho il privilegio di comunicare è comprensibilmente mobilitata in queste settimane attorno alla drammatica emergenza rappresentata dall’epidemia di coronavirus. Compito dei ricercatori è soprattutto quello di aiutare a comprendere e definire al meglio possibile la questione che ci minaccia nella speranza di portare un contributo alla battaglia comune.
Metto in fila le questioni che rimbalzano più di frequente fra noi, sulle pubblicazioni specializzate e anche sui media di informazione.
La questione delle questioni è: perché proprio l’Italia?
Segnalo i punti di convergenza relativi all’analisi del caso: (i) siamo, insieme al Giappone, il Paese con la più alta percentuale di popolazione anziana al mondo ed è ormai evidente che l’epidemia colpisce più facilmente e più frequentemente le fasce più fragili per l’età o per patologie debilitanti; (ii) abbiamo un’elevata densità demografica: quasi la stessa popolazione della Francia per una superficie che è meno della metà. Tutte le epidemie si diffondono più facilmente in contesti altamente urbanizzati e popolosi; (iii) siamo un Paese con un intenso volume di scambi con l’Europa e con il mondo globalizzato a più vasta scala. Gli scambi commerciali e il turismo di massa fanno dell’Italia un bersaglio ideale per questo genere di contagio; (iv) siamo una democrazia parlamentare che non consente l’esercizio di un “potere sovrano” di intervento e controllo paragonabile a quello dei Paesi in cui il comando è concentrato e più facilmente esercitabile con strumenti autoritari.
Non è dunque affatto causale che le regioni più colpite siano proprio quelle economicamente più sviluppate, più urbanizzate e che intrattengono relazioni molto intense con l’estero. Nelle ore recenti il trend di crescita esponenziale dei contagi nella vicina Germania segnala, a ulteriore conferma, somiglianze impressionanti: gli indicatori di sviluppo del contagio (positivi, sintomatici, guariti e deceduti) registrati al 9 marzo in Germania equivalgono esattamente a quelli segnalati in Italia dieci giorni prima, il 29 febbraio. Significa che in contesti simili – anche in Germania l’epicentro è rappresentato dalle regioni industriali e e dai poli metropolitani – il virus produce effetti sanitari e indirettamente sociali del tutto analoghi. Non siamo un’anomalia, siamo piuttosto (e purtroppo) un caso battistrada.
A incidere sono dunque cause strutturali, come la morfologia demografica, ma sicuramente anche fattori legati all’organizzazione sociale e alla qualità dei servizi. In anni recenti l’Organizzazione mondiale della sanità, sulla base di indicatori socio-statistici rigorosi, ha giudicato il nostro sistema sanitario nazionale come uno dei tre migliori al mondo. E’ però probabile che le politiche di contenimento costante della spesa pubblica, il dirottamento di risorse verso obiettivi aggregatori di consenso elettorale (80 euro, quota cento, reddito di cittadinanza ecc.) a scapito degli investimenti in sanità e istruzione, l’insensata limitazione degli accessi alle facoltà mediche, abbiano negli ultimi anni compromesso in parte le capacità di reazione del sistema a emergenze non previste anche se non imprevedibili.
Per onestà intellettuale occorrerebbe però anche rovesciare il ragionamento: cosa sarebbe potuto accadere se il presidio del sistema pubblico non avesse comunque fatto fronte? Se non avesse arginato, per quanto operativamente possibile, una situazione drammatica e resa più incerta dall’assenza di una catena di comando univoca? Se l’abnegazione della prima linea dei professionisti, delle reti di volontariato e dei cittadini responsabili non avesse sopperito come poteva alle conseguenze degli irrazionali cedimenti alla retorica del falso federalismo imperante a partire dagli anni Novanta? In assenza di una univoca catena di comando, affidata a poteri certi e competenze specialistiche, il sistema avrebbe retto a un urto devastante senza la dedizione e talvolta l’abnegazione di medici e personale sanitario? Sottolineo questi aspetti non per retorica o per amore di polemica ma perché a mio parere aiuta a sgomberare il campo da divagazioni antropologiche e retoriche autodenigratorie prive di consistenza. Si sta dimostrando che il sistema Paese regge a qualunque emergenze se sa mobilitare quelle energie sane e ancora vigorose che hanno resistito, con tenacia e coraggio, a un’offensiva ideologica che da due decenni i populismi di ogni matrice hanno preso a bersaglio. Criminalizzare le competenze, ignorare o disprezzare il ruolo cruciale dei corpi sociali intermedi, contrabbandare leggende metropolitane per argomenti scientifici (si pensi al terrorismo no-vax), propagare un senso comune fondato sull’opposizione permanente amico/nemico a scapito del principio di solidarietà: sono campagne di lunga durata e a lunga gittata che avrebbero piegato Paesi e culture sociali più solidi del nostro. Quello che conforta e che dà speranza è che il Paese migliore, quello dei veri patrioti, sta malgrado tutto sin qui supplendo ai tanti fattori di criticità. A beneficio di tutti perché tutti siamo a rischio e perché l’universo della solidarietà non distingue fra amici e nemici. In questi momenti un Paese deve identificarsi in una comunità: come in guerra, dicono gli anziani. Osservo: peggio che in guerra. Perché in guerra conosci il nemico, individui le forze in campo e le linee di demarcazione del rischio, disponi di ferree linee di comando, forze e strumenti sperimentati, impari più rapidamente le tecniche di difesa e di resistenza. Eppure anche questo nemico invisibile, figlio degenere della globalizzazione, non è invulnerabile. Lo sconfiggerà l’altra globalizzazione: quella dei saperi, della comunicazione senza frontiere e della scienza a raggio planetario. Se vinceremo questa battaglia – e la vinceremo -, sarà grazie ai nuovi patrioti del mondo globale. Quella presenza generosa e molecolare impegnata, in Italia e non solo, a diffondere il virus virtuoso della conoscenza e della solidarietà.
NICOLA R. PORRO
Caro Nicola, sto facendo in questi giorni una riflessione che si avvicina ai contenuti espressi in questo tuo bell’intervento. Ho l’impressione che questa vicenda stia creando una nuova coesione sociale, una qualche forma di comunità solidale in netto contrasto con il clima culturale e sociale di qualche settimana fa. Il fatto stesso che abbiamo unificato le norme e i divieti a tutto il paese stabilisce una uguaglianza di tutti i cittadini, così da cancellare le immagini di pochi giorni prima dei fuggitivi da Milano. Lo stare tutti sulla stessa barca esprime un bisogno di fare comunità, di reagire tutti insieme, di fare squadra e insomma di sentire che solo tutti insieme se ne può uscire fuori. Non ho vissuto l’immediato dopoguerra, ma, fatte le debite proporzioni in termini di morti e disperazione, credo che in qualcosa di simile possa ricordarlo. Sono altresì convinto che i contagi di uomini in qualche modo potenti o di potere (Zingaretti, il Presidente della regione Piemonte) contribuiscano ad una collettiva identificazione di rischio senza protezione di casta, senza privilegi, a rafforzare il sentirci vicini contro un nemico comune. Paradossalmente la regola principale che viene continuamente raccomandata, quella di stare a debita distanza, di allontanarci e chiuderci in casa, di isolarci fisicamente, si sta rivelando un potente fattore di coesione sociale. Per il resto hai ragione i nuovi partigiani sono nelle terapie intensive e nei Pronto Soccorso degli ospedali: vinceremo anche questa guerra di liberazione!
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Grazie del contributo. Mi pare interessante e giusto indagare la dimensione sociologica della vicenda che stiamo vivendo. L’augurio è che questa vicenda serva almeno a restituire il senso e il valore del capitale sociale di una comunità. Al momento è soprattutto un auspicio, ma spesso sono proprio le situazioni di crisi acuta che consentono di ricucire i legami collettivi oppure di tenerne di nuovi.
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