POPULISMO E POPULISTI (IX)
di NICOLA R. PORRO ♦
Il mondo globale e le felpe di Salvini
La maggior parte degli studiosi collega le insorgenze populiste – tanto quelle di destra (sovranismo ed etnonazionalismo) quanto quelle ispirate al qualunquismo digitale – con confusi bisogni di identità e di comunità, che rappresenterebbero una reazione allo spaesamento indotto dalla globalizzazione e più specificamente dai movimenti migratori. Questi processi epocali, sviluppatisi in un arco temporale relativamente breve, avrebbero generato timori in buona misura irrazionali: “diventare stranieri a casa nostra”, subire il racket dell’immigrazione clandestina, pagare con l’impoverimento la concorrenza delle potenze commerciali emergenti ecc. Un’ansia diffusa e una sorta di paranoia latente avrebbero percorso l’opinione pubblica europea, facendo da carburante a campagne populistiche che, come in un circolo vizioso, amplificavano l’allarme sociale per lucrarne benefici elettorali. Il Brexit, l’ondata sovranista coronata dal Patto di Visegrad in Europa orientale e da ultimo il voto italiano del marzo 2018 suonerebbero a conferma della tesi.
Le felpe geolocalizzate ostentate da Salvini in campagna elettorale andrebbero dunque rivalutate come una sagace intuizione propagandistica. Il leader leghista viaggiava con un baule di felpe al seguito (si era ancora in inverno: per le elezioni in periodo estivo ci sono le t-shirt), ognuna delle quali portava impresso il nome di una delle località che avrebbero ospitato i comizi del giorno. Il look geocafonal del leader leghista, ostentato in tutti i tg e le reti locali, è stato il prevedibile bersaglio dell’ironia della sinistra bramina e dei commentatori politici più dotati di senso dell’umorismo. Eppure il messaggio latente veicolato dalle felpe salviniane era tutt’altro che innocuo. A modo suo riconduceva infatti al tema reazionario delle piccole patrie, all’esaltazione dei localismi, al rassicurante richiamo dell’appartenenza contro le minacce della globalizzazione. “Prima gli italiani” e, già che ci siamo, prima ancora degli italiani i cittadini di Induno Olona e di Marostica, di Mondovì e di Lugo di Romagna. E sempre più giù, nella nuova versione nazional-sovranista della Lega, anche di Fossombrone e di Termoli e magari di Nocera Inferiore, di Bagnara Calabra, di Marsala e di Abbasanta. L’universo delle piccole patrie restituito da una felpa all’onor del mondo.
Ma che cosa conferisce efficacia a strategie di allarme sociale anche in assenza di ragioni oggettive che le sostengano? Come mai le campagne giocate sul moral panic si diffondono in Europa soprattutto in aree territoriali e socio-culturali (i Paesi ex socialisti) meno esposte agli effetti dell’immigrazione e della concorrenza commerciale con i competitori extraeuropei? Perché in tutti i grandi Paesi occidentali cresce una sensazione diffusa di insicurezza quando nessun indicatore statistico segnala un’espansione significativa della criminalità, mentre le offensive terroristiche dovrebbero spingere semmai a una sempre più stretta cooperazione fra gli Stati? Le risposte fornite sono articolate e talvolta dissonanti. Tutte convergono però nell’associare l’avanzata populistica alla capacità dei leader di eccitare l’emotività di massa. Argomento da prendere molto sul serio: la storia dei grandi totalitarismi del Novecento insegna come l’impiego di nuove tecnologie comunicative risulti tanto più efficace quando più sono rozzi e primitivi i messaggi che intendono veicolare. Dietro le innocue felpe geocafonal o le mitiche piattaforme telematiche i nuovi populismi replicano la stessa funzione di quelli che li hanno preceduti. Non rappresentano un’ideologia o un sistema coerente di pensiero-azione, bensì l’abito che indossa l’antipolitica quando una società entra in un circuito di tendenziale “anomia” (questione che riprenderemo più avanti). Ciò rappresenta certamente un vantaggio di posizione nella competizione elettorale.
La nostalgia delle piccole patrie o il vagheggiamento di un’anacronistica comunità di destini (magari inscritta “nel sangue e nel suolo”) non rappresentano dunque un mero prodotto di marketing elettorale. Né possiamo accontentarci di addebitare alla manipolazione mediatica, alla post-verità o all’uso diffusivo delle fake news i successi del qualunquismo digitale. Il voto di marzo ha disegnato una morsa che stringe e comprime lo spazio politico della vita democratica italiana. Da un lato il territorio delle piccole patrie, degli umori localistici, delle felpe e della rappresentazione fobica dei processi di globalizzazione, presidiato dalla Lega a trazione salviniana. Dall’altro, lo spazio immateriale della rete, che tutto sa, giudica, condanna e decide tramite apposita piattaforma telematica. Un sistema leninista (il vincolo di mandati per gli eletti? Ma vogliamo scherzare…) costruito dalla Casaleggio & Associati a misura del solipsismo digitale e in funzione delle esigenze elettorali del M5s. In mezzo lingue di territorio dove la sinistra in ritirata difende un residuo spazio di sopravvivenza. Ciò che resta della vecchia politica, peraltro, così vecchio non è: Pd e FI hanno rappresentato sino a pochi mesi fa le forze egemoni della Seconda Repubblica. A cambiare, infatti, sono anche i tempi della politica, sottratti al placido galleggiare della balena bianca, al passo pesante e sicuro dell’elefante comunista e ora anche ai giochi circensi del Caimano. È il tempo scandito dai cinguettii di Twitter, misurato dalle esternazioni di giovanotti di pochi studi saldamente convinti di “fare la Storia”, compresso a misura di un titolo da urlare in apertura del prossimo tg.
Francesco Ronchi ha il merito di consegnare all’analisi una riflessione originale. È la questione della solitudine. Ci ricorda, ad esempio, come dalla fine degli anni Ottanta a oggi, in Italia come negli altri Paesi europei, sia quasi raddoppiato il numero di cittadini che vivono completamente soli. La curva dei divorzi e delle separazioni è di nuovo in forte crescita. Il consumo di psicofarmaci ha conosciuto un aumento esponenziale nell’ultimo decennio. Zygmunt Bauman, teorico della società liquida, aveva intuito già nei primi anni del nuovo secolo la rilevanza sociologica del combinato disposto di crescenti aspettative di vita, che aumentano il peso demografico delle età anziane, e di emarginazione dei più giovani dal mercato del lavoro. Un insieme di fattori correlati che generano bisogni sociali inediti e difficili da soddisfare. La società postindustriale si ammala di solitudine e smarrisce quella cultura della socialità che aveva fatto da incubatrice alla vita politica da metà Ottocento alle ultime decadi del Novecento.
La fabbrica, le scuole e le università, le reti famigliari e di vicinato, la frequentazione di parrocchie, circoli di lavoro o club di élite, persino il servizio militare o la passione sportiva, davano vita a reticoli sociali che orientavano visioni del mondo destinate a incontrare prima o poi la politica, i partiti, i sindacati, la Chiesa e la costellazione delle organizzazioni di massa. Esperienze che producevano significato nella sfera esistenziale degli individui. E che potevano tanto colorarsi di idealità e valori condivisi (la militanza) quanto favorire logiche di convenienza e di scambio (il clientelismo politico), non di rado mescolando gli uni e le altre.
L’idealtipo esemplare di un’élite politica non censitaria è stato a lungo rappresentato dalla classe operaia: il proletariato “evoluto e cosciente” della retorica marxista. Il suo protagonismo, oltre i confini dell’antagonismo costruito nella sfera del pensiero filosofico, si manifestò soprattutto fra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Anni di piena occupazione nel sistema industriale – non ancora automatizzato -, con piccole sacche di precariato e una diffusa percezione del valore sociale del lavoro. La bandiera rossa rappresentava ancora un simbolo di emancipazione: era il colore di chi ti rappresentava e ti difendeva, di chi si prendeva cura della tua dignità e ti chiedeva di lottare per princìpi di uguaglianza. Enunciati che possono apparire oggi obsoleti ed enfatici, ma che corrispondevano al tempo a un vissuto concretissimo. La classe lavoratrice appariva “classe generale” anche agli occhi del ceto intellettuale di estrazione borghese, come gli studenti e i pensatori italiani o francesi nel tempo del ciclo di protesta. Non si trattava soltanto di una fascinazione operaistica, maturata in una sorta di complesso di colpa collettiva, o di una snobistica concessione all’ideologia. Il riscatto della condizione operaia – si pensi ancora a vertenze simboliche come le 150 ore o al ruolo assegnato ai consigli e ai delegati di fabbrica nell’autunno caldo italiano – rappresentava una risposta tangibile alla solitudine dei singoli e alla stessa incipiente “alienazione operaia”, già intravista dalla letteratura sociologica sul post-fordismo. Non per caso fu la stagione intellettuale della riscoperta di Gramsci e quella civica delle amministrazioni locali governate dalla sinistra. Le quali costruivano scuole e ospedali, garantivano una discreta qualità dell’assistenza pubblica e maggiore equità nell’allocazione delle risorse. Era la cultura della sinistra che alzava la bandiera dei beni comuni, che smantellava i manicomi, che ispirava la creazione dei sistemi sanitari pubblici e l’estensione per tutti dei cicli educativi. Sinistra e democrazia marciarono insieme in quei decenni cruciali. Lo fecero, a parere di Ronchi, proprio coniugando e declinando nel lessico della democrazia comunità e identità. Quella dei nuovi populismi costituisce perciò una sorta di appropriazione indebita di queste parole chiave.
È però incontestabile, come scrive Daniele Marini (Fuori classe, Il Mulino 2018), che a distanza di quattro decenni il panorama sociale disegnato dall’industrializzazione è irriconoscibile. Gli operai ci sono ancora, ma è scomparso quell’attore collettivo che chiamavamo, con la dovuta deferenza, classe operaia. Il voto operaio si indirizza in maggioranza ai partiti populisti, il potere ordinativo dell’identità di classe è venuto meno da tempo. Nessuna realistica possibilità di ripristinare quel paradigma culturale e sociale così come si rappresentava alle prime generazioni postbelliche. Guai però a indugiare in astratte mitologie. Ma guai anche a perseguire una parimenti astratta e acritica difesa della globalizzazione. Fra la sfera del locale e quella del globale si producono, non da oggi, tensioni e persino conflitti. Ma assolutizzare l’opposizione fra locale e globale significa congelarne la necessaria dialettica e regalare alla demagogia populista il monopolio di valori e significati ancora vivi, sebbene bisognosi di una coraggiosa rivisitazione.
Il tema della solitudine come fatto intrinsecamente politico suggerisce considerazioni ulteriori. Il demografo francese Hervé Le Bras, in particolare, ha istituito una correlazione stringente fra voto al Fronte Nazionale ed erosione delle reti sociali tradizionali nelle campagne del suo Paese. Nel ballottaggio presidenziale del 2017 i piccoli borghi e i minuscoli paesi delle aree rurali, caratterizzati per secoli da robuste relazioni di vicinato e sentimenti di appartenenza densi, rinforzati da interessi condivisi, amicizie, mutualità e legami di parentela e di lavoro, hanno tributato un plebiscito alla candidata populista Marine Le Pen. La ricerca disegna la mappa di comunità dove nell’arco di un decennio sono via via scomparsi i piccoli empori di villaggio, si è diffuso il pendolarismo, sono quasi sparite le osterie e le sale parrocchiali, si sono svuotati luoghi di ritrovo e sezioni di partito. Il tessuto sociale si è fatto insomma più fragile, come in buona parte delle nostre antiche regioni rosse. Ciò si è tradotto in una crescente permeabilità alla propaganda populista, abile nell’individuare falsi nemici (gli immigrati, le oligarchie finanziarie, l’Europa, la casta) cui addebitare lo sgretolamento dei legami comunitari. Anche dove la cultura civica affonda radici profonde e l’impatto migratorio presenta effetti ridotti, dilaga così la suggestione xenofoba e populistica, mentre il voto alla sinistra – in Francia come in Italia – emigra nei quartieri di ceto medio urbano intercettando fasce di elettorato acculturato e socialmente garantito.
Secondo Le Bras e Ronchi, insomma, non sarebbe qualche nostalgia identitaria o qualche misteriosa regressione al comunitarismo rurale a generare il consenso al populismo. È piuttosto lo strabismo delle sinistre, incapace di riconoscere i segnali di un disagio autenticamente popolare prima che si trasformi in consenso populista e persino di analizzare la ambigua domanda di protezione che proviene dalle urne, a spiegare la deriva politica in atto. Identità e comunità potrebbero invece, secondo questa lettura, rappresentare risorse democratiche, come fu in momenti cruciali della storia europea. A scrivere la Resistenza italiana e il Maquis francese fu il sostegno generoso e talvolta eroico delle comunità contadine e montanare nei mesi della guerra partigiana. La stessa geografia elettorale dell’Italia postbellica nei primi decenni della Repubblica ci segnala uno radicamento del voto al Pci assai più significativo nelle comunità rurali, che avevano conosciuto in anni lontani il regime della mezzadria e più tardi la Guerra di Liberazione, che non nelle maggiori città industriali. Ispirate alla tutela delle comunità locali furono anche, qualche decennio più tardi, le mobilitazioni civiche a difesa dell’ambiente, per i beni comuni o contro la criminalità organizzata. Estendendo il ragionamento, si può aggiungere che anche le tematiche dell’identità sono state sin dagli anni Settanta elaborate o rivisitate in chiave democratica da movimenti di azione civica, massicciamente orientati a sinistra, che promuovevano i diritti delle donne, delle minoranze, degli omosessuali.
La sinistra contemporanea ha dunque l’obbligo di un esame di coscienza. Nella Grecia al collasso erano i presìdi dei fascisti xenofobi di Alba Dorata a organizzare ambulatori da campo e mense per gli abitanti dei quartieri disagiati di Atene e di Salonicco. Il Front National francese o il movimento dei Veri Finlandesi gestiscono estese reti di mutualità e di assistenza gratuita a beneficio dei “compatrioti abbandonati”. Persino il miliardario populista Trump ha trovato ascolto fra i dimenticati della modernizzazione (i “forgotten men”). La Lega, protagonista nel marzo 2018 di una spettacolare avanzata nelle regioni rosse, vi aveva costruito propri avamposti già una ventina di anni or sono cavalcando la protesta contro l’accorpamento nelle ASL dei piccoli centri sanitari territoriali. In qualche modo si era così accreditata come una forza vicina alle comunità e fieramente antagonistica rispetto alle “tecnocrazie rosse”, che pure avevano dato il più delle volte prova di una gestione efficace delle risorse pubbliche. Sono dati di contesto che possono utilmente introdurre una riflessione di profilo sociologico che coniughi riferimenti ai classici e dovuti aggiornamenti.
NICOLA R. PORRO
Interessante il tuo riferimento alla solitudine come patologia della società post-industriale. Un sentimento di paura, in questo caso irrazionale, paranoico viene ad essere rielaborato e razionalizzato più facilmente se si è parte di una comunità che ti offre in qualche modo protezione, solidarietà, forse anche solo ascolto. Ovviamente i movimenti che oggi vincono fidelizzano il loro elettorato non creando una comunità consapevole dei propri diritti, matura, dialogante con l’Altro, ma semplicemente alimentando la paura, il rifiuto paranoico dell”Altro (reazioni psicologiche di proiezione) e quindi in ultima analisi favorendo il processo disadattativo. Sarebbe interessante sapere l’orientamento politico di coloro che operano nelle grandi associazioni di volontariato presenti nel nostro paese capillarmente, che sono a contatto con la realtà quotidiana e fanno un enorme silenzioso lavoro, non solo di aiuto sociale, ma anche di ricostruzione di una rete di rapporti umani oggi purtroppo quasi ovunque lacerata.
Forse questa è la strada per ricominciare daccapo.
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Vorrei dire qualcosa sul tema “solitudine”. Proprio in questi giorni facevo una riflessione sul fatto che non ho mai incontrato il mio dirimpettaio, forse una sola volta, benchè sia già da tempo subentrato a chi c’era prima. Idem per l’inquilino del piano di sopra. Dunque la vita comune fatta di alzarsi, lavarsi, caffè e lavoro, per poi riertere tutto al contrario verso sera, pare sottrarci il tempo necessario per potersi “incontrare. Nei giorni di festa profittiamo per fare le spese nel centro commerciale… e quindi non ci si incontra neppure la domenica. Ciò detto penso che abbiamo poco tempo libero, non abbiamo tempo di relazionarci con altri che non siano i colleghi di lavoro. E vale sia per il marito che per la moglie anche lei spesso lavoratrice. Non avere il tempo e/o la possibilità economica di creare una famiglia con un paio di figli, di curarne la vita e lo sviluppo, ci impedisce, penso, di avere coscienza di altri mondi diversi dall’ambiente di lavoro e dalle mura domestiche. L’assenza cioè di un congruo tempo libero, ci impedisce di avere consapevolezza della realtà che ci circonda, ci mette una sorta di scafandro che ci isola dalla società, ci impedisce di socializzare e, di conseguenza, non ci restituisce una visione della società più aderente alla realtà, e ci rende più deboli, in quanto orfani della rete sociale che ci protegge. Scusate se tiro in ballo sempre la Germania… (almeno in quella parte) mi dicono che il tempo libero sia “sacro” e dedicato alla famiglia ed ai rapporti sociali. La domenica è tutto chiuso, solo il pane è acquistabile sino alle dieci del mattino. Anche nel lavoro pare sia difficile che gli staordinari vengano pagati, si tende a farli recuperare poichè si ritiene di evitare che si passi troppo tempo nel lavoro togliendolo al riposo ed altre attività. Si potrebbe forse ipotizzare che la riduzione del tempo libero riduca il tempo dedicato alle relazioni sociali e quindi al sentirsi parte di un tessuto protettivo che si sente “proprio”, ci fa cioè sentire più deboli e quindi vittime di adescatori. Credo che l’aspetto “tempo libero” sia tut’altro che marginale nella considerazione di questi meccanismi. Anche l’integrazione dei migranti ha bisogno del tempo libero, ha bisogno, magari, di una moltiplicazione dei posti di lavoro , forse anche tramite la riduzione dell’orario.
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Scrivo queste mie considerazioni partendo dall’analisi sulla solitudine riportata in questo articolo. Ho notato che alcuni hanno ripreso questo argomento, per fortuna, perchè sono persuasa che sia una delle conseguenze nefaste della civiltà del Web.
Quando nei precedenti scritti ho proposto di fare un “Cenacolo del confronto “ e cioè l’incontro fisico, reale, con le persone è perchè sono perfettamente consapevole che la solitudine davanti al Computer non ci rende più liberi di esprimere il nostro pensiero.
Forse ci incita a ricercare sempre un antagonista, un soggetto da subissare spesso con insulti e minacce , come a volte succede su facebook , ma sicuramente non stimola la responsabilità del confronto. La tolleranza e l’ascolto, che spesso viene praticata nelle associazioni di volontariato, con le quali sono orgogliosa di collaborare, è si una parte importante della nostra società ,ma spesso non trova riscontro nelle istituzioni burocratizzate e insensibili alle istanze presentate. Il volontariato sociale spesso affoga nella difficoltà di realizzare i propri progetti perchè i fondi sono difficili da reperire, pur avendo un’Europa che ne rilascia a piene mani. Per non parlare del variegato mondo dell’associazionismo culturale che tenta di sopravvivere con i contributi volontari dei propri soci creando piccoli corpuscoli spesso in lotta tra loro.
Capisco che la solitudine non è solo personale, è anche di un ceto medio ed operaio che non si ritrova più, né si riconosce , spazzato via anche dai populismi , e in questo Tzunami , risulta difficile e complicata l’elaborazione di idee e la formazione di una nuova classe politica dirigente che parta dalla propria onestà ed integrità.
Marina Marucci
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