La debolezza degli uomini.
di ROBERTO FIORENTINI ♦
Il numero dei femminicidi che non accenna a diminuire è un fenomeno che merita di essere indagato. La parola femminicidio, diciamolo pure, è davvero brutta ma ha l’innegabile pregio di essere diretta, chiara , persino brutale. Indica l’omicidio di una femmina , una donna, una ragazza, da parte di un maschio, di un uomo. Non prevede mediazioni. Indica quando un uomo uccide una donna con la quale si hanno legami sentimentali o sessuali. E basta. Lo scorso anno le vittime di femminicidio sono state 120. Ogni due giorni una donna è vittima di questo reato. Inoltre, in Italia, sono ben sette milioni le donne che hanno subito qualche forma di violenza, nel corso della loro vita, senza arrivare a perdere la vita. E proprio il femminicidio, l’uccisione di una donna con la quale si hanno legami sentimentali o sessuali, rappresenta la parte preponderante degli omicidi contro il genere femminile. Più dell’82 per cento dei delitti commessi a scapito di una donna, nel nostro paese, sono classificati come femminicidi. Un numero gigantesco: oltre quattro su cinque. Il rapporto che lega la vittima e il suo carnefice è nel 55,8 per cento dei casi di natura sentimentale, con una relazione in atto al momento dell’omicidio o pregressa. Il 63,8 per cento evidenzia che la vittima e l’autore sono coniugi o conviventi, il 12 per cento fidanzati e il 24 per cento aveva intrattenuto una relazione sentimentale (matrimonio o fidanzamento) terminata prima rispetto all’omicidio. Nella maggioranza dei casi infatti la vittima è italiana, solo nel 22 per cento dei casi è straniera, con una larga maggioranza proveniente dall’est Europa.
Lo stesso dato emerge per quanto riguarda il carnefice. Il 74,5 per cento degli assassini hanno nazionalità italiana. Più tortuosa è la ricostruzione del movente: quasi sempre la causa è legata a gelosia e possessione nei confronti della vittima. Spesso, alla base dei dissidi ci sono motivi economici.
In alcuni episodi l’uomo uccide la donna perché preferisce la sua morte al mantenimento della relazione o per timore dell’eventuale scoperta di adulterio. Quanto più la donna cerca di affermarsi come uguale in dignità, valore e diritti all’uomo, tanto più l’uomo reagisce in modo violento. La paura di perdere anche solo alcune briciole di potere lo rende volgare, aggressivo, violento. (Michela Marzano su La Repubblica) Grazie ad alcune inchieste sociologiche, oggi sappiamo che la violenza contro le donne non è più solo l’unico modo in cui può esprimersi un pazzo, un mostro, un malato; un uomo che proviene necessariamente da un milieu sociale povero e incolto. L’uomo violento può essere di buona famiglia e avere un buon livello di istruzione. Poco importa il lavoro che fa o la posizione sociale che occupa. Si tratta di uomini che non accettano l’autonomia femminile e che, spesso per debolezza, vogliono controllare la donna e sottometterla al proprio volere. Talvolta sono insicuri e hanno poca fiducia in se stessi, ma, invece di cercare di capire cosa esattamente non vada bene nella propria vita, accusano le donne e le considerano responsabili dei propri fallimenti. Progressivamente, trasformano la vita della donna in un incubo. E, quando la donna cerca di rifarsi la vita con un altro, la cercano, la minacciano, la picchiano, talvolta l’uccidono. Cosa succede nella mente degli uomini che arrivano ad uccidere una donna che amano ( o che hanno amato ) ? Quale meccanismo arma la mano di persone spesso assolutamente ordinarie, normali, il nostro vicino di casa, il nostro conoscente, uno come noi ? Certamente questa violenza è figlia di una cultura che nonostante decenni di femminismo, emancipazione, liberazione, pari dignità e pari opportunità continua a considerare la donna una proprietà privata del maschio. “Qualcosa” che gli appartiene e sulla quale può esercitare un potere e un diritto assoluti, magari con la scusa di non essere stato capito, di non volerla perdere, di amarla troppo. Ma questa spiegazione, a mio parere non basta. Credo che questa violenza assoluta, cieca ed insensata sia il sintomo di una indiscutibile debolezza dell’uomo, che ritiene di aver perso il suo ruolo centrale nella società. Che non accetta che la donna possa considerarsi suo pari, talvolta suo superiore, certamente in grado di bastare a sé stessa, di essere in grado di fare da sola. Pensiamo a come, fino a una cinquantina di anni fa, veniva considerata una donna sola , non sposata. Esisteva un termine: zitella. Declinato solo al femminile, zitello non si usava. Non c’era una parola per indicare un uomo solo, non sposato. Anche se difficilmente l’uomo sapeva cavarsela da solo. Se non si sposava restava a casa, con la mamma che gli stirava i calzoni e gli preparava la cena. Oggi la parola zitella non esiste più. E le donne hanno imparato a cavarsela benissimo da sole. Gli uomini ancora no. Le donne sono diventate sempre più forti, a furia di beccare mazzate. Gli uomini, invece, sono sempre più deboli. E come spesso succede il debole inizia ad odiare chi sente più forte, addebitando a lui ( in questo caso lei ) il motivo della sua debolezza. E quindi dalla debolezza, l’odio. E dall’odio, la violenza. Il fenomeno è certamente complesso e queste poche righe non sono di sicuro sufficienti a comprenderlo a fondo . Chiudo con un sorriso, con una frase che ho letto su Twitter , di una anonima: l’unico uomo che può metterci le mani al collo è il gioielliere.
ROBERTO FIORENTINI
Il primo pensiero che mi viene: “al maschio è rimasta la forza fisica unica capace di decretarne la superiorità di genere e quella si esprime inevitabilmente in violenza”. Questo è un pensiero che però non mi convince gran che. Mi domando se sia solo una questione culturale o ci sia qualcosa che ci sfugge. Roberto ha citato il termine “zitella” notando l’assenza del corrispettivo maschile, non so se ha omesso volontariamente o meno il termine “puttana”. Anche per questo non c’è il corrispettivo maschile o per lo meno non c’è con la stessa accezione. Quest’ultima richiama l’idea del “peccato originale”, forse nel subconscio culturale la donna è la incarnazione del peccato e l’uomo, in una sorta di atteggiamento vittimistico, scarcia sulla donna o sulla compagna le colpe di ciò che gli accade travalicando il limite del peccato ma che, dal peccato, traggono origine. E’ solo un mio pensiero, uno spunto di discussione attorno ad un aspetto, uno dei tanti del problema. Un altro aspetto è la collocazione sociale, più specificatamente nelle gerarchie del mondo del lavoro, credo in realtà che c’entrino poco con il femminicidio, ma tant’è possono essere situazioni di disagio per il “maschio”. Io, come si sa, lavoro in ambito militare e vedo quotidianamente donne dare ordini a uomini spesso più grandi, per età, di loro. La superiorità è certificata dal grado, che si esprime nell’ordine prentorio oppure in disposizioni burocratiche organizzative che forse non tutti riescono a vivere in serenità, per molti la donna ha ancora il cervello da gallina, o meglio è solo oggetto di pulsione sessuale, per costoro prendere ordini da una “femmina” è un problema di non poco conto. Ma non so quanto questo c’entri con il femminicidio, se non per avere un quadro generale del rapporto uomo – donna. Forse è un addendo di una sommatoria che ha per risultato l’atto violento.
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La violenza sulle donne non è soltanto quella fisica, ma soprattutto psicologica. Leggevo il commento (l’unico) postato all’articolo e mi ha ricordato una recente esperienza, molto diversa, ma che combacia perfettamente. Ho fatto recentemente un colloquio di lavoro in ambito contabile per un ufficio di amministrazione. Il selezionatore (cretinamente) in sede di colloquio mi ha candidamente fatto presente che cercavano esclusivamente una figura femminile perché, oltre a seguire la contabilità, c’era anche da rispondere al telefono, fare fotocopie quando richiesto. aprire al citofono, fare il caffè: in poche parole, c’era da seguire degli ordini. Li ho mandati a quel paese trovando mille scuse, ma forse avrei dovuto dire loro la verità e cioè che avrebbero fatto meglio a trovarsi un maschio per certe attività visto che il mio cervello è alla pari di quello di un maschio, se non superiore.
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