VIAGGI DI ME – (4) A Porto Alegre ..

A Porto Alegre con Gisele, Garibaldi, e la Galassia globale (2)

Em Porto Alegre com Gisele, Garibaldi e o Galaxy Global (2)

 

NICOLA R. PORRO

Non c’è tempo di smaltire il fuso, la fatica del viaggio e il mancato riposo. Nella mattinata del 25 gennaio si inaugura il Global Forum. I lavori si terranno all’Università Pontificia, all’estrema periferia della città. In quattro, casualmente assortiti, ci prenotiamo per il pickup: attesa prevista mezz’ora. La inganniamo in un bar vicino all’hotel da cui possiamo tener d’occhio l’area taxi mentre ingurgitiamo un cafezinho e una ciclopica pasta al cocco. Intorno a noi si rinnova il rito di comunione fra i brasiliani e la musica. Appena il barista accende la filodiffusione, la sala comincia ad animarsi. Tutto è molto fisico e coreografico. Alle prime note la ragazza che sta strofinando il bancone accenna un passo di danza, il barista muove il capo a tempo schioccando fragorosamente le dita, due austeri avventori, forse pensionati debitamente muniti di borsa della spesa, cominciano ad ancheggiare sul posto mentre proseguono imperturbabili la loro conversazione. La musica è una specie di colonna sonora del quotidiano, che si insinua anche nei nostri pensieri intorpiditi dal sonno. Un clacson ci avverte che è arrivato il van. Il conducente è un uomo robusto sulla quarantina. Ci identifica come italiani ancor prima che possiamo aprire bocca. È l’inizio di un fluviale monologo che durerà con poche interruzioni sino a fine corsa per quasi un’ora. Parla una lingua estrosa: impreca ai semafori in uno slang incomprensibile, usa un vivace linguaggio dei segni e a noi si rivolge in un italiano bastardo le cui cadenze mi suonano stranamente familiari. Il mistero è presto svelato: è l’accento del basso Veneto, dove prestai servizio militare nell’età del bronzo. Il nostro autista è figlio di contadini del Polesine costretti all’emigrazione dopo la catastrofica alluvione del 1951. Fu l’ultima ondata migratoria dall’Italia verso il Sud America. Pare che i tassisti di Porto Alegre siano tutti di ascendenza veneta o romagnola. Appartengono a una catena migratoria iniziata a metà Ottocento. Tre generazioni di tecnici, di operai, di coltivatori italiani hanno concorso a fondare questo Paese, facendone il più grande Stato nazione del continente. Bonificarono territori sconfinati, costruirono strade, canali, ponti, dighe e ferrovie (da queste parti, di un lavoro compiuto a regola d’arte si dice che “è fatto all’italiana”). Fondarono organizzazioni di mutuo soccorso, scuole, ospedali, società sportive. Concorsero in maniera importante a costruire una nazione che non c’era, qui come in Argentina e in Uruguay.

La storia dell’emigrazione italiana in Brasile si sovrappone a quella dell’urbanizzazione del Paese. Gli immigrati di seconda generazione misero radici in nuove città come Porto Alegre, dove investirono in attività commerciali o d’impresa i risparmi dei padri e dei nonni. Qui, ci spiega il nostro Virgilio, le comunità europee più numerose e influenti sono quella tedesca e quella proveniente dall’Italia nord-orientale. Nel tempo famiglie tedesche e italiane si sono mescolate e hanno realizzato una convivenza senza traumi fra loro e con la popolazione locale. Questa storia di successo può riconoscersi un secolo dopo nella più seducente delle icone: quella di Gisele!

Gisele Caroline Bündchen, padre tedesco e madre veneta, era all’epoca una ventenne top model candidata a raccogliere l’eredità di Claudia Schiffer e Naomi Campblell. Ammiccando con campanilistico orgoglio, il loquace autista ci allunga un rotocalco che la ritrae in copertina. Mi viene da pensare quanto il corpo delle donne racconti la nostra civiltà e non solo le nostre preferenze estetiche. Nella mente si sovrappongono l’icona patinata di Gisele e l’ombra delle baby prostitute della favela intraviste poche ore prima lungo la strada dall’aeroporto.

Questa contaminazione di culture e di identità ha nella passione per il calcio un altro luogo simbolico. Per un nostro compagno di corsa, che si professa tifoso romanista, il conducente ha in serbo una figurina sbiadita, religiosamente custodita nel cruscotto. È l’immagine autografata di un giovanissimo Paulo Roberto Falcao, che le tifoserie giallorosse degli anni Ottanta avrebbero eletto “ottavo re di Roma”. Era anche lui un ragazzo del Rio Grande, di madre calabrese, e aveva militato a lungo nell’Internacional di Porto Alegre di cui, manco a dirlo, il nostro tassista è un fan sfegatato.

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Il fervore patriottico giustifica una rapidissima deviazione di percorso per Praça Garibaldi, dove sorge un massiccio gruppo marmoreo dedicato all’Eroe dei Due Mondi e alla moglie Anita. Lei era una ragazza della Laguna del Rio Grande do Sul. Folgorata dall’amore e dalla passione rivoluzionaria lasciò tutto per seguire l’avventuriero italiano che si era votato all’indipendenza della sua terra e alla difesa dei nullatenenti dai soprusi dei latifondisti. Il monumento non è un capolavoro artistico, ma testimonia di una memoria non spenta.

Non lontano da Porto Alegre sorge addirittura una città di trentamila abitanti (nella foto di copertina), fondata nel 1900 e battezzata Garibaldi. Quasi tutti i residenti discendono da migranti italiani e lavorano nel settore vinicolo: vi si produce il migliore spumante del Brasile. Forse proprio nel Rio Grande Garibaldi concepì l’idea di costituire quella Legione italiana che pochi anni dopo avrebbe combattuto per l’indipendenza del vicino Uruguay e difeso eroicamente, nel 1849, la Repubblica romana.

Le evocazioni storiche scuotono dal torpore il più taciturno dei compagni di viaggio, un professore universitario di Storia moderna. Ci spiega come l’epopea garibaldina sia stata oggetto di una narrazione politica non sempre aderente alla realtà dei fatti ma perfettamente funzionale alla costruzione dell’immaginario simbolico di un Paese di immigrati. Il mito garibaldino costituisce però anche un patrimonio identitario fondamentale per la forte comunità di origine italiana. È una comunità perfettamente integrata e la cui presenza si avverte ovunque. La figura di Garibaldi, eroe guerriero ma anche giramondo, progressista, mangiapreti e massone, si presta in maniera esemplare a coniugare sentimenti patriottici, solidarietà internazionalistica e istanze democratiche.

Ripreso l’itinerario per il meeting, siamo colpiti da un paio di costruzioni massicce che troneggiano in pieno centro urbano. Sembrano luoghi di culto ma non riconosciamo alcun simbolo religioso: sono logge massoniche, in Sud America assai più architettonicamente visibili che in Europa.

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Attraversiamo la spettacolare Avenida Borges de Medeirso, costeggiamo Parque Redençao e ammiriamo la sagoma neoclassica di Palácio Piratini, che ospita il governo dello Stato federale. Lo storico ha ritrovato smalto e ci invita a osservare con attenzione la grande bandiera nazionale che sovrasta l’edificio. È verde, con un grande rombo giallo al centro. Questo contiene a sua volta un cerchio blu, con stelle bianche di cinque dimensioni differenti e una fascia bianca che lo attraversa. Sulla fascia si leggono le parole Ordem e Progresso. Forse ci mette un po’ di malizia per prendere in castagna il sociologo che sonnecchia in me. Non ci casco: ricordo bene che il motto Ordine e Progresso era stato coniato da Auguste Comte, il pensatore positivista considerato (a torto o a ragione) il fondatore della sociologia. A metà Ottocento, il buon Auguste si illudeva che la nuova scienza riuscisse a realizzare la pace e lo sviluppo dell’umanità intera conciliando la stabilità dell’ordine sociale e le ragioni dell’innovazione. Solo la neonata Repubblica brasiliana, però, lo avrebbe preso sul serio, tributando nel 1889 alla sua citazione l’onore della bandiera. Ordem e Progresso era del resto una formula abbastanza generica da piacere a quasi tutti e capace di affascinare i padri fondatori del moderno Brasile. Intellettuali borghesi di cultura europea e di formazione laica, erano ostili tanto all’immobilismo reazionario delle monarchie coloniali e alle ingerenze ecclesiastiche quanto alle pulsioni rivoluzionarie del nascente movimento socialista. Lo storico incassa con stile il mio pallonetto e ripiega su un altro curioso dettaglio della bandiera. Le costellazioni che figurano nella bandiera nazionale corrispondono infatti all’ubicazione astrale della capitale Rio de Janeiro, calcolata esattamente alle ore 8 e 30 minuti del giorno 15 novembre 1889, quando fu proclamata la Repubblica. Simbolismi esoterici che dovevano piacere alle élite politiche postcoloniali. Ci riporta al tempo presente un irriverente mural che campeggia proprio davanti alla sede del Parlamento federale. Sempre l’ordine e il progresso, ma il senso è un po’ cambiato…

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La Porto Alegre che si offre allo sguardo del visitatore è decisamente una bella città, irriconoscibile rispetto al panorama di degrado delle favelas attraversate nella notte provenendo dall’aeroporto. L’architettura coloniale prevale nel cuore urbano per lasciare via via il posto alle grandi e ben curate arterie stradali che conducono fuori città. Qui le favelas sono meno numerose, meno estese e meno degradate che nelle città maggiori del Brasile centro-settentrionale. Un’invisibile ma invalicabile barriera urbanistica, e più ancora culturale e sociale, le separa però anche qui dalla grazia architettonica del centro urbano. Da bravo “paesano” l’autista ci mette in guardia dalla criminalità diffusa. Fenomeno tristemente noto anche da noi, acquista qui le dimensioni imponenti e inquietanti proprie delle società ancor più delle nostre segnate da drammatiche disuguaglianze. Il panorama urbano, in cui la più disperata miseria sembra materialmente compressa a ridosso dalla più sfacciata ostentazione della ricchezza, è un’efficace metafora del sistema sociale.

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Superiamo la sede del Comune, dove il giorno dopo saremmo stati ricevuti dal sindaco Tarso Genro. Questi è l’ideatore di quell’esperimento di democrazia partecipativa che ha suggerito la scelta di Porto Alegre come sede del Forum mondiale. In una città interamente costruita dall’immigrazione europea, densa di contraddizioni ma relativamente prospera rispetto agli standard sudamericani, si sono introdotte pratiche amministrative inedite. Ogni delibera viene discussa nei quartieri interessati prima di essere approvata in Consiglio. Si è applicata alla lettera la regola del bilancio sociale. Il prelievo fiscale e la destinazione delle risorse sono oggetto di un tavolo permanente di negoziazione fra amministrazione, reti comunitarie e forze sociali rappresentative. Porto Alegre è una città industriale, con tradizioni di sinistra, dove la forza di maggioranza è il Partido dos Trabalhadores (PT). Storico oppositore dei governi autoritari e delle politiche sociali della destra, già negli anni Novanta il partito aveva conquistato numerosi Stati federali e municipalità importanti. L’anno dopo, nel 2002, avrebbe candidato con successo alla guida del Paese Lula, il suo leader carismatico. Lula, che si insedierà al governo nel gennaio 2003, è il nome di battaglia dell’allora cinquantaseienne Luiz Inácio da Silva, un ex operaio metalmeccanico formatosi nel movimento sindacale e irriducibile avversario delle oligarchie filoliberiste. Queste avevano monopolizzato il potere dopo la caduta del regime militare (1985) e la catastrofe economica prodotta dai fragili governi di ispirazione populista del decennio successivo.

Un fulmineo scambio di opinioni fra i passeggeri e il conducente – che anticipa il suo voto per Lula, purché rimetta in commercio la benzina alla frutta – conferma quanto sia difficile dare del PT, e dei partiti sudamericani in genere, una definizione riconducibile alle categorie della politologia europea. È un partito gemmato dal movimento sindacale, come il laburismo britannico, e prende a modello le grandi socialdemocrazie del Nord Europa. Conserva però il linguaggio veemente e rivoluzionario del vecchio populismo. Il giorno doposarà interessante sentire dal vivo Lula e poi il sindaco Genro, che ci ha invitato a un incontro riservato.

Dal finestrino osserviamo la periferia lussureggiante di vegetazione, gli imponenti snodi stradali, gli arditi viadotti e un sipario di ville eleganti rigorosamente protette dalla vigilanza armata. Dietro, si intravvedono catapecchie in lamiera che affacciano su sentieri fangosi. Alle fermate dell’autobus c’è sempre qualche assembramento di persone dalle fattezze indigene, dimessamente vestite e circondate da nugoli di bambini.

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Il facondo autista dei Due Mondi prende fiato. Siamo arrivati alla sede del meeting: la  Purcs, acronimo della Pontificia Universidade Católica do Rio Grande do Sul. Edifici lindi e spaziosi, immersi nel verde come i campus anglosassoni. Una logistica adeguata che reggerà l’impatto dell’evento: si annunciano ventimila presenze da più di cento diversi Paesi, ma si rivelerà una stima per difetto.  Gli incontri pubblici, i seminari, le conferenze stampa programmati in una stessa giornata sono decine e ovviamente si svolgono per lo più in simultanea. Poi ci sono gli eventi sociali, performance di arte di strada, un fitto calendario di manifestazione culturali, incontri bilaterali fra delegazioni e plenarie programmate sino a tarda notte. Ci armiamo di badge, mappe e programmi e proviamo a selezionare le proposte. Intorno a noi si svolgono happening di ogni tipo, si assembrano capannelli, si muovono gruppi e persone di ogni lingua ed etnia. Entreremo presto a contatto con storie ignorate e inimmaginabili, di quelle che colpiscono duro. Nei pressi del desk ci sono i punti d’incontro per le delegazioni estere. Ci dirigiamo verso quello riservatoci, dove ci  viene incontro un signore ancora giovane, dinoccolato e cortese. Si presenta come Afonso, parla un buon italiano e ci fornisce qualche preziosa informazione pratica. Indossa camicia e pantaloni jeans. Non ci accorgiamo subito della piccola croce ricamata al colletto della camicia jeans. Superato il primo impatto con la kermesse che impazza attorno a noi, gli proponiamo una sosta alla vicina cafeteria. Afonso è un prete di quelli che è più facile incontrare a queste latitudini. Look irrituale, vanta ascendenze familiari friulane e un dottorato in Scienze sociali conseguito a Roma. È stato parroco nel Mato Grosso e adesso segue i senzatetto di Porto Alegre. Professore a contratto all’Università statale, segue i lavori del Forum come redattore di una rivista fondata da simpatizzanti della teologia della liberazione e dà una mano all’organizzazione. Sarà per noi il più prezioso e discreto dei compagni di avventura nei territori della globalizzazione alternativa.

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