MI CHIAMANO ANGELINO IL PELOSO, MA IL MIO NOME E’ANGELO PERISE.

di CARLO ALBERTO FALZETTI 

Se ne stava ritto, Angelo, sulla barca che con lentezza procedeva vero il molo del Lazzaretto. Faceva fatica il remo perché gravoso era il carico di materiale ferroso che tutto riempiva lo scafo. Il barchino proveniva dal molo dei Silos dove stazionava un pesante piroscafo tutto carico di ferrame vario.  Per via di una di quelle misteriose possibilità miracolose del porto, improvvisamente, parti del carico del piroscafo si erano come “materializzate” a bordo del piccolo scafo a remi. I gabbiani passavano radenti emettendo urla scomposte e rauche. Il sole ormai stava per andar sotto e nella calma del crepuscolo salivano i suoni lontani dell’ultimo Postale per la Sardegna. Affannava forte Angelo: pochi metri ancora di fatica e sarebbe giunto a destinazione. Ma ecco, d’improvviso, un suono acuto di altoparlante scuote Angelino, gli fa mollare la presa sui remi, lo sgomenta a tal punto da fargli schiacciare con voluttà una ben collaudata bestemmia.

–Altolà! Chi va là! Identificatevi! Che fate, chi siete, dove andate, che portate! Chi sieteeee!

Una umanità media di fronte all’evento improvviso trova difficile snocciolare giustificazioni razionali. Si prova a balbettare qualcosa, una giustificazione, una storiella buttata là tanto per dire qualcosa e lasciare al cervello di ragionare con più calma.

Ma non Angelino! Perché umiliarsi di fronte al nemico di sempre? Perchè retrocedere quando l’avversario attacca alla baionetta? E l’onore? Come non ricordarsi delle tante battaglie, dei compagni caduti in mano al nemico (e trasferiti alle dannate Carcerette)? Tutto si può chiedere ad Angelo Perise fuorchè il disonore in faccia al nemico. La Guardia muore ma non si arrende!

Già! E’ proprio di Guardia che stiamo parlando, precisamente della Guardia di Finanza.

– Altolà! Chi siete?

Non un tremito, non un timore né un tremore. Una mirabile alchimia connette la rete neuronale che veloce trasmette, tra migliaia di salti sinaptici, questo messaggio ai nervi vocali che con solerzia permettono la fuoriuscita, in forma sonora, di uno strabiliante concetto, unico e definitivo colpo atto ad annientate il nemico in via definitiva.

  • Chi so’?…… So’ Traiano, er padrone der portooo!!!

Chissà, dall’alto dell’Empireo lontano, quanto ne sarà andato fiero il Divo Imperatore.

.  .  .

L’enorme contenuto di vino della botticella andava sparendo lentamente ma con precisa regolarità nei ventri dei due allegri avventori. Angelo beveva e parlava. Più precisamente, s’ingozzava e affastellava parole su parole. L’amico, taciturno, era tutto intento a non dar tregua alla sua gola irrorandola di liquido rosso. Mameli, questo il suo nome (sembra molto probabile che non sia quello dell’Inno), era diventato, da tempo, il socio di osteria del Nostro. La serata stava per esaurirsi dato che il contenuto della botticella, funzionando da orologio a vino, segnalava ormai la fine del tempo. La loquacità di Angelino andava scemando non certo per la quantità dei pensieri che si affollavano alla porta della mente pronti ad uscire dalla bocca ma per il fatto che la lingua si imbrogliava muovendosi in modo scomposto nella cavità orale.

I due escono all’aperto. Le gambe pese come i macigni dell’antemurale. Dondolano come se il libeccio li investisse. Cadono, l’uno sull’altro. Qualche imprecazione vola veloce verso l’alto dei cieli. Cercano di aiutarsi per riconquistare una postura verticale ma tutto questo sembra non avvenire con solidarietà: l’uno dà di bestia all’altro. Finalmente riescono a rizzarsi in piedi. Angelino  poggia le mani sulle spalle del Mameli e tenta di liberare la lingua dalle pastoie sentenziando circa il metodo con il quale un corpo deve dar luogo ad una successione ritmica dei movimenti affinché si compia la magia della deambulazione assistita dal sostegno “interumano”. La ghiotta orazione sembra aver successo nell’ascolto da parte del Mameli.

I due riprendono il dondolio muovendosi all’unisono. Provano a cantare. Ci riescono, pur se il bel canto è interrotto da orrende e cupe vibrazioni che lo stomaco, in barba alla trachea, cerca di far uscire dall’esofago.

 Una folta nebbia avvolge la mente di Mameli tanto da fargli perdere ogni possibilità di orientamento: dove si trova l’alto e il basso, il sopra e il sotto, la destra e la sinistra?Dove potrà star mai la casa?

Poi, una Grazia benevola si muove a pietà. Una bava di vento notturno gli rinfresca la mente. Con piglio deciso Mameli indica la rotta. A destra, poi a sinistra laggiù. Quella è casa mia! Chiude la frase reclamando a testimonianza del ritrovato orientamento una buona quantità di numi celesti ed angeli accessori.

Ed ecco i due sodali davanti all’uscio di casa Mameli. La chiave!

Che impresa drammatica riuscire ad avere fra le dita la chiave, questo misterioso strumento che ti permette di allontanare da te, se pur di pochi centimetri, quell’ostacolo contro il quale il corpo blocca la sua deambulazione a causa della fastidiosa impenetrabilità della materia. Queste le considerazioni di Mameli di fronte all’uscio, nella frenesia di trovare quella maledetta chiave apri-porta.

Mameli, lo avrete compreso, era dotato di capacità dialettica. La sobrietà, diceva, ti impedisce di avere giudizi critici. Solo la magia del vino ti introduce alla verità! Spesso, quale novello Socrate, ben fornito di spirito di-vino lo si vedeva deambulare per le vie della sua polis ed esprimere a voce alta un suo  profondo concetto.

Diceva :  – L’omo è un esseri! E’ un esseri l’omo!

L’essere! Quanti giovani studenti hanno dovuto soffrire nel comprendere il senso dell’essere. In quale ente si può trovare il senso dell’essere? Ecco: il Mameli non- sobrio lo aveva individuato. L’ente a cui domandare il senso dell’essere è, appunto, l’uomo!

Ma ritorniamo all’uscio sbarrato ed alla questione della impenetrabilità dei corpi. La mano del Mameli fruga in tutte le tasche e lui grugnisce contro l’oggetto che si cela in modo indegno. Angelino è, invece, taciturno. Guarda senza muover un muscolo e pensa solo a quanto sia minchione il compare.

Alfine un grido! La chiave “ sorte fora” da una tasca tormentata più volte dalla mano frenetica del Mameli. I due, dunque, possono far transitare i loro corpi oltre l’uscio.

Angelino è di antica razza civitavecchiese. Nelle sue vene scorre, ovviamente, vino ma anche qualche traccia di sangue. E quelle tracce sanguigne risalgono all’antica stirpe dei bonavoglia,i rematori non forzati delle galere attraccate al porto. Dunque, ha” buona voglia” di accompagnare fin al giaciglio il suo amico del cuore ( forse, di gola è un dire più corretto).

Il dramma, perché di questo si sta raccontando, inizia il suo svolgimento.

La scena che dovrebbe presentarsi agli occhi del Mameli, se tutto si svolgesse nella piena normalità, dovrebbe apparire nella modalità che andiamo illustrando. La camera da letto di Mameli è uno stato di cose: un armadio che occupa il lato destro, un piccolo tavolo a metà della parete sinistra, un quadro di devozione attaccato alla parete di fondo, un letto al centro della stanza. Sul letto, a quell’ora della notte, essendo il Mameli fuori dal letto, si dovrebbe trovare un solo corpo, quello della consorte. Lo spazio logico entro cui le cose sono inserite è, se siamo nella normalità, quello descritto. Ma ciò che accade, cioè il mondo della stanza di Mameli, presenta uno stato di cose diverso dalla normalità. Ci sono due corpi, non uno, sopra il letto. Ciò che accade nella stanza non è il mondo normale del Mameli!

 Sembra che scorra un tempo infinito. Poi, d’improvviso, Mameli comprende lo stato di cose alterato. Al suo fianco, sempre taciturno, Angelino scuote lentamente la testa. Il suo concetto circa la minchionaggine del compare si è vieppiù rafforzata.

Cantami o Diva l’ira rovinosa che infiniti dolori infliggerà ai fedifraghi!

Così divampa la collera. Schiuma la bocca. I nervi si elettrizzano vorticosamente. Le vene si dilatano. Il cuore è un maglio che batte poderoso.

Mameli è un fiume in piena:

-A me un coltello!. Una lama. Un corpo contundente. Un ferro da taglio. Aguzzo,  impietoso, affilato A me uno squartatoio. Qualcosa per scannare, affondare, immergere, squarciare. Una lama bitagliente, seghettata, fissa, a serramanico, multiuso……!!!!

Così gridava, implorava, il tradito coniuge verso l’offesa alcova.

Quando, ecco che l’aere è squarciato da una voce roca, tonante, imperiosa forse proveniente dal cielo benigno, forse, come molti asseriscono, dallo stesso Angelino deciso, alfine, a porre fine alla tragedia che si andava consumando nella stanza.

E la voce tuonò:

 – daje de’ corna!!!

Era l’arma che più esattamente soddisfaceva l’accorata richiesta dell’uomo Mameli.

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Essere comunisti era un vanto per la maggior parte dei lavoratori del porto. Alla Compagnia Roma troneggiava, negli anni’50 e ‘60 il busto di Baffone. Seguirono, poi gli anni del travaglio. La rottura con la linea del PCUS, lo “strappo” dell’81, le convergenze parallele. Attraverso tutte questo travaglio la fede di Angelino era salda, anche se tormentata.

Quando la sobrietà si allontanava, a passo spedito, dal suo corpo e dalla sua mente i compagni incontrandolo facevano a gara nel provocarlo circa la sua appartenenza al Partito e circa la sua fede politica. L’uomo barcollando alzava gli occhi verso il suo interlocutore, li volgeva a terra, di nuovo scagliava lo sguardo  verso l’impertinente locutore ripetendo più volte la sequenza. Forse era per prender tempo e preparare con zelo una meditata e garbata risposta.

  • Fascista! Carogna! Qua’a zoccola di tu……(stretta parente di grado elevatissimo).

Ed ancora:

  • Tu sei er fascista. Aderi tù ! Tù che incartave le camicie nere…… a’ lo spaccio de’e Esseesse!!

Quale meravigliosa risposta!Non solo si accusa l’avversario di fascismo ma si tende a dilatare questo attributo con l’accusare costui di eseguire un artigianato tutto rivolto ad un oggetto disonorante e, ancor più sublime, si massimizza la detta accusa chiamando in causa un luogo, uno spazio preciso entro il quale l’infamia raggiunge livelli elevatissimi.

Assestato il primo colpo verso la carogna parlante si rendeva necessario svolgere il ragionamento principale. Trovare tutto il rigore intellettuale per giustificare la scelta di fede.

Tutto poteva racchiudersi in un anno particolare. Quell’anno non era un segno del tempo. Era un simbolo e come tale aveva una eccedenza di significati. Evocare quell’anno voleva dire rifarsi al momento aurorale, alla magica sorgente dalla quale tutto era rampollato. Altri concetti erano inutili e fuorvianti. E, così, sentenziò Angelo:

– Sò comunista dar ’21. Dar ’21 che ciò a’ tesseraaa!!

Accadde, un giorno che il cielo di sinistra  mutò un po’ del suo colore. Dopo la destalinizzazione molti, specie i giovani, si erano rivolti a Mao. La galassia sessantottina aveva introdotto molte novità che avevano contaminato quà e là.

 Angelino il Peloso aveva fatto propria l’istanza revisionistica contro la realtà sovietica accusata di degenerazione burocratica e corruzione. IL XX Congresso del PCUS lo aveva eccitato positivamente. Tuttavia, la “Cina era vicina” ed il Libretto Rosso una nuova ghiottosa lettura.

Questa improvvisa conversione stonava nei riguardi dei suoi coetanei conservatori per definizione. Era, pertanto lecito avanzare spiegazioni circa la rottura revisionistica di Angelo. Comprendere il filo logico di tanto ardita azione.

  • Angelì, ma da quanno sei cinese?
  • Da quanno? Dar ventunoooo!!
  • Angelì, ma ner ventuno in Cina ciaderino le Mandarinee!!

Pensate proprio che questa puntuale precisazione storica possa aver convinto il Nostro?

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Spero di aver dato un ritratto di un uomo che i vecchi ricordano bene. Spero che qualche giovane ne sia curioso.

Non era un colto, non era un poeta, non era uno storico, né un navigatore raffinato il Nostro. Era un civitavecchiese del popolo che sapeva rallegrare gli altri per le sue battute e battutacce.

 Non è poco saper dare allegria, caro Angelino!

CARLO ALBERTO FALZETTI

L’immagine del titolo è tratta dalla prima pagina del primo numero de l’Unità del 12 febbraio 1924.