LICENZIAMENTO LIBERO -Riflessioni dopo una sentenza
Una peculiarità della Rete è quella che ti imbatti in cose che ti interessano senza che te le vada a cercare. Così è stato l’altro giorno, mi sono imbattuto in un articolo di stampa che, facendo riferimento ad una sentenza della Cassazione, metteva in evidenza come oggi sia “lecito” licenziare senza “giusta causa”, o meglio, si può licenziare anche solo per mero guadagno. Ma, siccome mi fido assai poco degli articoli di stampa, sono andato a cercare la sentenza in oggetto e, complice l’influenza di fine anno, me la sono letta. Lettura piuttosto interessante direi, certo a chi, come me, non è uso a simili letture, è necessaria una particolare applicazione, ma basta non spaventarsi.
L’oggetto della sentenza è un licenziamento di un quadro dovuto alla soppressione della funzione. Di certo non ho pretese di esprimere giudizi tecnici, sarei veramente di una presunzione senza limiti, ma, con l’evidenziatore ho segnato dei passi che, a mio parere, paiono interessanti e sui quali si potrebbe discutere, alcuni di essi anche curiosi. Ma andiamo con ordine, tenendo presente che ci stiamo occupando di “licenziamento singolo”, non collettivo.
Siamo al terzo grado di giudizio, seguente la sentenza della Corte d’Appello fiorentina che ha dichiarato illegittimo il licenziamento poiché ha ritenuto non provata, dalla parte datoriale, la necessità della ristrutturazione per far fronte a gravi difficoltà (ovviamente l’espressione non è questa, ma è giusto per favorire la comprensione).
La sentenza precedente, la prima, reputava invece bastante la motivazione di ristrutturazione della linea di comando, (ricordo la soppressione della funzione)
Come possano tre tribunali diversi sentenziare diversamente sullo stesso caso non riuscirò mai a capirlo, mi viene da pensare che in questo paese non solo manchi la certezza della pena, ma ho idea che manchi anche la certezza della legge. Ma questo è un’altro discorso.
Dunque, si procede con una breve ricostruzione delle sentenze precedenti per poi passare all’esame dei motivi del ricorso. L’argomento principale è la violazione dell’art. 41 della Costituzione:
Art. 41
L’iniziativa economica privata e` libera. Non puo` svolgersi in contrasto con l’utilita` sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla liberta`, alla dignita` umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perche ́ l’attivita` economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.
La Corte rileva che la “libera iniziativa” contempla anche la libertà di prendere le misure che l’imprenditore ritenga utili, in considerazione anche del fatto che l’Art. 4 della Costituzione, se da un lato sancisce il “diritto al lavoro”, non sancisce il diritto al mantenimento del posto ne all’assunzione. E’ in buona sostanza, un diritto di cui si fa carico la legge dello stato e non il datore di lavoro, ovvero lo stato dovrà legiferare di modo che… sempre però senza ledere il diritto dell’imprenditore. Ciò a legittimare l’idea che anche la mera ricerca di un maggior profitto o di minori perdite non possa essere “condizionata”. In buona sostanza non si ravvede illegittimità del licenziamento qualora esso ricada nella libertà d’impresa:
“..è sufficiente che il licenziamento sia determinato da ragioni inerenti l’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro, al regolare funzionamento di essa, tra le quali non possono essere pregiudizialmente e aprioristicamente escluse quelle che attengono ad una migliore efficienza gestionale o produttiva ovvero anche quelle dirette ad un aumento della redditività d’impresa.”
La sentenza nota che la “tutela del lavoro, garantita dalla Costituzione, non consente di riempire di contenuto l’art. 3 della legge 604 del 66….”
che così recita:
Art. 3
Il licenziamento per giustificato motivo con preavviso é determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.
Dunque, il concetto che se ne può dedurre è che la Costituzione garantisce il diritto della libertà d’impresa, nello specifico quello di incrementare il guadagno e/o limitare le perdite, e garantisce altresì il diritto al lavoro demandando al legislatore di elaborare opportune leggi.
La sentenza ci regala altri interessanti passi per la discussione. Nell’esame dei cosiddetti “profili di tensione”, prende in considerazione anche la legislazione europea, nello specifico l’Art. 30 della “Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea”
“Tutela in caso di licenziamento ingiustificato. Ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali.”
La sentenza della Corte non ravvede motivo di “tensione” con la norma citata poiché a questa non è stata data concretezza ne da parte del legislatore europeo ne da quello nazionale, esiste una direttiva riguardo i licenziamenti collettivi, non per i singoli.
Insomma, il legislatore non ha colto l’importante segnale della “Carta dei Diritti” e non ha dato seguito al comandamento dell’Unione Europea. Dal che la sentenza della Cassazione risulta tecnicamente corretta anche rispetto a questo.Ecco, dunque, accade che le leggi fondamentali, le madri di tutte le leggi, come lo sono Costituzioni e Carte dei Diritti, indicano un principio da mantenere saldo, al quale ispirare l’attività legislativa, ma poi la realtà è spesso altra cosa. Dal momento che basta il semplice diritto di aumentare il profitto, chi potrà mai ribellarsi ad un licenziamento messo in opera a danno di un lavoratore “scomodo” o “problematico”?
La sentenza afferma, inoltre, che la magistratura non è “capace” di giudicare su quanto attiene alla organizzazione del lavoro e relativi profili, non è quindi in grado di verificare la congruità e validità delle dichiarazioni datoriali, qualora dovessero giustificare un licenziamento, deve, in altre parole, prendere per buono e verificato ciò che il datore di lavoro pone a dimostrazione delle motivazioni del licenziamento. Ma, sarebbe del tutto inutile, considerato e sancito il diritto di licenziare come e quando si reputi opportuno, anche per il solo diritto di perseguire un maggior guadagno o una minor perdita.
Mentre le “leggi fondamentali” ci dicono che si tutela il lavoro e la dignità del lavoratore, nella realtà la dignità del singolo lavoratore viene sempre più a perdersi, pare che tutto tuteli gli “affari” e nulla gli “uomini”. Questo lo si intravede anche nella lettura di questa sentenza, ogni qualvolta si sottolinea, in varie citazioni, come l’aspetto “sociale” sia stato in qualche modo soddisfatto normando le tutele nei licenziamenti collettivi, notare invece come non lo siano nei licenziamenti singoli, accresce la sensazione che il lavoratore stia sempre più diventando un oggetto di mercato e sempre meno una persona umana. L’uomo singolo, finché singolo, è nudo, non può esistere se non inserito in un “gruppo”, cosa che gli tornerebbe il diritto, l’essere sociale, la tutela. Questa idea la trovo terribile. Trovo terribile che la persona trovi il suo essere sociale, con relativa dignità e diritto, solo in quanto facente parte di un gruppo, e che ne perda le prerogative una volta “solo”.