Lo Stato sociale o welfare
di PAOLA ANGELONI ♦
Vorrei aprire un dibattito su di un tema di economia politica.
Il tema in questione parte dalla riflessione sulla depressione iniziata nel 2008 con il fallimento di Lehman Brothers e la conseguente crescita delle disuguaglianze in questo inizio di secolo. Dovrei quindi confrontare due epoche storiche: la grande depressione in US del 1929 e la depressione nel 2008 in Europa. Ma confrontare le due epoche significa descrivere quasi novanta anni di affermazione dello Stato sociale.
Il mio approccio è legato alla disciplina storica. Ma la storia per aprirsi alla ricerca deve fare incursioni sui terreni di altre scienze sociali, poiché la ricerca è libera se si nutre della transdisciplinarità. Una ricerca è libera anche se ammette di non avere risposte al problema che pone. Mi viene in aiuto la filosofia: “l’importante è la domanda, non la risposta “.
Allora: Si sente oggi , nel XXI secolo, l’esigenza di un “ritorno allo Stato “?
Qual è il peso, oggi, e quali sono le risorse dello Stato sociale o Welfare in Italia e , nello specifico, nella nostra Città ?.
Come rimettere l’economia politica e la storia dell’economia politica al centro del dibattito pubblico?
La crisi del 2008 ha rappresentato l’inizio di un periodo in cui le disuguaglianze, maggiormente estese, hanno azzerato l’immaginario neoliberista. Urge un dibattito sulle disuguaglianze sociali. Thomas Piketty, Il Capitale nel XXI secolo, evidenzia il nesso tra obiettivi sociali ed economici. Basandosi su dati statistici, egli dimostra come il tasso di rendimento del capitale abbia superato il tasso della produzione e del reddito. Una sempre più marcata distanza tra ricchi e poveri mette in discussione la democrazia.
Nel 2008 si presenta la crisi più grave che abbia investito il capitalismo mondiale dopo quella del 1929. Keynes affermò che gli effetti della depressione del ’29 mostrarono drammaticamente la vulnerabilità del sistema concorrenziale proprio dell’economia capitalistica. Non ci si poteva affidare solo alle leggi del mercato. Il libero giuoco delle forze economiche doveva in sostanza essere moderato e guidato.
Più tardi Galbraith, nel 1961, mise l’accento sulle mancate politiche fiscali e sulla cattiva distribuzione dei redditi, che impediva ai poveri i consumi di una produzione divenuta ormai di massa. Il marxista Varga caratterizzò quella del 1929 come una crisi di sovrapproduzione ciclica nella quale la produzione capitalista cozzava contro la ristrettezza dei mercati.
Ma il crollo di Wall Street fu essenzialmente una rovinosa crisi del credito, per cui nel giro di tre anni più di 4000 banche dovettero dichiarare fallimento.
Se la crisi del ’29 fu definita una “depressione” quella del 2008, invece, è considerata una “grande recessione” nella quale le finanze pubbliche saranno in estrema difficoltà fino al 2013. I governi e le banche centrali non hanno lasciato affondare il sistema finanziario cercando le liquidità necessarie per evitare i fallimenti bancari a catena.
Sembra che questa politica finanziaria di tipo “pragmatico“ abbia consentito di evitare il peggio. In altre parole, le banche centrali svolgendo il ruolo di prestatori sono l’unica istituzione pubblica che può evitare il crollo completo dell’economia e della società. Ma tale politica economica adottata non ha dato una risposta ai problemi strutturali che hanno causato la crisi, anzi, le uniche conseguenze sono state una forte crescita delle disuguaglianze ed una palese mancanza di trasparenza delle operazioni finanziarie.
In sintesi, è la prima crisi del capitalismo patrimoniale del XXI secolo, dove sembra che non ci sia più uno “ Stato “ che regoli i bilanci e la politica fiscale.
Ma il peso dello Stato è forte e ci si chiede perché non sia intervenuto nei confronti dei mercati. Il potere pubblico, fin dai primi anni del dopoguerra e nella ricostruzione, ha avuto un ruolo cruciale nella vita economica; ora il suo ruolo è messo in discussione di continuo, sia che si richieda il ritorno allo Stato, sia che si voglia la sua soppressione.
I diversi punti di vista possiamo così tradurli: Quali sono gli strumenti per il controllo di un capitalismo finanziario impazzito? Come rinnovare il sistema di spesa e di prelievo fiscale, propri dello Stato Sociale moderno?
Si deve partire da un dato storico: dal dopoguerra il peso dello Stato e delle spese sociali ha avuto una crescita illimitata nel settore delle spese pubbliche prioritarie, l’istruzione, la sanità e le pensioni. L’istruzione primaria è quasi interamente gratuita, il sistema sanitario pubblico è a disposizione di tutta la popolazione, ma in concreto l’obiettivo reale di una parità d’accesso sia alle cure, sia all’istruzione scolastica non è completamente realizzato. Infine, il sistema pensionistico pubblico è la prima fonte di reddito per almeno i due terzi dei pensionati e con tale sistema si è determinata la scomparsa della povertà nella terza età. Sono questi tre settori strutturali che rappresentano la grande rivoluzione sociale del XX secolo, sostanzialmente sono lo Stato Sociale.
Ma attenzione, la redistribuzione moderna non significa un trasferimento dai più ricchi ai più poveri. Consiste nel finanziamento di servizi pubblici o di redditi sostitutivi più o meno uguali per tutti, in particolare nel campo dell’istruzione e della salute.
Alla crisi economica del 2008 si è aggiunto un clima di risentimento, di paura e di insicurezza per la questione dei migranti e le campagne xenofobe e discriminatorie. Sono nate conflittualità che mettono in discussione i principi di uguaglianza affermati nel XX secolo, quella logica di diritti che riconosce il diritto di parità di accesso a beni fondamentali. E’ il messaggio del filosofo John Rawls e dell’economista Amartya Sen: estendere i diritti fondamentali e i vantaggi materiali a tutti nell’interesse di chi ha meno diritti e opportunità di realizzazione. Dobbiamo chiederci se nell’Italia del XXI secolo i diritti di solidarietà vengano rispettati nel Welfare, in particolare nell’istruzione, nella sanità e nelle pensioni.
Lo studio dell’economista francese Thomas Piketty, che raccoglie dati sui patrimoni, conferma la presenza di disuguaglianze sempre più accentuate. La disuguaglianza sociale, il crollo dello Stato Sociale definiscono una situazione estremamente critica, a cui la politica non riesce a porre rimedi.
di PAOLA ANGELONI
Nonostante questa mattina mia moglie stia cercando di cacciarmi di casa per le “pulizie”, non posso resistere, debbo commentare, la spesa può attendere!
Se ho ben capito, dunque, le domande sono tre, tre domande da affrontare con un presupposto, quello di non avere risposte precostituite da convalidare.
Ti cito: “Una ricerca è libera anche se ammette di non avere risposte al problema che pone. Mi viene in aiuto la filosofia: l’importante è la domanda, non la risposta ”
Assolutamente d’accordo sul metodo, Paola, ho letto attentamente gli spunti che hai proposto e vorrei aggiungere una domanda, strumentale alla discussione, una domanda che mira a indirizzare il ragionamento, anzi, più che domanda uno spunto di riflessione ulteriore e specifico.
Negli ultimi anni lo spazio sempre maggiore conquistato dalla imprenditoria privata nei settori dei servizi come del welfare ha dall’altro lato scaricato la pubblica amministrazione dal dovere istituzionale di garantire lo stato sociale, per sempre più larghi settori, come se la PA volesse diventare nel tempo un mero gestore di risorse finanziarie, un paio di esempi a caso, i primi che mi vengono in mente, ad esempio: l’utilizzo di cooperative per personale sanitario e i cosiddetti “fondi pensione”. Lungi dal proporre risposte, che pur una idea la ho, pongo invece ulteriori domande strumentali alle originali di Paola. Questo passaggio di funzioni dal pubblico al privato, dal punto di vista dell’assistito, dimostra un miglioramento? Dal punto di vista, invece, della PA, dimostra un più razionale ed efficace uso delle risorse? Dal punto di vista del paese, il trasferimento di ricchezza alla imprenditoria privata ha reso il paese migliore?
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Apri una questione che ci porterebbe lontanissimo ma che è giusto affrontare senza delegarla sempre ai poco disinteressati soloni dell’economia politica. I tuoi riferimenti sono i miei. Forse aggiungerei il Marshall che già agli inizi dei Cinquanta intuì la funzione dirompente della cittadinanza sociale. In termini di approccio storico-sociale, poi, sarebbe bello concentrarci anche sulle differenziatissime forme sociali del Welfare, che rendono problematica una rappresentazione omologante del cosiddetto Stato sociale. Studiosi italiani come Maurizio Ferrera hanno dar contributi determinanti.
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Paola tu poni una questione molto complessa ma che,a mio avviso,rimane il nodo centrale per lo sviluppo armaoico delle società del terzo millennio.A parer mio la crisi delle socialdemocrazie e più in generale delle foze progressiste è alla base dell’incapacità di rendere centrale lo Stato Sociale nelle sue innumerevoli forme.Le discriminazioni sociali e le disuguaglianze,sempre più profonde,vengono sottovalutate e le leggi di mercato hanno sostituito valori che hanno fatto prosperare in pace ed armonia le grandi democrazie occidentali.
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Gentile Damiani, ho seguito alla lettera il percorso di T. Piketty, che vede, in relazione alle disuguaglianze sociali,le conquiste realizzate nel secolo scorso nei settori fondanti dell’ istruzione,della sanità e del sistema pensionistico.Nel successivo articolo seguirò l’ economista nella proposta di un necessario e motivato prelievo d’ imposte sul capitale patrimoniale ” ancora vivo e vegeto” nell’ Europa ( e nell’ Italia del XXI secolo). Risponderò al tuo spunto di riflessione in due modi. Nel primo caso , riguardo al complesso rapporto tra Stato e privato, rimanderei agli articoli 41,42,43 della Costituzione. Gli stessi sanciscono che l’ economia privata è libera, ma aggiungono…non in contrasto con l’ utilità sociale…la legge determina i controlli opportuni..a fini sociali..Nel secondo caso, devo risponderti come tu richiedi, in base alla mia esperienza personale, come ” attore sociale” ( direbbe Porro). Scuola pubblica! Per una riduzione delle disuguaglianze, per la diffusione delle conoscenze e la formazione, per determinare l’eguaglianza delle condizioni. La scuola deve essere un bene ” pubblico” per eccellenza.
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Bellissimo articolo che mi da l’occasione per degli spunti che produrrò nel tempo su alcuni punti di volta in volta.
CRISI DEL 29.
Si tende a descrivere questa crisi come la peggiore “dopo” quella del 29.
Non è affatto così: tolta la guerra mondiale (la seconda ovviamente) dove l’eccezionalità dell’evento (morì il 2,5% della popolazione mondiale) la crisi odierna ha dei numeri peggiori.
Il Pil Italiano per esempio durante il 29 ebbe un calo del 5% che impiegò 8 anni per ristabilirlo ai valori pre crisi. Oggi che siamo a percentuali più alte e dopo 8 anni il Fondo Monetario Internazionale non sa quanti anni ci vorranno per recuperare. Ed il FMI è famoso per l’ottimismo delle stime!!
Ps. la crisi riguarda l’Eurozona, il mondo non è affatto in crisi. Lo siamo noi per pure scelte politiche. La crisi è una scelta politica, non cala dall’alto, è la conseguenza di un atto politico.
Lo shock Lheman, è appunto uno shock, che in economia si supera con scelte politiche. NON abbiamo voluto farlo-
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Grazie Paola Angeloni, per la risposta, attendo il prossimo articolo promesso, e colgo con attenzione la tua citazione della Carta Costituzionale laddove sancisce, ove ancora ce ne fosse bisogno, la prevalenza della “utilità sociale” su quella privata, addirittura ne promuove “specifici controlli”.
E’ quindi evidente che, fra gli altri, la PA ha, come mandato, la tutela della popolazione, cosa che indichiamo appunto con l’espressione “welfare”.
Tu fai riferimento e poni il problema anche al livello cittadino, il tuo vissuto scolastico ha ben rappresentato la funzione pubblica della istruzione, anch’essa espressione a pieno titolo di “welfare”. Proprio ieri una mia amica, insegnante, mi riferiva della incongruenza della “buona scuola” con la realtà dei fatti, forse peggiore nella nostra città che altrove? Non lo so, ma poco importa, ma quello che importa, in questa discussione è rilevare come sempre più il welfare, venga delegato al privato, se non in modo palese, in modo occulto. Questo è molto più chiaro nel nostro quotidiano approccio con la sanità. E ne ho ben esperienza, cito a titolo emblematico le comuni esperienze riguardo taluni esami clinici. La difficoltà di “applicazioni pubbliche” talora pare a bella posta alimentata per favorire quelle private. Io stesso testimonio come sia dovuto andare a fare un esame a Napoli, in convenzione, mentre altri, per lo stesso esame, siano stati costretti a pagare cifre notevoli, nella fattispecie più di mille Euro, solo per il fatto di non essere stati informati della possibilità di effettuare la stessa prestazione in struttura convenzionata.
In tutto questo l’AC potrebbe e dovrebbe fare di più, nella consapevolezza dell’endemica carenza di risorse, ma anche nella altrettanto consapevole certezza che molte cose possono e debbono essere portate innanzi senza impegni finanziari particolari, ma piuttosto con l’impegno politico. Sicuramente ci sarà chi ha vissuto esperienze utili a sviluppare questo suggerimento. Ovvero chi ha dovuto toccare o tocca con mano la dicotomia pubblico/privato considerando magari la violazione del “dettato costituzionale”.
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Grazie, De Paoli, per i tuoi dati. Il confronto tra la crisi del ’29 e l’ Italia apre una finestra sulla soluzione che fu data dal fascismo alla crisi economica. Un tema forte perché vede interrelate sia l’ economia ,sia la politica e la democrazia, come accade oggi. E’ chiaro per tutti, a partire dai dati economici, che non possiamo più parlare di Italia, ma di Europa, ” volentì o nolenti “…
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Grazie, Damiani, è il commento che avrei preferito avere da te.Si parla di Stato sociale, di scuola, di sanità. Abbiamo avuto Carta dei servizi a scuola, Carta del malato nella sanità. Ora siamo costretti a comunicare i nostri bisogni,i nostri diritti ( alla salute, all’ istruzione, alla pensione) in questa ” Babele” dei social, dei blog, di Facebook poiché mancano le strutture di mediazione, i partiti, i sindacati,anche i movimenti, nonostante il loro primo impatto propulsivo. Ricorrere all’avvocato ed alla Procura per la risoluzione di problemi che ” sembrano” personali non è proprio di un paese ” civile”.
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E forse, allora, dovremmo parlare di globalizzazione, di FMI e di WTO poichè è chiaro come l’economia mondiale pesi sulla politica Europea e nazionale, ma, così facendo credo che ci allontaniamo dal “nostro mondo” e dalle responsabilità che. pur a livello locale ci sono e che non possiamo certo dimenticare o sminuire perdendoci in orizzonti sconfinati. Del resto è indubbio che le scelte politiche locali incidono pesantemente sul welfare e sulla vita della gente, e lo sappiamo bene, non per nulla ci scaldiamo tanto per ogni atto che consideriamo criticabile. Dovessimo far discendere tutto dai mondi superiori dovremmo accettare ciò che ci accade come qualcosa di inevitabile in una sorta di fato insensibile. Non credo che sia così anzi credo che la politica dal basso abbia una sua funzione ed influenza nella misura in cui sa e considera di averla. Faccio notare come anche all’interno della UE vi siano differenze importanti e come i paesi abbiano gli strumenti in mano per correggere ed indirizzare opportunamente gli equilibri europei, allo stesso modo, specie per ciò che concerne il welfare, vediamo differenze a volte veramente notevoli fra regione e regione, attribuire queste differenze, considerarle alla luce di poteri ed organizzazioni sovraordinate allo stato ed alla stessa Europa, a mio avviso, significa liberare dalla responsabilità la classe dirigente nostrana che non sta li a fare la “marionetta”, se non nella misura in cui la vuole fare.
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