DOSSIER BENI COMUNI, 113. PIETÀ PER IL CICLO! – 2
a cura di FRANCESCO CORRENTI ♦
(2 – continua dalla puntata precedente)
Ho terminato la mia esposizione, la volta scorsa, dichiarando di voler accompagnare lo scritto con immagini effettivamente attinenti al tema trattato, possibilmente inedite, originali e realizzate espressamente per i Lettori. Ho aggiunto che l’argomento scelto, i Cicli pittorici rinvenuti nei locali dell’edificio superstite del complesso detto “le Casermette” in località “Poligono del Genio” a Civitavecchia, non doveva apparire un’eco di polemiche esterne – comunque «necessarie su argomenti di interesse generale per la città» – perché non lo erano. Trattandosi, invece, di una mia profonda e pressante esigenza di riscopritore delle pitture, di autore dei rilievi, dello studio critico-interpretativo e della relazione illustrativa, oltre che di promotore della proposta di vincolo e, quindi, di convinto estimatore del loro valore molteplice (e lo vedremo), nonché di conseguente tutore della loro conservazione e integrità documentale, sancita dal parere unanime degli “addetti ai lavori” e dalla dichiarazione del vincolo, in quanto riconosciuto «di interesse storico-artistico particolarmente importante, ai sensi dell’art. 10, comma 3, lettera d) del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, e quindi sottoposto a tutte le disposizioni di tutela contenute nella parte seconda del citato Codice».
Proprio per tutti questi motivi – scrivevo al termine della precedente puntata – e data la limitata diffusione della conoscenza del bene, considero doverosa una informazione accurata, approfondita e documentata alla cittadinanza ed al più vasto pubblico dei possibili fruitori della consistenza, del significato e del valore attuale del Ciclo. Iniziando proprio dalla spiegazione di questo nome dato alle cose scoperte, per le quali anzi, data la presenza di due locali decorati da fregi dipinti, nel titolo del Quaderno contenente lo studio usai quel termine al plurale: «I cicli pittorici rinvenuti nei locali dell’edificio superstite del complesso detto “le Casermette” in località “Poligono del Genio” a Civitavecchia». Il Quaderno OC era il n° 18/2 di aprile 2018 della serie, Edizioni del CDU, con diffusione interna ai Comuni consorziati di UCITuscia. Cosa che ho fatto, credo con buoni risultati.
Credo, allora, che sia chiaro ed evidente a tutti il fatto che un ciclo di dipinti murali sia «un insieme di immagini dipinte in un dato ambiente, che formano una raffigurazione plurima di tematiche narrative concepite per “raccontare” o “illustrare” avvenimenti o storie collegate le une alle altre da un filo conduttore o da uno o più protagonisti, in forma unitaria e completa, a scopi didascalici, di celebrazione o di devozione religiosa». Indivisibili.
Ho ricordato che «i primi cicli dipinti (con varie tecniche come la tempera o l’affresco) li possiamo ammirare in luoghi specialistici di carattere sacro, cioè chiese, santuari, conventi e monasteri, sui fianchi d’una navata, in cappelle particolari o nei catini absidali, oppure sulle pareti dei portici di un chiostro o in altro luogo dove le varie scene dipinte formano una sequenza tematica ben precisa». Nel nostro caso di Civitavecchia, i due cicli di tempere di soggetto politico-militare si trovano nelle due sale della residua “Casermetta”, cioè la «Caserma della ex Scuola Centrale del Genio in località “Poligono del Genio”, edificio superstite del gruppo di immobili costituenti l’ex Poligono sperimentale “Vittorio Emanuele III” (qui istituito nel 1924). Si tratta delle pitture murali di un fregio decorativo di carattere patriottico e celebrativo dell’Arma del Genio, opera dei “Genieri Boselli e Mastrangelo”, databili agli anni successivi al 18 dicembre 1935 e precedenti al giugno 1940».

La data post quem deriva dalla presenza, tra i dipinti, d’una scena riguardante la cosiddetta Giornata della fede, promossa dal regime fascista appunto in quella data, per la campagna «Oro alla Patria» a seguito dell’imposizione delle inique sanzioni da parte della Società delle Nazioni, contro l’Italia, per l’invasione dell’Etiopia.
La “Casermetta” rimasta era quella adibita proprio a sede logistica della direzione didattica della Scuola Centrale del Genio Militare e le due sale dipinte, unite dal corpo di collegamento più basso dei servizi, costituivano le aule o i locali adibiti a riunioni collettive. La loro dimensione di metri 13,10 x 7,80, con una superficie di circa 102 metri quadrati, le rendeva idonee ad accogliere circa 50 persone sedute con banchi. La sala dei dipinti patriottici con la “Pietà” era sicuramente l’Aula Magna, mentre quella dei simboli fascisti e guerreschi poteva essere destinata ad altri tipi di attività, come la mensa o la palestra (per attività generiche di corpo libero o con attrezzi).
Nella relazione del 2018, ho descritto i fatti accaduti nella mattinata del giorno 21 gennaio 2005, quando si svolse la breve cerimonia della consegna alla Comunità Mondo Nuovo, da parte del sindaco Alessio De Sio, dell’immobile della Scuola. Già di proprietà del Demanio, era stato affidato nel 2002 al Comune, insieme a vari altri edifici, la cui notevole importanza storica non era stata evidenziata negli atti ufficiali, per non complicare e rendere oneroso il trasferimento in concessione al Comune. Abbandonato da diversi anni, vi era prevista l’esecuzione degli opportuni lavori per renderlo agibile ed abitabile con un intervento di semplice manutenzione straordinaria, dato che strutturalmente non si riscontravano situazioni di degrado statico. Ero stato invitato alla cerimonia proprio per visionare i dipinti che – nei giorni precedenti – erano stati ritrovati dai colleghi dell’Ufficio Tecnico sulle pareti al di sopra del controsoffitto realizzato in epoca non nota negli ambienti ed in gran parte crollato. Ne rimaneva l’ossatura di supporto, in legno, molto danneggiata. Tali raffigurazioni si trovavano nei due corpi rettangolari (come già detto, delle dimensioni di metri 13 x 8 circa) posti alle estremità dell’edificio, a nord e a sud, più alti rispetto al corpo centrale di collegamento. In effetti, in uno dei locali, quello nel corpo posto a nord, si notavano, sul perimetro in alto, delle decorazioni monocrome o forse tricrome, con elmi, scudi, fasci littori e figure di guerrieri. Nell’altro locale, quello del corpo a sud, si poteva vedere una fascia dipinta continua e policroma con diverse scene e figure, alcune con iscrizioni, che ci fecero riconoscere – malgrado la semioscurità – immagini «di Giulio Cesare, Cicerone e altri personaggi storici» (come trovo annotato nella mia agenda di quell’anno) e di constatare la discreta qualità dei dipinti ed il loro indubbio interesse per i soggetti militari e patriottici tipici dell’epoca tra le due guerre.
Al termine della visita, il sindaco mi chiese di occuparmi dei dipinti, approfondendone la vicenda storica, individuando il significato delle varie scene ed avviando le procedure per il loro restauro, da compiere contestualmente ai lavori di recupero edilizio dell’immobile. Convenimmo di consultare, per una prima indagine conoscitiva e per la definizione delle operazioni da prevedere e della loro entità, il gruppo di giovani restauratrici che avevano ottenuto nel 2004 l’incarico del restauro delle edicole sacre del centro storico di Civitavecchia, un progetto comunale ancora in corso, ideato e coordinato – come molti altri – dal mio ufficio, che era stato finanziato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Civitavecchia. Il successivo 14 febbraio, infatti, al termine di varie riunioni nella sede del Dipartimento, ho effettuato un sopralluogo con alcuni funzionari e collaboratori borsisti, chiamando a parteciparvi le suddette restauratrici. Dopo aver visitato la chiesetta di San Francesco di Paola, per il cui restauro era stato chiesto dalla parrocchia il nostro supporto scientifico, ci siamo recati all’edificio delle “Casermette”, dove abbiamo proceduto a verificare meglio lo stato delle strutture ed a realizzare (per quanto reso possibile dalla posizione rialzata e dalla presenza di travetti e tramezzi) una documentazione fotografica delle pitture. Da parte mia, avvalendomi delle fotografie che io stesso avevo fatto, ho sviluppato gli appunti presi sul posto e disegnato delle ricostruzioni grafiche delle due sequenze pittoriche. Con tempestività ed efficienza, l’Ufficio Patrimonio immobiliare diede seguito al sopralluogo congiunto ed alle modalità concertate tra loro e noi dell’Urbanistica (e Patrimonio storico), predisponendo tutti gli atti necessari per la sistemazione dei locali consegnati alla suddetta Comunità, cui era stata affidato – ad evitare costi per il Comune – l’onere della progettazione.

Il geometra Daniele Masciangelo (un cognome dalla singolare assonanza con quello del geniere Mastrangelo coautore del ciclo decorativo) curò il rilievo dei locali e la predisposizione del progetto, corredato anche dei computi metrici estimativi e di ogni altro documento necessario, per effettuare i lavori, compreso l’intervento di restauro della decorazione pittorica, in base ad una analisi delle operazioni necessarie e ad una valutazione della spesa inviate in data 5 maggio 2005 dalla restauratrice intervenuta al sopralluogo. Il tutto, con una stima totale dei costi quantificata in poco meno di € 980mila, fu regolarmente trasmesso nello stesso mese di maggio 2005 all’Agenzia del Demanio, per il nulla osta alla concessione alla Onlus in questione di quel bene patrimoniale dello Stato.
Per quanto riguarda la sorte delle pitture, va detto che le intenzioni espresse dal sindaco De Sio non hanno trovato seguito nell’amministrazione straordinaria e in quelle successive, dato che l’edificio, per diverse valutazioni del sindaco Moscherini, non fu più utilizzato come era stato deciso e fu anzi reso inaccessibile per evitarne usi impropri, in attesa di destinarlo ad altre attività da individuare. Ma il passare degli anni, gli avvicendamenti del personale ed il naturale evolversi dei problemi e delle questioni di maggiore urgenza per la pubblica opinione e per le nuove figure sulla scena politica, hanno portato a far dimenticare per molti anni quei fatti sempre più lontani nel tempo, ma che tuttavia hanno avuto poi una conclusione formale e giuridica da cui ho preso spunto per queste puntate chiarificatrici.
Mi sembra, quindi, di non poter proseguire ulteriormente il discorso senza completare quella doverosa informazione che ho promesso. Per cui, precisate le questioni generali, passo a dare ai Lettori le spiegazioni necessarie a “leggere” i disegni delle figure, con una esatta descrizione dei dipinti della sala del corpo sud della “Casermetta”, quella che nella pianta in alto nella figura 113/2 è chiamata “Aula Magna” ed ha, in caratteri di colore rosso, indicate le quattro pareti delle quali le sezioni sottostanti mostrano le scene delle quattro parti.
Come ho detto, la sala presenta due lati più lunghi e due più corti. Iniziamo la descrizione, procedendo sul perimetro del locale in senso orario, dalla parete che possiamo definire quella principale, per i soggetti rappresentati.
Parete A – è una delle due pareti maggiori, al tempo stesso introduttiva e conclusiva, dato che contiene l’immagine più significativa ed emblematica, di ispirazione religiosa, per la forma, e di alto valore ideale, patriottico e politico, per il contenuto, ai cui lati si svolge la rappresentazione delle diverse specializzazioni dell’Arma, con altrettanti Genieri in azione. Priva di riquadrature architettoniche, su uno sfondo di cielo azzurro a tutta altezza, si svolge la rappresentazione delle varie attività specialistiche del Genio militare, che poi sono le stesse che, a partire dal 1934, quindi poco prima dell’esecuzione di questi dipinti, saranno illustrate negli allestimenti museali dell’Istituto Storico e di Cultura dell’Arma del Genio a Roma, nella nuova sede tra il Lungotevere della Vittoria e Viale Angelico dove si affianca a Via Filippo Corridoni. Al centro esatto della parete, si trova l’immagine più eloquente dell’intero ciclo, ovvero quella che ho definito una sorta di Pietà laica, dove l’Italia, la Patria, vestita d’una tunica bianca e di un mantello rosso, sorreggere tra le braccia e sulle gambe il corpo, in divisa grigioverde, di un soldato caduto, il Fante della Grande Guerra, cioè il Milite Ignoto, creando quindi un patriottico Tricolore. Ai due lati di questa immagine, sono appunto le varie figure, nove, con i soldati del Genio impegnati nelle varie attività. A sinistra, vi sono cinque figure: la prima è il minatore con un martello pneumatico, che perfora una parete rocciosa; segue un pompiere con in mano un idrante; il terzo è un pontiere seminudo che regge una specie di scala; il quarto milite è intento a mascherare con una rete mimetica una mitragliatrice; il quinto rappresenta l’unità di assalto, è in corsa, con elmo e scarponi chiodati, ed imbraccia un moschetto con la baionetta innestata. Dall’altra parte della Pietà, si prosegue con altre quattro figure: un idraulico, che ha in testa la classica bustina militare e riempie la borraccia estraendo l’acqua da un serbatoio con una pompa; il foto-elettricista, che trasporta un grosso proiettore montato su treppiede; poi l’elettricista, che sale sul palo d’un elettrodotto munito dell’imbracatura per il corpo, di staffe dentate ai piedi e di guanti; finalmente, l’ultimo, il trasmettitore o marconista, è dipinto inginocchiato presso la tipica apparecchiatura d’una stazione radio.
Parete B – proseguendo l’esame dei dipinti sulla parete stretta successiva, abbiamo ai due estremi, dei riquadri con figure su fondo oro, scanditi da una serie di cornici di tipo architettonico che imitano dei rilievi a stucco, con al centro un’immagine di quattro genieri al lavoro: il primo a sinistra sorregge e spinge in posizione verticale una stele, il secondo ha un moschetto a tracolla e nelle mani una pala ed un gladio; poi alla sua sinistra è il terzo soldato intento a dare un colpo con il piccone, mentre il quarto, inginocchiato, compie una operazione non chiara, avendo dietro di lui dei paletti e del filo spinato; questi due dovrebbero rappresentare i guastatori. Tutti e quattro questi soldati-operai sono a torso nudo con pantaloni corti (quindi divisa coloniale) e sullo sfondo si notano due tralicci dell’elettricità. Nei due riquadri a destra e sinistra di questa scena, vi son quelle che, a mio parere, sono le figure più rappresentative dell’insieme e per vari aspetti quelle che ne accrescono la singolarità e l’interesse storico attuale. A sinistra, ritengo, è il ritratto del re Vittorio Emanuele III, con spalline sulla divisa e la sciabola (“sciaboletta”, dicevano allora le male lingue). Dall’altra parte, quel personaggio in divisa, in una posa con le braccia piegate e appoggiate sui franchi e le gambe divaricate, è sicuramente il duce, Benito Mussolini, in quell’atteggiamento caratteristico che ritroviamo in innumerevoli fotografie. Il fatto straordinario, già descritto nel testo, è che queste due figure sono le uniche che risultano chiaramente, volutamente manomesse in epoca successiva: la figura di Mussolini è velata, coperta da uno strato di colore che nasconde i tratti e i dettagli ma lascia intravedere la sagoma: questa velatura potrebbe essere state fatta fare dagli stessi comandanti della Scuola dopo la caduta del fascismo, quindi dopo il 25 aprile del 1943, giorno dell’arresto (ufficialmente, le dimissioni) di Mussolini a villa Ada. Dall’altra parte, il “re-soldato”, la cui figura è rimasta visibile ma ha ricevuto sul volto uno sfregio, con il violento distacco dell’intonaco e della pittura e, quindi, questa abrasione che rende irriconoscibile personaggio potrebbe essere stata una reazione dopo l’8 settembre, dopo la fuga di Pescara. Conoscendo la sorte che ha avuto a Civitavecchia – dopo il trasferimento dalla piazza Vittorio Emanuele (la ex piazza San Francesco) ai giardini di piazza Calamatta – la statua del sovrano (fatta “saltare” da militanti del partito comunista) non è troppo difficile immaginare chi possa aver compiuto il gesto che abbiamo descritto.
Parete C – quest’altra parete lunga è spartita, come la precedente e la successiva, in riquadri da cornici architettoniche dipinte che simulano modanature di stucco e marmo ed ha, come queste, alle estremità, due riquadri con figure su fondo oro, mentre al centro c’è un riquadro o lacunare di larghezza minore che rappresenta il cosiddetto pinxit, cioè il cartiglio su cui campeggia, inclinata, la scritta con le firme degli autori: «Dipinsero i Genieri Boselli e Mastrangelo». In alto, sopra la scritta, un mascherone con vari ghirigori che ricorda quelli delle grottesche (come nell’esedra di Villa Giulia a Roma) e sotto una tavolozza, un compasso, un filo a piombo, un vaso pieno di pennelli e un foglio di carta arrotolato, insomma gli attrezzi dei pittori. Dei due riquadri alle estremità della parete, quello di sinistra contiene l’immagine di una statua togata con la scritta verticale “Cicerone”, mentre in quello sulla destra c’è un ufficiale moderno in divisa munito di sciabola ma senza nome leggibile. Nei due intervalli fra le tre figure, vi sono due pannelli. Quello di sinistra, su uno sfondo di cielo azzurro, mostra in primo piano una balaustra in marmo, dietro alla quale si intravede una chiesetta con campanile e poi, tra due alberi di ulivo, una sorta di statua rappresentante una figura femminile che regge una spada nella mano destra e sul braccio sinistro una torre; chiaramente, un’immagine di Santa Barbara, patrona appunto del Genio (oltre che dell’Artiglieria, della Marina, dei Vigili del Fuoco ed altro, che si festeggia il 4 dicembre), anche se al posto della palma del martirio qui regge, appunto una spada ed è priva di aureola. L’altra scena è quella più riconoscibile ed anche la più importante per darci un indizio della possibile data dei dipinti: sullo sfondo romano del Colosseo e dell’Arco di Costantino, anche qui con un cielo azzurro, alcune persone, prevalentemente femminili, si tolgono collane ed anelli e li depositano in due contenitori, tra i quali monta la guardia un “figlio della Lupa” o un “balilla”. Vi sono poi due uomini dai tratti un po’ confusi, mentre le altre figure sono sei donne, tra cui una madre con bambino in braccio. Finalmente, su un piccolo podio con due gradini, una statua seduta in armi rappresenta la dea Roma.
Parete D – qui notiamo tre riquadri architettonici, alle cui estremità sono le due solite cornici con ritratti a figura intera su fondo oro: sono sempre figure umane, ma rappresentate come statue in bronzo. Il primo a sinistra è Cesare Augusto, come spiega la scritta verticale, mentre di quello a destra, in toga, non si legge il nome (forse Virgilio?). Tra le due figure, la scena centrale mostra uno specchio d’acqua, un braccio di mare con le onde ed una terra lontana, oltremare. La catena di un’ancora e delle rocce vedono, a destra, in cielo, una grande aquila che regge un fascio littorio ed un gruppo di persone: seduta, una madre bruna che tiene in braccio una bimba bionda ed ha accanto un bambino più grandicello biondo anch’esso e dietro di lei un ragazzo ed una ragazza a loro volta biondi (ma tutti e quattro questi giovani biondi hanno capelli ricci) e seminudi. Dietro di loro, un guerriero con elmo crestato (Enea?) indica la terra lontana ed ha accanto a sé un soldato moderno a torso nudo e moschetto a tracolla. Per il momento, il significato di questa scena o il suo riferimento storico resta da scoprire.
Con questa descrizione verbale, i miei schizzi e le fotografie della mia relazione (documentazione dello stato al 2005), cui si aggiungono le molte recenti dovute alla ricognizione dello scorso mese di ottobre, i Lettori dispongono d’un quadro completo del ciclo pittorico dell’Aula Magna della Scuola Centrale del Genio. Continuo a ritenere opportuna la mia idea ripetutamente espressa, che chiunque abbia interesse a constatare direttamente, di persona, l’aspetto del Ciclo nel suo ambiente originale dev’essere messo nella possibilità di farlo.

Il mio incarico ultratrentennale di ispettore onorario per i Beni Archeologici, Architettonici, Artistici e Storici del Comune di Civitavecchia, giunto dopo altrettanti anni di collaborazione con le varie Soprintendenze, che allora erano organismi diversi (Archeologica, ai Monumenti, ai Beni Artistici e Storici, alle Gallerie ecc.), si è svolto attraverso una costante attività di coordinamento e di sinergia tra i vari istituti del Ministero prima della Pubblica Istruzione, poi per i Beni Culturali e gli uffici comunali (Urbanistica e Lavori Pubblici) e quelli portuali (Consorzio prima e Autorità poi, oltre alla Capitaneria), con lo scopo di armonizzare e rendere coerenti gli interventi sul territorio. Allo stesso tempo, sono stati mantenuti rapporti di mutua assistenza con tutti gli altri enti operanti nel comprensorio per la programmazione pluriennale delle opere pubbliche e delle infrastrutture, fornendo in alcuni periodi un utile supporto formativo e didattico anche ad alcuni agenti della Polizia Giudiziaria.
Per quanto riguarda i programmi interregionali, e intercomunali, i piani urbanistici ed i progetti di opere pubbliche, come ho dimostrato, la nostra regola comportamentale dichiarata era l’apertura alla collaborazione più ampia, la partecipazione dei cittadini e delle categorie professionali. Ho citato alcuni titoli dei mei scritti in proposito: «Un progetto partecipato», «Una insolita collaborazione tra enti pubblici». Ma soprattutto, il CDU, il Centro di documentazione urbanistica, cioè quella anticipazione degli odierni “Urban Center” (mai compresi, ahimè, da alcuni) era uno strumento di raccolta e di classificazione di una infinità di documenti, di studi, di pubblicazioni, di informazioni, di progetti e di notizie, a disposizione della cittadinanza, di tutti. Dove sono tuttora conservati tutti gli studi, le ricerche archeologiche, storiche, urbanistiche, legislative ecc. su tutti gli aspetti del territorio, redatti da esperti e specialisti di altissimo livello, dove sarebbe possibile reperire qualsiasi dato o notizia sia necessario per qualunque finalità.
Sui cicli pittorici (ripeto: dipinti a tempera, non ad affresco), a questo punto, riassumo, in conclusione, il mio pensiero. Come tutti i cicli (le Stazioni della Via Crucis, per fare un altro esempio), sono composti da “scene” che non possono essere separate l’una dall’altra. Le dimensioni del fregio sono notevoli. Notiamole. L’altezza è di circa metri 2,50. Quindi le figure umane rappresentate sono all’incirca di grandezza naturale. I lati dell’Aula sono di circa metri 13 per 8, per un totale di quasi 42 metri di lunghezza. La superficie dei dipinti è di quasi 33,50 metri quadri per ognuna delle parteti lunghe e di 17,50 metri quadri per ciascuna delle parteti corte, per un totale approssimativo di 102 metri quadrati di superficie pittorica. Va detto: i genieri Boselli e Mastrangelo hanno fatto proprio un buon lavoro! Sarebbe interessante sapere quanti giorni hanno lavorato, arrampicati su una impalcatura a quattro metri d’altezza. E certo, è anche una bella superficie da restaurare! E poi da asportare, non con il semplice distacco, ma a massello, “tagliando” la muratura, il che porterebbe con tutta probabilità alla perdita di gran parte dei dipinti. Oltre alla perdita del contesto storico e spaziale, come se un’opera dichiarata di alto interesse storico e artistico fosse un soprammobile da spostare dove aggrada. Sono convinto che la soluzione di questo problema creatosi in modo poco comprensibile intorno a questo Bene Comune da tutelare in quanto, oltre al resto, patrimonio prezioso della città di Civitavecchia, sia molto semplice e senza oneri per il Comune. La illustro nella figura 113/4 dove appare in tutta la sua banale facilità.
Darò conto ai Lettori in modo dettagliato di quale sia questa soluzione, ma per il momento ribadisco una precisa posizione culturale che non può essere superata da banali motivazioni di natura contingente, che in realtà richiedono ancora tempi lunghi e procedure complesse per la loro effettiva conclusione. Trovo nella tesi La rimozione della pittura murale. Parabola degli stacchi negli anni Cinquanta e Sessanta del xx secolo della dottoranda Cecilia Metelli, discussa alla Università degli Studi Roma Tre – Dottorato in Storia e Conservazione dell’oggetto d’arte e d’architettura. XX Ciclo Dottorale – Coordinatore del Dottorato Prof. Daniele Manacorda, Tutor Prof. Mario Micheli (A.A. 2006/2007) una frase che esprime ottimamente ed autorevolmente la posizione corretta circa la questione dello “strappo”, analizzando gli errori e le scelte rivelatesi deleterie di quella che Antonio Paolucci ha definito la stagione degli stacchi, cui è seguita fortunatamente una inesorabile parabola discendente:
“La parabola del dipinto staccato potrà forse un giorno rappresentare simbolicamente la politica di conservazione dei beni culturali basata sul restauro come uso dei beni stessi. Per quanto nobili possano essere i fini di questo uso, è probabile che i danni da esso prodotti supereranno gli effetti combinati che fattori ambientali e crisi di civiltà hanno determinato in passato” (Giorgio Torraca, 1973)
FRANCESCO CORRENTI
(2 – continua alla prossima puntata)

Sono un “ciclo”? Sì. Quindi sono un racconto unitario, perciò vanno conservati insieme. È pericoloso amuoverli? Con dovizia di documentazione Francesco ci dimostra il danno irreversibile che ne deriverebbe. Perciò faccio anche mio l’appello di Francesco: salviamoli! Sono testimoni della storia e peraltro artisticamente pregevoli. Maria Zeno
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La logica di certe scelte dovrebbe accompagnarsi ad una valutazione dei costi di scelte diverse, oltre tutto non adeguatamente consapevoli del significato e dei doveri che il decreto di vincolo comporta. Cara Maria, lo “svelamento” odierno dei vincitori del Premio Eugenio Scalfari dovrebbe dire qualcosa. E lo dirà. Intanto ti ringrazio e restiamo in attesa di altre adesioni “geniali”.
Francesco Correnti
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