RUBRICA BENI COMUNI, 81. SE LA STORIA È SINGOLARE (seconda parte)
a cura di FRANCESCO CORRENTI ♦
(2 – Continua dalla puntata precedente)
La pubblicazione della nuova opera storiografica – di cui peraltro parlo con il notevole ritardo di cinque anni rispetto alla data di pubblicazione, cioè, come già ho detto, il 2019 – mi ha dato l’occasione (e la scusa) di ricordare agli amici del Blog il notevole e variegato “catalogo” delle opere precedenti, tutte abbastanza ben conosciute tra quanti coltiviamo questo settore degli studi. Non ho avuto modo di consultare altri “coltivatori”, se non proprio gli amici sentiti telefonicamente in questi giorni per la riapertura del Blog dopo la pausa estiva, ed ho constatato che il volume de La Storia di Civitavecchia curato da Giorgio Galeazzi non era noto, tra loro, neppure a chi, come Fabrizio, vi è citato quale protagonista di momenti politici drammatici. È però probabile che, invece, il libro sia diffusissimo in altri ambienti cittadini più aggiornati e moderni.
Ho notato che le copertine dei vari volumi della collana (e delle sotto-collane), pubblicate sul risvolto della controcopertina del volume, sono tutte illustrate da opere di scultura, come appunto quella di Civitavecchia, sulla quale campeggia la testa del «vecchio fauno dalla cui bocca sgorga acqua (a volte, si potrebbe dire, negli ultimi anni). Una scelta coerente, che individua in un monumento caratteristico e significativo l’emblema visivo della città.
Per quanto riguarda i contenuti, il volume – che conta 202 pagine – è suddiviso in 10 capitoli, in cui la lunga vicenda «dalla Preistoria ai nostri giorni» è narrata, come si esprime esattamente nella Prefazione l’editore, il noto giornalista Luigi Carletti già del Gruppo L’Espresso, «in un flusso di avvenimenti» che mi è apparso effettivamente “singolare”, al di là dell’articolo da cui ho voluto prendere spunto per entrare in argomento in modo non troppo serioso. Nella presentazione sulla quarta di copertina, è detto che il libro «funziona come una macchina del tempo capace di ridare vita alla storia». Questo, in teoria, vale per qualunque scritto del genere. In una città dove oggi esiste una Macchina del Tempo con una possibilità di immersione “reale” in un frammento di passato, vedremo di scoprire le effettive capacità del libro in questo senso.
Nella lettura de La Storia, ho subito notato un tono discorsivo e l’uso di un linguaggio informale, con termini non paludati e con l’andamento di una cronaca giornalistica, anche trattando di fatti di epoche lontane. Un pregio, dato il pubblico a cui penso si rivolga questo editore. E chiarisco subito che le mie eventuali osservazioni non intendono essere rilievi, giudizi, meno ancora critiche. Su alcuni aspetti farò presente una mia interpretazione diversa, ma solo quale doveroso contributo alla divulgazione al pubblico di dati che ritengo obiettivamente corretti secondo quella “rilettura critica” di cui ho detto in precedenza.
Alcuni titoli dei capitoli e dei paragrafi mi hanno confermato quel senso di “singolarità” che ho sottolineato: «Un territorio ricco di animali uomini e leggende» è una enunciazione buona per molte altre zone, «I primi piedi umani sul terreno di Civitavecchia» mi fanno pensare all’impronta di “Venerdì” sulla sabbia di Robinson, «La nascita di Civitavecchia, perla di imperatori e soldati» sembra uno slogan oggi senza troppi “followers”, se così si può dire.
La descrizione di tale nascita (pp. 30-31) è accattivante e vivace, anche se l’attribuzione del loco nomen ai «tanti anfratti» suona decisamente antiquata: «Nel 107 d.C., Plinio il Giovane viene invitato dall’imperatore Traiano a visitare i lavori della sua nuova villa a nord di Roma. I colori sono quelli tipici della fine dell’estate o dell’inizio dell’autunno. Di fronte agli occhi dello scrittore si apre un panorama stupendo, una costa incantevole, ancora sconosciuta all’aristocrazia romana. Il luogo si chiama Centumcellae, per i tanti anfratti che uniscono la terra e il mare e che formano come una moltitudine di stanze protette. Una caratteristica che però sta scomparendo, già sotto gli occhi di Plinio per mano degli operai dell’imperatore, che stanno costruendo un porto. Assistendo al cantiere non può che magnificare la volontà di Traiano, che ha scovato un luogo tanto incantevole per renderlo accessibile ai romani. Mentre osserva l’avanzare dell’opera, Plinio viene colpito dalla bellezza dei prati fioriti che arrivano fino al porto. I lavori fervono e già si comincia a vedere la futura forma che la struttura avrà una volta completata. Due braccia ad anfiteatro che chiudono un grande bacino e danno un ricovero sicuro le navi. Una di esse rimane oggi ricordo della città: il molo del Lazzaretto o Fortino San Pietro. Un’altra struttura in costruzione nello stesso luogo viene notata dello scrittore: si tratta del futuro faro, guida delle navi di notte ed elemento importantissime in ogni porto. Plinio prevede per il porto un futuro roseo, vista l’assenza di altri scali così importanti nell’arco di chilometri».
Così appaiono un po’ troppo spigliate le certezze del brano seguente, in cui spicca una attribuzione del Pantheon, con quel “quasi certamente”, anche questa piuttosto singolare, come la descrizione della «serie di gallerie» (i canali a volta del braccio destro, ben consolidati nella tecnica portuale romana e non inventati da Apollodoro) : «Il progetto è dell’architetto di fiducia dell’imperatore Apollodoro di Damasco. Per lui ha già costruito diverse opere ancora oggi ammirate. I mercati e il foro e quasi certamente il Pantheon a Roma. Per lui ha probabilmente realizzato in passato un porto: quello di Ostia, dove ha mostrato un’ottima capacità ingegneristica oltre ad un estro infinito. Eppure qui a Civitavecchia si supera, inventando, per evitare l’insabbiamento del porto, un metodo ingegnosissimo. Una serie di gallerie perfettamente studiate e calibrate consentono infatti alle correnti di passare senza recare danni o trasportare sabbia all’interno del bacino».
Pur lasciando indeterminata la fase di passaggio dalla villa alla città, il racconto della formazione del centro urbano è corretto, e così la derivazione della Prima Strada, attuale Corso Marconi, dal cardo massimo, di cui sono grato (benché non nominato): «Intorno al porto che fiorisce di commerci e trasporti, nei decenni seguenti sorge una città, basata come tutte [sic] gli abitati di fondazione romana su un sistema quadrato derivante dalla forma dell’accampamento. Camminando oggi lungo corso Marconi si sta ripercorrendo la strada principale che per secoli hanno calpestato gli antichi abitanti di Centumcellae: la via è il cardo massimo [grazie per la fiducia], da nord a sud, che, insieme al decumano massimo, da est a ovest divide in quattro parti uguali l’abitato. La forma ricalca quella molto pratica degli accampamenti, perfettamente rettangolare e ortogonale, che tuttora a distanza di millenni, distingue il cuore del centro storico di molte città di fondazione romana. Sotto i piedi di chi la percorre oggi e negli scantinati degli edifici moderni circostanti si possono ancora ammirare, nascoste tra un pilone di calcestruzzo e un altro, le vestigia dell’antica città, come si può leggere e vedere nel libro “Civitavecchia Sotterranea“, a cura di Francesco Cristini, Roberto Diottasi e Odoardo Toti. Qualche perplessità suscita in me la definizione di Claudio Rutilio Namaziano quale «politico romano di origine francese» e pure la denominazione della nuova città fondata per i profughi da Leone IV. Sostenere che «l’anno successivo il pontefice muore e i nostalgici abitanti della città iniziano a chiamarla con il vecchio nome di Centumcellae, volgarizzato in Cencelle» non tiene conto che nel nuovo centro fortificato e riparato si trasferisce, prima ancora del popolo di sudditi e fedeli, il vescovo con la sua sede vescovile, che è denominata appunto Centumcellae, mentre la dizione Cencelle, o meglio Cencellae non è la volgarizzazione dell’altro, ma la sua abbreviazione, sia nel linguaggio corrente, sia nei documenti scritti.
Alle pp. 44-45, La Storia affronta un altro periodo: «Nell’VIII secolo, invece, una minaccia giunge dall’altra sponda del Mediterraneo. Sono uomini di un’altra fede, che mette in crisi le certezze della città: i Saraceni. Sono una popolazione di fede musulmana che ha come obiettivo la diffusione e la massima espansione del loro credo e della parola profetica di Maometto. Utilizzano metodi pirateschi che terrorizzano le genti della costa, con continui assalti e razzie delle cittadine più esposte. Oggi una traccia della loro esistenza rimane nelle numerose torri che ancora si possono vedere lungo tutta la costa tirrenica, costruite per avvistare e avvertire per tempo gli inermi abitanti del loro arrivo. Numerose sono sopravvissute, isolate ai margini del mare o inglobate negli edifici moderni, simbolo materializzato del terrore di quel periodo. Nel territorio ne rimangono molti esempi, tra i quali la Torre Saracena, primo elemento edificato del futuro Castello di Santa Severa».
Senza aver nulla da obiettare sui fatti narrati, devo rammentare che le Torri sul litorale di Civitavecchia sono state edificate da Paolo V Borghese agli inizi del XVII secolo, con finalità difensive rivolte ormai a eventuali azioni di provenienza molto meno esotica. Ma in generale, si può tranquillamente affermare che nessuna delle Torri cosiddette “saracene” ha avuto a che fare con quei feroci saccheggiatori delle nostre coste durante l’VIII e il IX secolo (delle incursioni e invasioni ho disegnato una cartina piuttosto esatta nel 1975, pubblicata in Chome lo papa uole…, vol. I, p. 165, fig. 240), né sono state fatte da loro né contro di loro! Nei secoli che videro attiva nella difesa la flotta pontificia di Civitavecchia, il pericolo era rappresentato dalle marinerie dell’impero ottomano («All’erta all’erta la campana sona, li turchi so’ arrivati a la marina!») e la violenza del conflitto tra le parti era altissima. Per alcuni aspetti logistici e di costume, ottimamente descritti da vari autori, rimando agli articoli apparsi qui su SpazioLiberoBlog, come il mio del 1° luglio 2021 (“Vanvitelli e il bazar de’ Turchi schiavi”) ed alla letteratura sul famoso Prato del Turco.
Motivi più consistenti di perplessità sulla trattazione scientifica dell’argomento, mi sono dati dal paragrafo 4.8 Un samurai a Civitavecchia. Questa volta, il fascino della vicenda e l’eccezionalità della quasi incredibile impresa (che comunque restano intatti), prendono la mano al curatore e lo portano ad una ricostruzione tutta di fantasia, dimentica della realtà. Ne trascrivo buona parte, per consentire al Lettore di leggere direttamente le notizie che contengono le informazioni inesatte. Infatti, il galeone nipponico – non trovando pronto un canale di Panama – si fermò ad Acapulco e nessuna memoria della Missione Keichô rimase tra gli abitanti di Civitavecchia, non essendoci stato all’epoca alcun contatto diretto tra la popolazione e i (poco numerosi) componenti dell’ambasceria.
Dobbiamo gli attuali scambi culturali e tutte le iniziative legate a quel Viaggio oggi tanto celebrato a Lucas Hasegawa, che ha riprodotto il ritratto di Hasekura (traendolo dal libro di Michele Amati) a partire dal 1950, tra i dipinti nella chiesa dei Martiri Giapponesi, e all’iniziativa del sindaco di Ishinomaki, Kenya Chiba, che nel 1971 propose il gemellaggio a Civitavecchia, essendo sindaco Pietro Guglielmini, dopo che un avvio di trattativa si era avuto con Sendai una decina di anni prima. Questa la versione fornita dal libro: «È il 1615, precisamente il 18 ottobre, quando nel porto di Civitavecchia arriva una nave particolare. Forse nessuna imbarcazione che aveva mai ormeggiato fino a questo momento sui suoi moli aveva percorso così tante miglia. Questa barca ha infatti attraversato ben due oceani prima di giungere qui: il Pacifico e l’Atlantico. Viene da un paese lontanissimo e allora quasi sconosciuto: il Giappone. Al comando della delegazione un samurai, Hasekura Tsunenaga, inviato per conto del proprio paese per trovare un accordo con l’Occidente. [omissis] Il problema maggiore che devono affrontare è la costruzione di una nave in grado di attraversare gli oceani, cosa che finora nessuno di loro aveva mai fatto. Per questo viene realizzata un’unità, una galea, sui modelli di quelle occidentali. Ed è lei che dopo due anni di viaggio porta la delegazione nell’ottobre del 1615 a sbarcare a Civitavecchia. Nella città rimane per ben due settimane. Si può immaginare quanti contatti tra gli oltre centocinquanta uomini venuti insieme al samurai avvengano con il popolo di Civitavecchia; all’inizio curioso e un po’ impaurito, ma che ben presto accoglie con gioia la gente arrivata da lontano. Il 3 novembre, a Roma, finalmente il Papa accoglie Hasekura, che ottiene dal pontefice l’invio di altri missionari nella sua terra. Portata a compimento la sua missione, la delegazione riparte lasciando però un ricordo indelebile tra i civitavecchiesi. Infatti, oggi la città è gemellata proprio con il porto di partenza di Hasekura, Ishinomaki, e alla fine di via Guglielmo Marconi il ricordo dell’evento è celebrato da una statua che raffigura il samurai.»

Sempre per gli stessi motivi che mi avevano fatto ritenere “singolare” il volume de La Storia di Civitavecchia dell’editore Typimedia, riporto qualche frase che mi appare parimenti originale, sempre senza esprimere giudizi, ma solo per notare una loro forse eccessiva “stringatezza”: la prima, a p. 91, «Civitavecchia è finalmente libera e italiana. Inizia così un periodo ben diverso per la città, non più segnato da lotte e guerre ma da modernità e divertimenti.» La seconda, a p. 113: «Pentole e padelle addosso ai fascisti a piazza Vittorio Emanuele II.» La terza, a p. 126, su Antonio Gramsci: «Qui [a Civitavecchia] trascorre diciotto giorni prima di essere portato, su richiesta dei suoi parenti, in una località più salubre.»
Indubbiamente utile è la ricca cronologia delle “Date”, da ritenere una elaborazione autonoma (che è presente in tutti i volumi della collana), non essendo citato l’Almanacco civitavecchiese (Bollettino SSC n. 8 e 9) di Enrico Ciancarini, presidente della Società storica civitavecchiese, mentre si parla (pp. 115-116) della sua «storia ben raccontata nel libro dal titolo “Il fascio spezzato”.»
Per concludere, posso dire che complessivamente trovo il volume in questione un’utile opera storiografica di attualità, con riflessioni e interrogativi rivolti al futuro, su aspetti poco o affatto affrontati tanto dalle “Storie” che possiamo definire classiche, quanto da quelle di carattere specialistico e da quelle con finalità turistiche. Tra noi che conosciamo la città dei nostri anni di attività lavorativa (quindi dagli anni Sessanta del Novecento al primo decennio di questo secolo), possiamo dirci che nell’”Indice dei nomi” troviamo Carlo De Paolis, Athos De Luca, Pietro Tidei, mentre non figurano altre personalità della politica, della società civile e dell’arte delle cui benemerenze conserviamo grato e doveroso ricordo. Più che opportuna e condivisibile la pagina dedicata ad Eugenio Scalfari, al quale il nostro SpazioLiberoBlog è fortemente legato, tra l’altro, dal Premio annuale Eugenio Scalfari-Città di Civitavecchia, la cui prima edizione fu presentata nel novembre 2022.
Una annotazione finale sento di doverla fare sul fatto che nel volume è presente una sola “cartina” della città, una planimetria schematica con poche indicazioni e quattro riferimenti fotografici: il Forte, il Porto, la Cattedrale e il Teatro. Senza che ai Lettori sia mostrata nessuna riproduzione della sua immagine storica, pure così emblematica e idealizzata durante il volgere di tanti secoli, per la rigorosa e coerente fedeltà al disegno originario della villa-città quadripartita con il porto ad anfiteatro delineato dai due bracci asimmetrici, dall’isola artificiale e dal bacino scavato all’interno. Una scelta o una dimenticanza. Non so dire. Certo, non mancano le possibilità per i Lettori del volume di documentarsi in proposito nella sterminata iconografia del soggetto. Però…
(2 – fine)
FRANCESCO CORRENTI
