RUBRICA “BENI COMUNI”, 68. CONFRATELLI
a cura di FRANCESCO CORRENTI ♦
Il titolo di questa puntata è un po’ ipocrita, anche se effettivamente risponde ad un modo di rivolgersi tra colleghi, ricalcando l’analoga forma francese, certamente però più elegante, con quel profumo accademico, aulico, che manca a noi: «Monsieur le Président, mes chers Confrères, …» e subito ci si trova in un consesso solenne, probabilmente sotto una Cupola luminosa, davanti a quaranta persone che indossano un abito nero con rami e foglie d’ulivo ricamati sul davanti in verde e oro.
A sentirlo dire in italiano, si pensa invece di ritrovarsi in un racconto ambientato nel refettorio d’un convento di frati con il saio ed il cappuccio, quello appunto da cappuccino, che non copre il viso, oppure in processione – tra incappucciati, questi, a viso coperto con due asole per gli occhi – a sostenere il fercolo d’un Santo o d’una Santa, oppure in una puntata d’un romanzo d’appendice dell’Ottocento, come quello siciliano dei Beati Paoli, sempre ugualmente incappucciati e con qualche torto da raddrizzare. Anche in una loggia di frammassoni d’una qualche osservanza. Gli ingredienti sono simili. Se è un romanzo, a dirla in francese c’è la parola feuilleton, e tanto basta a dirci lontani dall’Institut de France.
Devo dire, tuttavia, che ho preso spunto da un libro di Pierluigi Battista, editorialista della «Stampa», Parolaio italiano, sottotitolo in copertina “Dieci anni di cultura (e incultura) nazionale”, edito da Rizzoli (RCS Libri) nel 2003 e tratto dalla rubrica tenuta dall’autore sul quotidiano. Il “corsivo” che mi è parso adatto, l’ho trovato a pagina 216, cercando nell’indice analitico dei nomi il primo che mi è venuto in mente tra quelli di celebri colleghi, Renzo Piano (al quale comunque, incontrandolo in Italia, non darei mai del Confratello).
Contenuto nel capitolo “Duelli”, che effettivamente ha molta più attinenza con i fatti narrati, è intitolato Lampade e lampadine. Devo aggiungere che di questo divertentissimo volume da me acquistato quand’era apparsa la prima edizione, cica vent’anni orsono, avevo completamente dimenticato l’esistenza, essendo finito – dopo averlo letto – in una delle due libreriole del corridoio delle camere da letto, dove tengo una miscellanea di opere e operette di recente acquisizione, che escono dai grandi filoni tematici di mio interesse conservati, con maggiore attinenza al soggetto, nelle librerie dello studio, dove la ricerca d’un dato volume è fatta sempre con una certa urgenza e dev’essere immediatamente riscontrata. Cosa che solitamente avviene, perché l’ordine è mantenuto e la memoria è ottima. Per ora.
Riporto il breve testo del corsivo.
Intervistato dal settimanale Lo Stato, l’architetto e urbanista Pier Luigi Cervellati dedica affettuosi pensierini ai più prestigiosi e illustri tra i suoi colleghi italiani. Affettuosissima l’allusione all’architetto Renzo Piano: «Per chi distrugge edifici c’è una nemesi storica: i loro edifici verranno egualmente distrutti. Invece Piano realizza opere “usa e getta” e poi non si rassegna al loro decadimento». Iperaffettuose le considerazioni su Vittorio Gregotti: «Non sa fare i piani regolatori e continua a proporsi come pianificatore». Superaffettuoso il ritratto di Gae Aulenti: «Fra vent’anni nessuno si ricorderà di lei. Anche se ha disegnato una bella lampada». (26 gennaio 98)

Ad attenersi allo scritto di Battista, che è uomo d’onore (senza sottintesi), ed alle sue dimostrazioni di affetto tra architetti, viene spontaneo adattare il vecchio proverbio e dire: “Confratelli coltelli”, anche se, a onor del vero, è stata sentita solo una campana, senza interpellare le altre. Per giunta, campane altisonanti ma ormai d’altri tempi. Dopodiché, è altrettanto spontaneo chiedersi se questa acrimonia riscontrata tra alcuni grandi nomi dell’architettura italiana valga effettivamente anche tra altri nomi analoghi e attuali e più in generale tra professionisti meno famosi o se volete di fama “meno chiara”, in luoghi, città, paesi e ambienti più ristretti. Potete immaginare che ho subito pensato di applicare il test alla solita città di provincia che sappiamo, ma poi ne sono stato dissuaso dal fatto che, a parte la mia lontananza ormai quasi ventennale con la conseguenza della scarsa dimestichezza con fatti e persone di oggi, mi sembra di notare una drammatica assenza di protagonisti tecnici della cronaca locale. Se dovessi seguire l’esempio di affettuosità additato da Pierluigi Battista dovrei dire che non vedo attività edilizie in atto se non di minimo livello, che non mi giungono echi di brillanti o nefaste proposte di innovazioni territoriali (a parte – e qui potrei fingere una nobile autoironia e così spingermi alla perfidia – innocui richiami di antologie nostalgiche che restano inesorabilmente nel libro dei sogni, non essendo miracolosamente arrivate in quello degli incubi realizzati), che non vi sono concorsi (tanto, tutti quelli fatti non son serviti a nulla) o mostre di alcun tipo in materia e che non ho particolari notizie dei professionisti attivi. Dovrei aggiungere che anche la compagine degli uffici sembra mutata, con nuovi arrivati vergini delle nozioni che furono gioia e tormento dei decenni della Preistoria e del Medioevo (PRG? Per Ricevuta Grazia… PUGC? Pregasi Usare Gabinetto Civilmente…). Dovrei, infine, concludere che la situazione delle nostre professioni in quel settore del mondo lavorativo si è completamente modificata in venti anni e che, al di fuori della normale concorrenza, quanti vi operano abbiano altro da fare che beccarsi tra loro come tradizionalmente facevano i celebri “polli di Renzo” (quello lecchese). La mia appartenenza, sancita dall’ultimo ponderoso volume dell’Ordine di Roma sugli over 50 di professione, al gruppetto dei “Decani” mi richiama alla mente un altro Ordine, quello del mio amatissimo padre Labat (quelli sì, veramente “Confrères”), che amavano rappresentarsi come fedelissimi Domini canes, nelle loro divise bianche e nere dei “cagnòli” (dàlmati) della carica dei centouno, e questo mi porta a vedere le cose con distacco, nella loro giusta “prospettiva storica”. E qui, davvero, sta il punto e lo spunto.
Recentissimi episodi e ripetute letture di esternazioni sui “mezzi sociali” di cui disponiamo, in effetti, mi fanno ritenere che qualche maggiore spunto su affettuosi scambi di opinioni e di valutazioni potrebbero essere ritrovati nella categoria dei Cultori-di-memorie-civiche, particolarmente numerosi proprio nella “solita città” di cui sopra. Questa categoria, in cui per certi aspetti, con alcuni limiti e senza presunzione credo essere annoverato, è formata sia dai numerosissimi singoli studiosi sia dalle quasi altrettanto molteplici associazioni in cui i primi sono aggregati o lo sono stati più o meno a lungo. Gli uni e le altre si caratterizzano per quello che si potrebbe definire – con termine tornato d’uso frequente – “patriottismo”, cioè amore per il luogo natio, sia pure non esteso al Paese (Nazione!) ma ristretto al paesello, però spinto a livelli sublimi. E già in queste frasi, dimostro a mia volta una certa propensione (colposa?) per le affettuosità che vado cercando in altri.
Ma spero sia evidente la mia assoluta volontà di non voler esprimere pareri, additare esempi o riferirmi a persone esistenti o a fatti realmente accaduti con intenti critici. Come sono del tutto casuali, solo perché attinenti e disponibili, “di repertorio”, le foto di queste pagine. «Chi sono io per giudicare?» è un altissimo ammonimento, un precetto, un esempio vero, questo, che per tantissimi miei motivi non posso non seguire. Resta però il fatto che la mia propensione, anzi il mio dovere istituzionale, sia quello di favorire e perseguire la massima concordia e la più totale sinergia tra quanti operano nel campo della Cultura e quindi, ovviamente, della Storia – comunque articolata e indirizzata – delle vicende locali.

In effetti – riprendo parole già dette –, Civitavecchia può vantare una serie di opere, sulla propria storia, che raramente centri similari possiedono. Senza risalire alle fonti antiche e limitandoci alle vere e proprie “storiografie municipali”, abbiamo fin dai primi del Settecento le Antichità e Memorie di Arcangelo Molletti, del cui manoscritto ci siamo ripetutamente occupati, volentieri o costretti. Nello stesso secolo del Molletti, appaiono quasi contemporaneamente a Roma, nel 1761, l’Istoria dell’antichissima città di Civitavecchia scritta dal marchese Antigono Frangipani, Nobile Romano Conscritto e capitano col comando in capite della truppa pontificia di sbarco sopra li bastimenti da guerra papalini ed il volume Delle antiche Terme Taurine esistenti nel territorio di Civitavecchia, dissertazione in cui si premettono le memorie cronologiche di essa città e trattasi in fine delle native, ed avventizie qualità di sua atmosfera di Gaetano Torraca, Dottore di Filosofia e Medicina. Pochi, ormai, dovevano ricordare a Civitavecchia il soggiorno e la figura di Jean-Baptiste Labat, che si era spento, settantacinquenne, nella sua Parigi da ventitré anni e, forse, della sua opera non era giunta nella città portuale alcuna copia. Quanto meno, nessuno l’ha ritenuta degna di menzione fino al Guglielmotti e al Calisse, quando sarà già trascorso più di un secolo e mezzo dalla sua pubblicazione.
Gaetano Torraca era un giovane esponente di quella “aristocrazia” cittadina con la quale il domenicano francese aveva avuto un rapporto fortemente contraddittorio. Nel 1755 egli pose mano alla stesura dell’accurata dissertazione, sulle acque termali di Civitavecchia, le Acque Taurine, dette anche Vescicarie o Ferrate, già studiate dall’eminente medico forlivese Girolamo Mercuriale (1530-1606), che le aveva visitate al seguito del suo protettore, il cardinale Alessandro Farnese, nipote di Paolo III. Il Torraca impiegò cinque anni a completare la sua opera, in cui volle inserire anche un compendio delle vicende civitavecchiesi dalle origini leggendarie della città fino al mese di marzo del 1761, anno in cui il volume vide la luce, come s’è detto, pochi mesi dopo la pubblicazione dell’Istoria scritta dal marchese romano Antigono Frangipani, capitano della marina pontificia ma forestiero e senza legami con la città, condotta fino al mese di aprile dello stesso anno.
Possiamo immaginare – è una mia sensazione di cui ho scritto altre volte – che le ricerche storiche del Frangipani, venute a conoscenza del Torraca nelle fasi finali dei rispettivi lavori, siano a questi alquanto dispiaciute, spingendolo a frapporre ad esse qualche difficoltà, tramite le proprie conoscenze e soprattutto con l’autorità che il padre aveva modo di esercitare presso il segretario comunale Giovanni Palanca, cui era affidato l’archivio municipale, peraltro effettivamente povero di documenti storici importanti ed antichi. Probabilmente consapevole di questo clima diffidente che poteva trovare a Civitavecchia una storia della città redatta da un forestiero, il Frangipani – ad evitare critiche di trascuratezza – pubblicò per intero la risposta del segretario alla sua richiesta di notizie contenute nell’archivio:
Illustrissimo Sig. Frangipane Colendiss.
In adempimento dei pregiatissimi commandi di V.S. Illustrissima, ho fatto leggere a’ cotesti Publici Rappresentanti la copia del Manifesto stampato gentilmente trasmessami, ad ogetto, che se in quest’Archivio vi fossero state cose di rilevanza, gle le avessero inviate, per apporle nell’istoria per maggior decoro della Città; ma si accerti pure V.S. Illustrissima, che qui non v’è cosa alcuna, che possa dar lustro all’ Istoria suddetta, in modo che, avendo anche il Sig. D. Gaetano Torraca raccolte moltissime cose riguardanti l’antichità di questa Nostra Civitavecchia, non ha potuto né per la Città, né in Archivio rinvenir memoria degna veramente da stamparsi, sicché se vi fosse di già sarebbe stata palesata a V.S. Ill.ma, che con tanto zelo si affatica, nel render illustre la Nostra Città.
Vivendo anziosissimo di leggere una tal Opera di V.S. Ill.ma potrà farmi scrivere tra li Associati, per aver poi a suo tempo lo stampato, e mentre vivo desideroso di ubbidire V.S. Ill.ma in qualsisia altra congiontura con il più vivo ossequio, e rispetto passo a farle un profondo inchino.
- V.S. Ill.ma
Devotiss. ed Obligatiss. Serv. Vero
Civitavecchia a’ 17. Marzo 1760 Giovanni Palanca
In conclusione, possiamo dire che fin dalle prime formulazioni letterarie delle storie cittadine, la pluralità degli autori e la loro inevitabile rivalità, in parte dovuta alla “gara” nel prestigio derivante dall’aver “pubblicato” e in parte al ritorno economico delle vendite, innescano un clima polemico e più o meno espliciti battibecchi, diretti o indiretti.
Per ripetere quanto scritto in proposito nel 1991 (e nuovamente nel 1995), «le iniziative storiografiche del Frangipani e del Torraca venivano a colmare la lacuna determinata dall’assenza di un’opera interamente ed esclusivamente dedicata alla storia municipale. La loro contemporaneità dimostra quanto l’esigenza di una simile opera fosse sentita, il che è confermato, del resto, dal fatto stesso che gli autori e i loro editori abbiano ritenuto l’ambiente locale capace di accogliere con favore i due volumi e coprirne le spese di stampa (la moda di leggere e di scrivere dilagava in tutta Italia e Montesquieu notava l’inutilità che i libri fossero buoni: bastava che fossero stampati e l’autore acquistava subito una considerazione infinita nell’opinione pubblica).»
Senza quel clima polemico, la materia non offrirebbe quegli “spunti” vivaci da me prima citati, che sono necessari per suscitare interesse. Mi rendo conto, perciò, che, con tutta evidenza, il perdurare di quel clima sia dovuto non a reciproche insofferenze ma ad un tacito accordo tra le parti, ad una acuta astuzia bipartisan (o tri- o meglio pluripartisan) per tener viva l’attenzione dell’opinione pubblica. Questo mi rasserena. Onore al merito!
FRANCESCO CORRENTI
