TERAPIA INTENSIVA, UN LUOGO DIVERSO

di LUCIANO DAMIANI ♦

Capita che ti svegli in un luogo per te nuovo, qualcosa di diverso da quanto tu conosca. Ti svegli attanagliato dal freddo, tremante per i brividi. In qualche modo riesci a farti dare una coperta e pian piano recuperi un po’ di tepore, la lucidità si fa strada. Una macchina dietro di te fa un “BIP BIP BIP” cadenzato, regolare, ogni due secondi. Ancora non hai guardato attorno, non sai bene dove sei. Hai fili e tubi infilati un po’ dappertutto, dal collo, a destra, senti di avere un grosso cerotto, avvicini la mano e ti accorgi di avere alcuni tubetti che terminano con qualche cosa di plastica rigida, saranno rubinetti? Anche al polso sinistro hai un grosso cerotto, ne esce un tubetto con due o tre giunzioni, con altri tubi, Sul cerotto c’è scritto, ben evidente: “arteria”. In faccia una mascherina di plastica verde convoglia un soffio di aria, sarà ossigeno. La cosa più fastidiosa é però il tubo che sale su per il naso e poi scende in gola ed oltre, mi sa che pesca nello stomaco. Il letto, in compenso é comodo, molto comodo, ha il massaggio incorporato.
Il luogo é un grande salone a forma di semicerchio. Nella parte esterna, disposti a raggiera, alcuni letti come il mio, alcuni occupati, nella parte interna una sorta di bancone, davanti al quale sono ben disposti alcuni carrelli con i loro cassetti e cassettini. Sopra al banco alcuni monitor di computer. Dietro intravedo gli schienali di alcune sedie. Non so cosa ci sia dietro di me, i miei movimenti sono ridotti al minimo, sono imbrigliato, ma alzando lo sguardo vedo un grande specchio concavo, grazie ad esso vedo dei macchinari e quello che appare una sorta di passaggio dietro una vetrata. Ah.. già, é la vetrata dalla quale i parenti possono guardare i propri cari. Una volta ci passai anch’io. E’ evidente che sono in Terapia Intensiva.
Qualche figura si muove lentamente dietro al bancone, altri invece, rapidi, fra il bancone ed i letti. Sembra esserci una sorta di confine una linea indefinita oltre la quale chiunque passi deve indossare un camice ed i guanti. Infermieri ed altri operatori non fanno che mettere e togliere camici e guanti che regolarmente vengono buttati. Penso che a fine turno ognuno ne avrà consumati 20 o 30, forse più. Ai piedi del letto un tavolinetto sopra cui è posto un raccoglitore con la cartella clinica e tanti fogli, ogni tanto arriva qualcuno che li sfoglia, se li rigira e vi scrive qualcosa sopra. Qualcuno armeggia dietro di me, non so per far cosa, con un siringone mi sparano del liquido in uno dei tubetti attaccati al collo, mentre mi tirano via del sangue da quello che esce dal polso. Una giovane mi punge il dito per misurare la glicemia e mi misura la temperatura. Sono tutti sorridenti e gentili ma ancora non ho instaurato un rapporto, ancora non ho fatto amicizia, mi limito ad osservare e ringraziare, sarò esagerato ma come fai a non ringraziare quando si occupano di te?
Fra un letto e l’altro ci sono dei teli che salgono e scendono, immagino in base ad una sorta di protocollo non scritto. Quando sono abbassati non vedi chi ti sta vicino ma hai sempre la vista sul centro del bancone, ti basta alzare la mano per attirare l’attenzione, anche loro, quelli che sono di la dal banco ti vedono dritto in faccia liberamente. Chiamo spesso… ho un bel catarro e consumo tanta carta, ma a chiunque la chieda ricevo sempre risposte veloci e cortesi quasi sempre accompagnate da un rasserenante sorriso. Mi accostano un secchio di modo che possa facilmente liberarmi della carta sporca semplicemente sporgendo la mano oltre il letto, sembra cosa da poco, ma invece è estremamente utile per non ritrovarsi in breve un letto pieno di carta sporca.
Non ho dolore, ma la consapevolezza della nudità sotto il lenzuolo inizia a farsi strada e a dare un certo fastidio, sono un tipo da pigiama ho apprezzato da tempo il suo senso di comodità e calore, dev’essere l’età, un po’ come le bretelle, non sono virili, ma sono di un gran comodo, e davvero non ho bisogno di togliermi la cinta con un gesto energico come i machi dei films. Insomma… anche potendo, non c’è modo di potersi muovere dal letto, sono come mamma mi fece tanti anni fa tranne qualcosa persa per strada negli anni.
Ogni tanto qualche macchinario dietro me prende a suonare. Sono suoni diversi ma dopo qualche tempo inizio a comprenderli, almeno così mi pare. Alcuni provocano l’intervento immediato di qualche operatore, altri no. Qualcuno viene subito quando piego il braccio destro, mi spiegano che la macchina prende la pressione da un tubetto che finisce nel polso ed entra nell’arteria, per cui capita che piegando il braccio il tubetto si strozzi e scatti l’allarme. Un altro allarme scatta quando trattengo il respiro, anche solo per un attimo, la risposta del personale è immediata. Purtroppo ho il vizio, chissà perché, di trattenere il respiro per qualche momento. Lo faccio ad esempio quando cerco di tirarmi su appendendomi al triangolo che penzola sulla mia testa, ma non solo. Debbo ricordarmi di non trattenerlo, e di non tenere il braccio sinistro piegato, non é facile.
Non puoi muoverti, non puoi far nulla, leggere scrivere, sentire la radio o fare le parole crociate. Del resto non hai nulla né un comodino e tantomeno un armadietto. L’unica cosa che puoi fare é osservare ed ascoltare.
Nonostante ci sia quasi una certa “folla”, tutti si muovono apparentemente con grande sicurezza, pare che tutto scorra senza intoppi in una sorta di confusione ordinata, nonostante gli spazi ridotti e quella sorta di linea invisibile oltre la quale occorre utilizzare camici e guanti usa e getta. La professionalità é alta, i gesti sono sicuri e decisi, mi diverto, senza dirlo, a cronometrare a mente il tempo che i vari operatori impiegano in certe operazioni ripetitive.
Col passare dei giorni mi accorgo che l’attenzione verso il paziente aumenta col diminuire dei pazienti, anche certe operazioni vengono eseguite più accuratamente nella misura in cui il tempo a disposizione lo consente. Ho avuto modo di parlare di questo con un infermiere che mi ha confermato la correttezza dell’impressione. Insomma ho visto il personale dedicarsi ai pazienti con cura, assiduità ed attenzione.
Ma il luogo non é un posto propriamente tranquillo, ad inizio turno c’è una sorta di distribuzione dei malati fra i vari operatori, ma presto capita che accade qualcosa e che l’uno chieda aiuto improvviso all’altro che smette ciò che sta facendo, si toglie camice e guanti per indossarne di nuovi ed accorre rapido in aiuto del collega. A volte un paziente richiede del lavoro prolungato nel tempo, il suo infermiere si dedica solo a lui ed allora i colleghi si fanno carico anche del lavoro non proprio, una sorta di perenne mutua collaborazione.
A volte arriva qualcuno problematico e tutti gli si fanno attorno e tutti sanno cosa fare.
Osservando impari a capire cosa accade, del resto non hai altro da fare. Non hai altro da fare ed allora non puoi fare a meno di ascoltare ciò che si dicono, e capisci che il clima é un clima sereno ed armonioso. Percepisci una certa amicizia diffusa, lo noti anche al cambio turno, non vedi persone che non attendono altro che il turno finisca per andarsene, vedi piuttosto gente che si ferma a chiacchierare, l’uscente con l’entrante, magari si salutano con l’appuntamento per la pizza.
Non ci vuol molto a capire che qualcuno dei pazienti presenti non uscirà vivo da quel posto, ma il personale é ancora più assiduo per lui, e s’intravede in essi una sorta di tenera tristezza nelle parole, negli sguardi e nelle ripetitive operazioni d’assistenza consapevolmente inutili. Ciò finché un giorno si alza il telo alla tua destra e lui non c’é più. Pur essendo sveglio e vigile non mi sono accorto di nulla, una sorta di grande discrezione ha avvolto tutto e tutti. Lui se n’é andato e ogni operazione é stata fatta senza che nessuno se ne accorgesse. Sono rimasto impressionato per questo, nonostante una certa promiscuità, data dallo spazio ristretto, non una espressione, non una voce, non uno scambio di parole ha violato l’intimità della morte del mio vicino. Qualcosa di veramente sorprendente segno della professionalità e della umanità del personale di questo reparto, senza dubbio, del tutto particolare.
Anche quando ti accudiscono percepisci che non si tratta di “mestiere”, ma qualcosa di più, in alcuni ti par di vedere la passione per questo mestiere che, certo, non é da tutti, ma chi ha frequentato gli ospedali sa bene come si vede subito chi lo fa per lo stipendio e chi per una sorta di vocazione, ed in questo reparto abbondano i secondi. Anche i medici, sempre presenti, sembrano essere più attenti ed assidui che altrove.
È evidentemente un luogo faticoso, un luogo per le energie dei giovani, infatti pochi sono gli operatori anziani. Non posso dunque fare a meno di pensare che sia un reparto che ti “consuma”, non solo nel fisico. Non si può soprattutto fare a meno di ringraziare dal profondo del cuore per quello che queste persone fanno nella particolarità di questo reparto, come non si può fare a meno, ed é doveroso per me dirlo, anche ringraziare gli operatori del Pronto Soccorso, altro luogo del tutto particolare, luogo nel quale la tempestività, la rapidità delle decisioni e l’autorevolezza delle disposizioni assieme ad un personale pronto e reattivo ti salvano la vita.
L’Ospedale San Paolo é anche questo, non é solo malasanità, burocrazia ed a volte vetrina per il politico di turno, é anche e soprattutto un luogo di grande umanità, professionalità e sacrificio, doti che si esprimono nella discrezione dei separé e delle stanze chiuse, nella discrezione delle cose che non si vedono e pur ci sono.
LUCIANO DAMIANI
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