Lettera a mio figlio

di VALENTINA DI GENNARO

Tu sei i miei 400 colpi.
Il mio diavolo a 4.
I miei fuochi d’artificio quando non si può.
Sei le notti insonni con l’asma, il vapore, e sto petto!
Tu sei tutto quello che Sofia mi ha risparmiato. Sei gomiti, ginocchia, braccia, pianti, baci, abbracci, ricerca di madre, fondale marino.
Tu sei tutto quello che ti pare.
Sofia ed io, siamo le scolare diligenti.
Tu sei il periodo blu. Tu sei un mattino a Vallauris. Quando sei nato ti sei fatto strada fuori da me. Hai urlato. Si sentiva solo la tua voce per tutto il reparto.
Tu sei Antoine.
Somigli sempre di più a tuo nonno, capace dello stesso guizzo geniale e della stessa profonda malinconia.
Sei tu che corri verso il mare e ci finisci con le scarpe dentro, che guardi dritto in camera, alla fine.
Da me hai preso il viso tondo, la faccia seria pe sto monnaccio che non ci piace.
Il torace si è allargato. Le braccia allungate.
I capelli scuriti. Nessun cherubino più che ti assomiglia.
Vorrei affidarti a San Cristoforo, ma la fede mi è sfuggita dalle mani. Sette anni fa, in sala travaglio chiesi un the. Tuo padre, di 16 luglio, penso bene di portarmene uno bollente.
Non è stato in sala parto, ci sono cose che gli uomini non reggono.
Il momento della levatrice è uno di quelli.
Papà è quello che riceve la telefonata per primo: “è nata, è nato.” E quello che chiede per primo: “E Valentina come sta?”
Ogni sera mi racconti la favola della buonanotte. Le registro e catalogo con dovizia. Ci sono “la patata che mangia troppi dolci”, “la farfalla che ha paura dei ragni che le starnutiscono addosso”.
Non eri ancora uscito tutto da me, che già urlavi, ti facevi spazio.
Da quel giorno, l’unico nuvoloso di quel luglio, sposti tutti i miei limiti, mi costringi a buttare il cuore oltre l’ostacolo, a guardarmi dentro e a non piacermi.
Tu non vuoi risposte, ma abbracci e baci.
Vuoi guance che si accomodano sotto il collo, vuoi mani che trovano posto sotto le ascelle, vuoi labbra che diventano morsi, sonni avvinghiati e risvegli insieme, che è come partorirti di nuovo, ancora e ancora.
Mi costringi alla indispensabilità e questo mi strugge.
La tua giovialità è estranea: sei una creatura luminosa.
Avrei voluto chiamarti Giaime, alla fine, invece sei Enrico.
Un nome della tradizione civitavecchiese, ma anche come Berlinguer, come Erri De Luca.
A casa sei per tutti, Erri, come Harry Potter.
Un nome semplice, per niente modaiolo.
Lontano anni luce dai Kevin, dei Brian, ma anche dagli lacopo, Nicolò o Oceano.
Avrei voluto partorirti a Civitavecchia, invece sei nato a Roma pure tu.
L’infermiera del nido, quando ti portava da me, diceva: “ecco er sor Errico”.
Sei biondo, ma hai gli occhi scuri.
Sei chiaro, ma ti abbronzi.
Le tue parole mi parlano di amore viscerale, di vicinanza e simbiosi.
Ti guardo e nei tuoi occhi vedo i tempi della placenta, il cordone ombelicale, l’ossigeno respirato insieme, i mesi della costruzione delle cellule.
Nel marrone sconfinato del tuo iride, la magia antica che ci ha fatto divisi.
Prepotente e solitario. Di tuo padre hai invece la timidezza e il rossore delle guance. Giocate insieme come due monelli al parco.
Tu mi ami con la venerazione dei santi, io tutti i giorni ti dimostro che la santità non esiste.
Sgualciti e imperfetti. Siamo così io e te.
Come quel primo istante, nelle urla di entrambi, nella notte di luglio, l’unica fresca di una estate caldissima.
Mi prendi il viso e lo tiri verso di te, mi riporti sulla terra. Sei il filo del mio aquilone.
Quando camminiamo affiancati, tu vuoi darmi per forza la mano. Sbatteresti contro un palo, perché guardi solo verso di me e non verso la strada.
A tutto questo amore non mi abituerò mai. A me hanno amato sempre adulta, anche quando ero piccola.
Tutta quella sacralità della notte del luglio che sei nato, tra lacrime e imprecazioni, mentre tuo nonno era in ospedale, non c’è più.
A me sembrava che senza di lui, tu non potevi nascere. Ci sei tu che cresci e io che invecchio, ancora giovane. Una parte di me avvizzisce, un’altra rinasce, più forte di prima non credo. Metto le mani nei tuoi capelli stopposi di un colore che non riconosco.
Non è un gene mio, è un compromesso del dna. Questo è stato l’anno della distanza, della crescita lontani. Non più placente, non più cordoni.
VALENTINA DI GENNARO
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