RUBRICA “BENI COMUNI”, 50. COME MAI?

di FRANCESCO CORRENTI

Da più parti, nelle scorse settimane, malgrado quel clima torrido che fiaccava ogni velleità di movimento fisico e mentale, mi è stato segnalato – nella mia qualità di Ispettore onorario del Ministero della Cultura – il problema dell’imminente demolizione di un antico casale in zona industriale di PRG, lungo la Nuova Strada Mediana, a breve distanza da Via delle Vigne (proprietà Bertini già Mojoli, a quanto ho appreso), al termine dell’iter prescritto dalle norme vigenti, ossia con il parere della Soprintendenza competente per territorio – organo del Ministero della Cultura – e dell’Ufficio Autorizzazioni Paesaggistiche del Servizio 6 Edilizia – Urbanistica – Patrimonio e Demanio Comunale del Comune di Civitavecchia, ai sensi dell’art. 146 del D.Lgs. 42/2004, coordinato ed aggiornato con le modifiche introdotte dalla Legge 9 marzo 2022, n° 22 e dal D.L. 24 febbraio 2023, n° 13, convertito, con modificazioni, dalla Legge 21 aprile 2023, n° 41.

“Da più parti” è termine abbastanza esatto, nel senso che mi hanno interpellato più di una-due / tre-quattro persone, ma non posso dire “molte”, perché a contarle bastavano le dita d’una mano. Tra loro, le notissime persone sempre in prima linea nella difesa del patrimonio culturale cittadino, ad esclusione di quelli che… (essendo ben note, non elenco le altre categorie di notissime persone sempre in prima linea nella difesa del patrimonio culturale cittadino che non mi hanno interpellato).

Attivatomi immediatamente, ho preso contattato sia con i funzionari della Sovrintendenza sia con quelli del Comune e, data l’urgenza, anche con diversi altri soggetti che ho ritenuto di dover interpellare per avere un quadro completo della situazione generale al momento, pur essendo perfettamente consapevole dello stato di fatto nel caso specifico segnalatomi. Il problema sollevato da quel pugno di patrioti (se mi è lecito usare la nobile definizione tornata di attualità per quel ristretto numero di amanti delle memorie civiche) rivoltisi a me era brevemente espresso dalla domanda «Come mai?»

È la domanda che ho posto a titolo di questa cinquantesima puntata ed è la stessa domanda che risuonò, in toni più retorici e forse vibratamente melodrammatici, nella Sala del Consiglio comunale durante la discussione della deliberazione di “revoca” del provvedimento che tutelava e valorizzava il patrimonio architettonico della citta (rimando per le opportune riflessioni all’articolo di SpazioLiberoBlog Ultimissime dal Medioevo. VI. La famigerata variante 30, 1991 – 2000 – 2009 del 13 novembre 2020). Per chiedersi il perché di una demolizione ben più stupida, come abbiamo visto a proposito della diversa sorte delle due ex Centrali Enel, entrambe opera del famoso ingegner Riccardo Morandi, di Fiumicino (in quel Comune) e della Fiumaretta (a Civitavecchia), nelle puntate n° 20 (Fiumicino/Fiumaretta) di questa rubrica, pubblicate il 14 luglio 2022 (1. La notizia) e l’8 settembre 2022 (2. I fatti), che invito i lettori a rileggere.

I nostri “patrioti” di oggi conoscono i termini del problema, non si chiedono perché, a distanza di ottant’anni dai bombardamenti e di settanta e anche meno dalle demolizioni del dopoguerra, a Civitavecchia si continui a demolire qualcosa, perché hanno a cuore e cercano costantemente di approfondi la conoscenza dei “beni comuni” ma conoscono anche esattamente contenuti e limiti delle norme di tutela e valorizzazione. Indubbiamente, la storia della città – ne abbiamo parlato in più occasioni – è dolorosamente caratterizzata da ripetute distruzioni “dall’interno”. Fino a tempi molto recenti, lo sappiamo, la demolizione di preesistenze ha segnato ogni fase dell’evoluzione urbanistica del centro portuale. Si è demolito di tutto (addirittura i simboli supremi della città, laici e religiosi), ma raramente le cose brutte, con la lodevole eccezione per le baracche e le superfetazioni che avvilivano il porto storico, fino alla straordinaria implosione dei silos sul Molo del Bicchiere (grazie, PM!). Ma prima di affrontare ancora una volta la questione generale, credo doveroso precisare, con chiarezza e trasparenza, come mai, nel caso dell’antico casale in zona industriale di PRG, nessuno si è seduto in terra davanti alla ruspa, come avvenuto in altra circostanza (un caso clamoroso).


Eppure quell’antico casale (antico certamente, ma non antichissimo, databile intorno alla metà dell’Ottocento, quindi con circa centosettant’anni di età) era interessante, tanto da essere stato schedato, anche se non inserito nell’inventario redatto in allegato ai provvedimenti di tutela (Elenco degli immobili, complessi edilizi, isolati, aree ed edifici e altri beni da tutelare individuati dal Consiglio comunale con propria deliberazione). In effetti, le caratteristiche planivolumetriche e decorative, la localizzazione e lo stato di conservazione erano tali da non rendere plausibile alcun tipo di vincolo o prescrizione conservativa. Basta vederne sulle mappe di Google lo stato di estrema fatiscenza, con vari corpi crollati.

L’impianto degli edifici rispondeva alla sequenza consueta nella zona, con una serie di corpi in linea: stalla, magazzino, abitazione contadina a due piani, parte padronale a due piani e soffitta sottotetto, ricovero attrezzi e mezzi, con alcuni locali di servizio disposti ad L, sull’angolo del podere. Coperture a tetto, salvo che per la stalla, comignoli di forma lineare. Nessuna particolarità degna di nota, salvo la modanatura del cornicione sottogronda, il disegno convenzionale a finto bugnato semplice (in piano) disposto a cortina del paramento (come era anche nella Villa padronale degli Antonelli, quasi un segno di prestigio) con i giunti incassati e il finestrone a ringhiera con cornice, sormontato da una lunetta ad arco ogivale, a sesto acuto, decorata a stucco da una stella a 12 punte inscritta in una corona a 14 petali. Senza stemmi araldici di sorta. Peccato che il tutto fosse in intonaco e non in pietra, per cui non si è potuto conservare alcun elemento.

Scrivo questa puntata – dato il periodo – lontano dalla mia casa abituale e quindi dallo studio e dai miei archivi informatici e materiali (soprattutto cartacei), che pertanto non posso consultare. La memoria (molto buona, anzi ottima, mai perduta) è di grande aiuto, ma alcuni riscontri sono impossibili. Così la verifica dei toponimi e delle denominazioni proprietarie delle carte geografiche e delle mappe catastali delle varie epoche. Il podere in cui sorgeva il “nostro” casale, col viottolo d’ingresso da Via delle Vigne, stava nell’originaria tenuta camerale del Sugareto, concessa in enfiteusi perpetua alla Comunità da Clemente XI Albani nel 1718. Era il papa degli anni del soggiorno a Civitavecchia del frate-architetto padre Labat e, quindi, della costruzione della nuova facciata della matrice di Santa Maria e di tanti fatti ed episodi che – grazie a lui – abbiamo potuto scoprire e commentare.

Nel 1760, sotto Clemente XIII Rezzonico (quello del rivestimento marmoreo di Porta Livorno e della sistemazione antistante, restaurate e ripristinate nel 2006, dopo i decenni di abbandono seguiti alle distruzioni belliche), vengono dismembrati dalla tenuta numerosi appezzamenti di terreno, concessi in enfiteusi a diversi “particolari” per ridurli a coltura e Carlo Calisse nella sua Storia di Civitavecchia ce ne dà ampia documentazione. Una vasta porzione fu poi acquistata dai Guglielmi, trasferitisi a Civitavecchia da Norcia nella seconda metà del ’700. Le loro proprietà si estendevano da questa (con casale in località Pantano), lungo tutto il litorale, fino a Orbetello e Grosseto e alla marina di Talamone. Comprendevano ampie zone archeologiche, con la città etrusca di Vulci e le sue necropoli, da cui trassero – tra l’altro – l’imponente collezione di bronzi successivamente donata al Museo Gregoriano Etrusco del Vaticano. Sempre attraverso acquisti avveduti, essi aumentarono il loro patrimonio, ebbero tomba di famiglia nella cappella dell’Addolorata nella chiesa della Morte (1835), realizzarono il proprio palazzo gentilizio con oratorio privato sull’area delle mura demolite vicino al Teatro Traiano (1849) e vennero in possesso anche del titolo di marchesi di Vulci (1862), ottenendo l’iscrizione alla civica nobiltà.

Proprio ai Guglielmi mi ha fatto sempre pensare il finestrone del casale, sormontato dalla lunetta a sesto acuto, di cui abbiamo detto più sopra e che è visibile nelle foto e nel mio disegno del rilievo “a vista”. Non solo o non tanto come diretti proprietari del complesso rurale, quanto come famiglia (e suoi importanti membri con varie cariche e benemerenze) sicuramente “influencer” ante litteram di gusti e di mode in quel contesto sociale di Civitavecchia in cui lo stesso Stendhal ne apprezzava il valore. E loro, i Guglielmi, erano fissati col gotico (i lettori mi scuseranno per il linguaggio), facendo propria l’adesione a quel revival dello stile tardomedievale diffusosi in Europa e in America, tanto da brutalizzare la bella cappella barocca avuta in giuspatronato con decorazioni goticizzanti quanto meno “fuori luogo”. Da acquistare e rimaneggiare la chiesa neogotica della Farnesiana (1836). Da costruire nel 1887 (il senatore Giacinto, un nipote) nientemeno che un castello, sempre neogotico, nell’Isola Maggiore del Lago Trasimeno, come residenza estiva dedicata e intitolata alla moglie Isabella, dei marchesi Berardi (proprietari del villino omonimo di Civitavecchia, il caso clamoroso di cui ho detto), inglobando la preesistente torre campanaria romanica (XII secolo) e la chiesa di San Francesco con il convento dei Frati Minori del 1328. Inaugurato nel 1894, il complesso è rimasto della famiglia fino al 1975, subendo poi alterne vicende, tra tentativi di restauro a fini turistici ed esiti fallimentari, per essere attualmente in una situazione di grave incertezza sul suo futuro.

Per concludere la mia lunga risposta al “Chome mai” della domanda iniziale, avendo constatato lo stato di rudere pericolante delle strutture, con murature in dissesto, coperture crollate e tegole asportate (come avvenuto per il Casale Altavilla, depredato in una notte fin dai tempi del piano del 1990 che lo vincolava, essendo nella potenziale disponibilità del Comune), è logicamente univoca: la conservazione del casale era legalmente e operativamente impossibile già all’epoca della prima ricognizione. L’articolo 10 del Codice dei beni culturali e del paesaggio (firmato dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e proposto dal ministro Giuliano Urbani) ci fornisce con puntuale precisione i motivi di tale impossibilità, in quanto stabilisce che possano definirsi “beni culturali” (comma 4, lettera l) «le architetture rurali aventi interesse storico od etnoantropologico quali testimonianze dell’economia rurale tradizionale» e questa definizione non è adeguatamente giustificata nel caso in questione. Oltretutto, non sussisteva alcun interesse pubblico che potesse limitare o condizionare la proprietà privata del manufatto.

Resta il problema generale della tutela e valorizzazione del patrimonio storico-artistico locale nelle sue diverse forme e appartenenze, dato che il sostanziale disinteresse dimostrato dall’opinione pubblica – nonostante le periodiche autocritiche al riguardo – e le decisioni approvate a maggioranza dal Consiglio hanno comunque tolto all’ente pubblico gli strumenti d’intervento, anche a sostegno delle iniziative private. La semplice lettura dei primi articoli del Codice sopra richiamato mette in evidenza i punti centrali del discorso:

«Articolo 1. Principi

«1. In attuazione dell’articolo 9 della Costituzione, la Repubblica tutela e valorizza il patrimonio culturale in coerenza con le attribuzioni di cui all’articolo 117 della Costituzione e secondo le disposizioni del presente codice.

«2. La tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale concorrono a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio e a promuovere lo sviluppo della cultura.

«3. Lo Stato, le regioni, le città metropolitane, le province e i comuni assicurano e sostengono la conservazione del patrimonio culturale e ne favoriscono la pubblica fruizione e la valorizzazione.

«4. Gli altri soggetti pubblici, nello svolgimento della loro attività, assicurano la conservazione e la pubblica fruizione del loro patrimonio culturale.

«5. I privati proprietari, possessori o detentori di beni appartenenti al patrimonio culturale, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, sono tenuti a garantirne la conservazione.

«6. Le attività concernenti la conservazione, la fruizione e la valorizzazione del patrimonio culturale indicate ai commi 3, 4 e 5 sono svolte in conformità alla normativa di tutela

Va poi detto che, secondo quanto stabilito proprio dall’articolo 3 del Codice dei beni culturali e del paesaggio la tutela del patrimonio artistico è garantita attraverso un’adeguata attività conoscitiva, volta ad individuare i beni costituenti il patrimonio culturale ed a garantirne la protezione e la conservazione per fini di pubblica fruizione.

Pertanto, come si può agevolmente costatare, la Variante n° 30 rappresentava il puntuale adeguamento dello strumento urbanistico vigente alle disposizioni regionali e si atteneva scrupolosamente alle categorie e alle definizioni della legislazione statale e regionale in materia, con procedure perfettamente consone alle esigenze culturali e di tutela prescritte da tale legislazione e, nello stesso tempo, rigorosamente conformi a quelle previste dalla legislazione urbanistico-edilizia. E su tale aspetto abbiamo ampiamente portato argomenti e riflessioni negli interventi precedenti su questo blog.

Un’ultima osservazione, però, deve essere fatta per fare ancora presente che quella deliberazione di “revoca” del 2009 era stata approvata con i presupposti e le modalità quantomeno anomale che erano state già evidenziate al tempo, ma anche con contenuti privi di logicità e di conformità alla legislazione in materia e, soprattutto, senza tener conto del quadro normativo preesistente. Infatti, il provvedimento ha ignorato il Regolamento per la tutela del patrimonio architettonico e dei beni culturali ambientali approvato con deliberazione del Consiglio comunale n° 108 del 15 dicembre 1992, affisso in seconda pubblicazione all’Albo Pretorio dal 6 al 21 febbraio 1993 ed entrato in vigore il 1° marzo 1993. Vigore che, fortunatamente, mantiene nella sua interezza e cogenza.

A mio parere, chi oggi, negli uffici del servizio comunale competente, ha la responsabilità tecnica, amministrativa e giuridica della materia potrebbe utilmente (innanzitutto per sé) leggere con molta attenzione quelle disposizioni, confrontarle con le prescrizioni legislative e adottare le opportune iniziative conseguenti.

FRANCESCO CORRENTI

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