SUA MAESTA’ IL BROCCOLO

di PAOLA ANGELONI

La “ricotta” di Pier Paolo Pasolini:

Io sono una forza del passato.

Solo nella tradizione è il mio amore.

Vengo dai ruderi, dalle chiese,

dalle pale d’altare, dai borghi

dimenticati sugli Appennini e sulle

Prealpi,

dove sono vissuti i fratelli.

Giro per la Tuscolana come un

pazzo,

per l’ Appia come un cane senza

padrone.

O guardo i crepuscoli, le mattine

su Roma, sulla Ciociaria, sul

mondo,

come i primi atti del Dopostoria,

cui io sussisto per privilegio

d’anagrafe,

dall’ orlo estremo di qualche età

sepolta. Mostruoso è chi è nato

dalle viscere di una donna morta.

E io, feto adulto, mi aggiro

più moderno d’ogni moderno

a cercare i fratelli che non sono più.

Nel nostro corpo si annidano i ricordi dell’infanzia, residui psichici di diversi membri della nostra famiglia. Conviviamo con strane avversioni, per cui taluni non possono soffrire l’odore del fritto (il pranzo delle feste prevede una montagna di fritto di patate, carciofi, zucchine e…broccolo).

Strane avversioni come la presenza di gatti o gabbiani, che annunciano la tempesta di mare.

All’inizio della vita siamo stati disturbati da oggetti del genere o abbiamo subito la ripercussione del sentimento della madre. Io ho il terrore dello scarafaggio (anche prima di leggere Kafka) o del rosso e il toro (mia madre, vestita di rosso, presa di mira da un toro, ed aveva in grembo me.

Capisco come nel surrealismo di Bretòn vi siano tantissimi dettati automatici, che fanno parte della letteratura

Capisco perché nella letteratura classica e nelle leggende ormai storiche su CivitaVecchia (mi piacerebbe chiamarla così) si ricorra al somnium, al sogno, per dirci, ma anche per liberarci da angosce e solitudini metropolitane. Il sogno diviene un atto metaforico, una sublimazione simbolica (il somnium del “ Broccolo” della Prima Strada).

Angoscia, solitudine, ma accade di poter allontanare quello che gli altri hanno voluto che noi fossimo, capaci di rassegnarci all’esistente o “di far parte” in modo partigiano della Rivolta contro l’esistente.

Nel sogno, nel simbolo, nella storia personale, possiamo vederci trasformati, come accade nella mitologia, in piante: il pero, la quercia, il “broccolo”. Noi siamo il nostro albero genealogico, non siamo corpi oggetto, senza realtà spirituale (e forse anche il “ broccolo” ha una sua realtà spirituale). Il “ broccolo” della Prima Strada ha visto quattro generazioni: quella mia, e quella di mia madre, di mia nonna e della mia bisnonna, Clotilde Capuani.

“Sua maestà il Broccolo”

Io sono il Broccolo, scolpito come albero e poi collocato nel 1895 sull’angolo del palazzo comunale, all’ inizio della prima strada. Mi posero quando il palazzo stesso fu costruito, a seguito della riforma di Innocenzo XII sul governo di Civitavecchia.

Il Popolo mi appella come “Broccolo” e Broccolo voglio restare.

Ma siamo alla fine dell’Ottocento, ben altra fu la mia storia.

Quando fui posto, come “bella fontana di Sisto V”, il mio sguardo poteva spaziare entro un’immaginaria Croce, la croce benedicente che si stendeva idealmente sull’intero abitato: l’ospedale di San Paolo, la chiesa matrice di Santa Maria, la chiesa di San Giovanni Battista e la chiesa di San Francesco,

ed io, Broccolo, vedevo svettare dalla mia strategica postazione, all’angolo della prima strada, il campanile di San Francesco!

Ma poiché sono Broccolo per il mio Popolo, lo sguardo si rivolgeva là, verso il mare, la Scaletta e Campo Orsino. Con tutte le chiese presenti, io non posso capire come a Campo Orsino vivessero famiglie di miscredenti, anarchici e sovversivi. Ma questa è un’altra storia, che risale al Novecento.

Mi trovai in prima strada, verso piazza San Francesco, ed ero contento, dato che la piazza, nel piano chigiano, veniva ad essere il nuovo baricentro dello sviluppo edilizio del borgo Sant’Antonio, il Ghetto, “mancalecane…” , quanti di Camporsino coi ghettaroli si sarebbero imparentati.

Io nacqui come bella fontana di Sisto V rimasta senza il suo liquido elemento, adornata da due leoni e da me, albero, scolpiti in pietra. Ma l’edificio fu demolito, i due leoni furono posti nella nuova fontana eretta da Innocenzo XI sull’ingresso della Darsena, fuori Porta Marina.

Come tutte le cose che accadono in natura – un maschio che diventa femmina, una femmina che diventa maschio – io scolpito come albero di pero – mio padre era papa Peretti – sono ora per il mio Popolo il Broccolo della Prima Strada.

Vorrei essere il simbolo – symballo – di una comunità più vera, ma qualcosa mi sfugge, sento solo un’intensità incalcolabile per il legame con quella comunità di Camporsino, posso solo evocare…

Nella luce incerta della Prima Strada

il Broccolo emana un odore ormai strano

Nel Porto vicino l’azzurro

avanza

mentre la Luna mi confonde

come leggero tentacolo di polpo

il “broccolo“ dell’antica fontana

saluta i suoi abitanti

del Campo Orsino o forse Taurino.

Odo un vociare, il mio odorato sente l’odore salmastro e del fritto.

Il simbolo è mistero: parla della famiglia, di luoghi inaccessibili,

della Civitavecchia sotterranea sotto i palazzi palafitta di Camporsino.

Dunque non volete che il Broccolo vi parli di Camporsino?

E’ “la sensation” di Stendhal che ha il sopravvento. Donato Bucci gli ha trovato una sistemazione al secondo piano del palazzo Bentelli, al numero 19 di Camporsino: “Dalla mia finestra ho una vista ed un’aria ammirevoli. Le finestre si affacciano sulla Calata e il mare è così vicino che il Console può gettarvi i raspi dell’uva dell’isola del Giglio.

Ma Camporsino è una suburra, un formicaio, una ragnatela di vicoli in cui coabitano famiglie imparentate fra loro: qui abitano sarti, barbieri, calzolai, profumieri, verduraie e fornarine.

Mettete un pesciarolo o un navigante del Ghetto a sparlare delle donne di questi palazzi alti e ravvicinati, quasi attaccati, vi dirà che le giovanette “so’ facce gialle”, perché vivono là, dove non batte mai il sole (O sole mio dei napulitane si trova solo al Ghetto Sant’Antonio!).

Tuttavia anche a Campo Orsino si sente l’odore dei broccoli (miei consanguinei) e della frittura di cavoli e di pesci.

Le donne del popolo hanno “forme giganti”, ma non Donna Clotilde Capuani, “Donna” e non Sora Clotilde, perché altera, anche se non nobildonna, ma prima fornarina, poi verduraia e di nuovo fornarina.

Cosa sono io ora? Sono la pronipote di Clotilde Capuani e di Ferdinando Gargiullo.

Perché scrivo? Perché voglio vedere la vita umana, osservata dagli occhi di un Broccolo

in Prima Strada.

Sto attendendo una rivelazione, ed ecco che appare Lei.

Clotilde era andata in sposa a Ferdinando Gargiullo.

I cognomi di origine campana non devono trarre in inganno, erano civitavecchiesi veraci di Camporsino. Fanno fede i nomi altisonanti che Ferdinando diede ad alcuni dei suoi 13 figli: Traiano, Otello, Fioravante…Erano tredici figli, i rimanenti li “aveva presi la crocetta”, per dire sepolti in terra nuda con una piccola croce al Camposanto.

Posso darvi uno sguardo fantastico come io, Broccolo, posso fare.

Clotilde, sempre gravida. L’ultima figlia, Asia, nacque nel 1900 – attraversava Piazza San Francesco per andare ai Forni, dove lavorava come panificatrice, assieme ai fratelli Capuani, fornari, commercianti!!! Non creo un’illusione, sono veramente esistiti, lavoratori, lavoratori!

Clotilde sposò Ferdinando Gargiullo, “Domineddio”, bello, talmente bello che era nominato “A Pupa”, niente commercio – per carità -, lavorava alle doghe al porto – sotto casa – ed era musicista nella banda del tempo.

Con tutta questa figliolanza – aggiungo a Traiano, Otello e Fioravante, Tommaso, Fermina, Vincenza, Costanza, Dora, Fortunata, Ottavina, Vittoria e Asia – Clotilde, memore degli insegnamenti  dei fratelli fornari, ogni domenica apprestava il pranzo secondo tradizione: sulla tavola vi erano due piatti, uno capovolto sopra l’ altro, che racchiudevano un pane detto ”cacchiatella”, tagliato a metà e coperto da un tovagliolo (nel lessico famigliare è rimasto per generazioni questo termine “cacchiatella”, per significare quel rimasuglio di pasta di pane o di pasta frolla con cui costruisci qualcosa di inusuale o di poco conto, magari per far contenti i bambini…).

Donna Clotilde era un misto di frittura tra la Niobe mitologica e Madre Courage (Brecht):

  • Senza pagnotta alla morte non va –

Come Niobe Donna Clotilde Capuani aveva la forza vitale dell’animale materno, ma di me, Cavolo, viene l’odor dal fornello…

Clotilde presagiva che dalla sua antica rassegnazione sarebbe nata una ribellione da parte di alcune delle sue numerose figlie, una liberazione dai valori patriarcali di don Ferdinando, a Pupa, dedito alle doghe, alla banda musicale, alla vista del porto, all’osteria.

Anche Lei, con tutti quei Domenicani in prima strada, usava in modo strumentale la fede ed invocava con qualcosa di ribelle un “Dio giusto, buono e misericordioso” (un Dies irae con il quale si accompagnano i suoi pronipoti anarchici all’ obitorio del cimitero monumentale).

Il Broccolo notava che Clotilde, con l’avanzare dell’ età, non era più in grado di lavorare nell’impresa dei suoi fratelli, “ Niobe”, madre di quattro maschi, Traiano, Otello, Fioravante e Tommaso, e di nove femmine, si vantava di essere la più feconda, ma non era più superba, forte, determinata. Solo Tommaso riusciva a renderla più determinata, Tommaso con il suo ”periodo lungo” e la sua “calma dottrinale” provava a mitigare l’ asprezza dei propositi di Clotilde stemperandola in un discorso più lungo (questo modo di parlare sarà ben presente in qualche nipote dei Gargiullo…): – A ma’, dateme agio de parlà. Voi fornari avete sempre fatto in modo di non far mancare il pane al popolo! Sete stati maestri nella produzione del pane, negli impasti da forno dolci e salati! Nella vostra memoria rimangono i Forni del primo Ottocento, l’imponente edificio eretto per soddisfare il fabbisogno di pane e biscotto della popolazione e della Squadra. E non te ricordi i dodici forni collocati in un lungo camerone, dal soffitto a volta, del fabbricato a Piazza Leandra?! E non te ricordi i Granai sul molo del Lazzaretto?

Certo, per voi fornari e commercianti c’é l’invidia del popolino, che crede che voi fornari volete far mancare il pane al popolino. Te ricordi la tammuriata?

“In galera lì panettieri

Mò che s’erano arreccuti

Tutti s’erano resoluti

Deventare cavalieri…”.

Ma l’impoverimento di reddito e di status , alla vigilia del Novecento, si faceva sentire per le classi popolari e Coltilde, nata nel 1867, poco più che trentenne, ebbe la tredicesima figlia, Asia Gargiullo.

E si trovò a cambiar lavoro come la maggior parte delle donne, mogli dei lavoratori del porto. Anche i suoi figli maggiori erano facchini del porto, ed alcuni dei suoi generi saranno facchini del Porto. Con il lavoro al forno aveva accumulato beni per un appartamento dignitoso, ma nei “piani alti” di Campo Orsino mancava ancora l’ erogazione dell’ acqua e l’energia elettrica.. Nei momenti più duri i suoi fratelli Capuani le erano stati materialmente vicini, tanto che la figlia maggiore, Fermina, aveva ricevuto dagli zii un bel cassone per il corredo con trine, merletti, lenzuola, pannoni da cucina ed altre suppellettili, da fare invidia ad una ragazza di casata nobiliare…

E Donna Clotilde si organizzò con un banchetto al mercato, iniziando la storia delle commercianti ”al femminile” sia al mercato che nei negozi vicini, tramandato alle figlie e a molte nipoti. Scelse di fare la verduraia, o in dialetto la fruttarola. In fondo agli occhi le rimaneva un rancore, quegli occhi neri e dallo sguardo corvino lo testimoniavano. Vedeva le fruttarole, sue compagne di lavoro, che incartocciavano con rabbia di facchine i carciofoli e i Broccoli romaneschi.

_ A casa nostra, diceva Asia, non siamo mai morte di fame, non ci è mai mancata frutta e verdura!-

Ma la madre, Clotilde, a caro prezzo aveva pagato questo, era diventata una fruttarola, tosta come gli scogli dell’ antemurale, la sua vita ridotta ad un fatto: la casa a Campo Orsino, alta, troppo alta per carreggiare l’acqua e lavare i panni dei suoi figli maschi lavoratori del porto, e le nove figlie da maritare…

Aveva un cruccio per la figlia di nome Fortunata. Fortunata era la figlia prediletta di “Tata” Ferdinando, suonatore della banda musicale Ponchielli, ed ancora più amata poiché Fortunata si era invaghita del musicista di livello nazionale Alfredo Lissini, grande violinista ammirato a Civitavecchia. Ma il matrimonio, secondo Clotilde, non si doveva fare; invece, si fece e Fortunata non fu più fortunata.

Tracce di Tata Ferdinando, “Ferdinando a’ pippa ‘a Tata”, rimangono tra le nipoti. Stanco, stoico popolare, di lui si ricorda come le figlie non dovessero rivolgersi direttamente a lui, la madre era la tramite per una richiesta, ma in età matura, rimaneva sul dondolo a fumare, e a immaginare la venuta dei Gargiullo, mercanti di Spagna, attraverso Napoli, a Civita Vecchia, e Fermina, Vincenzina, Dora, Vittoria, Fortunata, Ottavina e Asia a vicenda si dicevano:

“ Fate dondolà a Tata”!

Io che son stato il Broccolo della prima strada posso dirvi che

Ferdinando Gargiullo é ricordato in Còre citavecchiese di Carlo De Paolis:

  • Accadeva pure che per lavare i panni in Campo Orsino si doveva lavare i panni in locali dove l’acqua arrivava, A tale proposito è rimasta famosa tra gli amici di famiglia la risposta che Ferdinando Gargiullo ( 1861), uomo assai attraente, tanto da essere soprannominato “ la Pupa”, dette intorno al 1914/15 alla figlia Asia, che non volendo più andare alla fontana per i giornalieri rifornimenti d’acqua, gli aveva chiesto di far collegare l’ abitazione con l’ acquedotto comunale: “ E si che stamo a casa de Gargana. Mo’ pure le purci c’hanno la tosse! Scommetto che ‘st’artr’anno volete pure la corrente elettrica!”.

-“ Fate dondolà a Tata!”-

  • Ma tra loro vi erano femmine ribelli.

PAOLA ANGELONI

Alcuni riferimenti storici sul “Broccolo della prima strada” sono tratti da “Chome lo papa uole” di F. Correnti

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