Almanacco civitavecchiese di Enrico Ciancarini – “Asilo di contrabbandieri malefici”.  Civitavecchia nella storia del contrabbando fra XVIII e XIX secolo.

di ENRICO CIANCARINI ♦

Paolo Calcagno, professore di Storia moderna all’Università di Genova, nel 2019 ha pubblicato il volume Fraudum. Contrabbandi e illeciti doganali nel Mediterraneo (sec. XVIII) nei cui otto capitoli descrive le attività illecite in altrettanti porti italiani del Mediterraneo:

“Alla fine dell’antico regime, con l’aumento vertiginoso dei traffici, inseriti in una cornice sempre più globale, anche gli illeciti esplosero, e gli archivi delle istituzioni operanti nei porti del Mare Nostrum raccolsero una moltitudine di carte che ci informa sulle pratiche dello scambio e sulle attitudini degli operatori marittimi, propensi ad alternare comportamenti regolari e irregolari.

Salpando da Nizza, una insolita crociera che conduce fino a Venezia aiuta a comprendere le specificità e le similarità dei commerci clandestini in uno spazio ancora molto battuto dalle rotte internazionali”.

La quarta tappa di questa “insolita crociera” fa scalo a Civitavecchia, “emporio de contrabbandi” nel “deserto” costiero pontificio (quarto capitolo, pp. 99-122 con quattro pagine di bibliografia).

Civitavecchia era stata dichiarata porto franco da papa Urbano VIII il 4 dicembre 1630, prerogativa poi confermata da Clemente IX (25 gennaio 1669). Innocenzo XII il 26 settembre 1692 convalida tale privilegio al porto tirrenico: “indistintamente ed universalmente franco ad ogni Vascello, e Legno di qualsiasi portata, che vi verrà da qualunque parte del Mondo, con qualsivoglia robbe, mercanzie, vettovaglie, o grascie, le quali tutte saranno per l’avvenire franche, libere, ed esenti da ogni dazio, o gabella, alboragio, sensarie, ed altri pesi, e regalie”.

Negli anni, i provvedimenti presi dai pontefici per lo sviluppo dello scalo civitavecchiese attirarono in città numerosi mercanti, prevalentemente liguri o napoletani, che oltre ad occuparsi di affari leciti spesso erano coinvolti in operazioni poco limpide tanto che in un memoriale del 1790 inviato a Pio VI si poteva leggere che Civitavecchia era “un asilo di miserabili pescatori e di contrabbandieri malefici” (Pietro Attuoni, Civitavecchia. Il porto e la città, 1958, p. 41).

In questo “emporio de contrabbandi” il grano era una delle merci maggiormente oggetto di illeciti traffici, dato che vigevano severe norme per il suo commercio. L’Annona si riforniva in parte del grano necessario alle esigenze di Roma da Montalto di Castro e da Corneto (Tarquinia). Il raccolto veniva caricato nei piccoli scali di queste due località, trasportato a Civitavecchia, dove veniva ispezionato e registrato. Dal porto tirrenico partivano dei convogli di piccole imbarcazioni scortate da un guardiacoste diretti al porto romano di Ripa grande.

Nel suo studio, Paolo Calcagno scrive:

“Benché i margini di frode ci possano sembrare ristrettissimi, anche nei trasporti annonari a corto raggio tra entroterra laziale e mercato romano non mancavano mai gli ammanchi: quasi incredibilmente, il 25 gennaio 1797, la prefettura dell’annona faceva notare che, confrontando l’ammontare dei carichi registrati a Civitavecchia con le quantità effettivamente sbarcate a Roma, in un solo caso su sedici il patrone era risultato un “galantuomo”.

I mercanti genovesi giravano le campagne viterbesi e quelle di Tolfa per accaparrarsi notevoli quantità di grano allo scopo di spedirle alla loro città d’origine ma anche “per alterarne il prezzo e venderli sul mercato in maniera più vantaggiosa”.

Al Governatore di Civitavecchia giungevano molte segnalazioni, in gran parte anonime: una denunciava gli agricoltori locali che d’intesa con i trafficanti concedevano il loro raccolto al mercato nero; l’altra firmata dal “pubblico di Civitavecchia” accusava la “compagnia di contrabbandieri di grani” di esportare dal locale scalo “migliaia di rubbi” del prezioso cereale. In questo commercio illegale erano coinvolti anche operatori locali come un certo Agostino che trasportava grano “in fraude del principe” dalla spiaggia di Valdaliga o il “Cioccaro” che in un anno aveva esportato furtivamente 1.200 rubbi di grano.

Altre merci oggetto di un esteso contrabbando erano il sale, il tabacco, le paste alimentari e gli stracci utilizzati nella fabbricazione della carta, assoggettate a privative e a norme per la tutela del mercato interno.

Le spiagge intorno a Civitavecchia si prestavano ottimamente per gli sbarchi clandestini del sale di contrabbando. Guardiacoste e torri d’avvistamento non erano sufficienti a reprimere il diffuso contrabbando che si svolgeva nel territorio civitavecchiese.

Erano i marinai delle galee, a quanto denunciava il prefetto dell’annona il 12 aprile 1797, ad esportare enormi quantità di pane, maccheroni ed altre paste lavorate in barba ai reiterati editti pontifici che lo vietavano. Addirittura, nel 1783 si scoprì che in una bottega situata sotto la fortezza e nella piazzetta della darsena si introducevano e si spacciavano paste alimentari di provenienza estera, cosa altrettanto proibita per la difesa della produzione interna. Già dal XV secolo che a Civitavecchia i “vermicelli” arrivavano da Trapani e i maccheroni da Napoli. 

Da Ronciglione, i padroni delle cartiere denunciavano le incette e le riesportazioni da parte dei commercianti liguri degli stracci necessari alla loro produzione di carta. Nel porto di Civitavecchia tale merce aveva un apprezzabile commercio come testimonia l’autorizzazione ricevuta da Antonio Rosselli di Terracina per trasportare 20.000 libbre di stracci a Civitavecchia per conto di Tommaso Palomba, negoziante locale.  

Ai vertici della classifica delle merci più contrabbandate a Civitavecchia c’era il tabacco: il professor Calcagno afferma “darsena, marinai delle galee (schiavi, forzati o uomini liberi faceva poca differenza, in questo senso) e tabacco costituivano una delle triadi consuete della frode”.

Nel bazar degli schiavi, sito nella darsena, tabacco e acquavite non facevano mai difetto per i compratori, civitavecchiesi o forestieri di passaggio. Nel 1754 un mercante genovese, Filippo Murialdo, fu arrestato e detenuto per parecchi mesi perché aveva venduto “più e diverse volte in vari tempi, in questo porto di Civitavecchia, … grosse quantità di tabacco di vari generi e particolarmente in foglia di contrabbando, a tutte quelle persone che erano andate a comprarlo nel di lui bastimento approdato in questo stesso porto sotto della fortezza”.

Alla fine, da Roma giunse l’ordine di liberarlo a dimostrazione che il genovese coltivava le giuste amicizie nella capitale dello Stato del papa.  

Nel secolo successivo, l’Ottocento, le cose non cambiarono di molto per il contrabbando in partenza da Civitavecchia. Il 30 dicembre 1829 monsignor Mario Mattei, Tesoriere generale della Reverenda Camera Apostolica, emette una notificazione in cui “divenendo sempre più urgente il riparo reclamato da quanti zelano il buon’ordine, al contrabbando che s’esercita nelle città franche, e specialmente a quello che ivi siegue a piccole riprese con gravissimo danno del tesoro, dell’industria, e della moralità” ordina che sia ripristinata la visita personale nelle città franche per controllare chi uscisse dalle porte delle città e che “mostrino sembianza di occultare generi o merci in frode dell’erario”. Dal rispettare tale rigida e severa disposizione, erano esentati naturalmente i cardinali e i componenti della corte papale quando il pontefice giungeva in visita a Civitavecchia:    

“Il contrabbando negli Stati del papa è severamente punito: Civitavecchia è porto franco, ma le gite del papa in quella città fornivano l’occasione di un contrabbando sopra una scala vastissima. Siccome queste gite erano conosciute molto tempo prima, così i mercanti ed i ricchi particolari facevano indirizzare colà le merci di loro commissione: né vi era prelato o cameriere che, o per conto proprio o per farne speculazione, o per conto altrui, non acquistasse stoffe, seterie, merletti ed altri articoli, onde n’erano ingombre le anticamere. Il papa che le attraversava non poteva non vedere quell’abbondante paccottiglia, che era poi caricata sui furgoni e nelle carrozze e trasportata a Roma con vistoso lucro dei tonsurati contrabbandieri. Nel solo secondo viaggio si calcolò che passasse di contrabbando per circa 70 mila scudi di mercanzia, e solamente il furgone delle argenterie, scortato da dodici carabinieri di palazzo, ne portava per diecimila scudi. I doganieri sel sapevano: ma il furgone essendo coperto dall’inviolabile strato rosso, collo stemma delle due chiavi incrociate, si levavano il cappello, e dicevano ridendo: – Passi: cotesti contrabbandieri privilegiati non sono della bassa genia che va in galera”.

Lo scriveva nel 1860 Aurelio Angelo Bianchi-Giovini noto polemista anticlericale nel suo pamphlet Il papa e la sua corte. Ricordi inediti d’un Carabiniere al servizio di Sua Santità. Riportava anche un altro episodio. Il cardinale Antonio Tosti, per alcuni anni Tesoriere generale della Reverenda Camera Apostolica nominò un certo Filippo Selvaggi che in precedenza era “fabbricatore e mercante di trappole da sorci e di scatole di cartone” direttore delle poste di Roma. Nel suo nuovo ruolo, il direttore Selvaggi “se la intendeva col direttore postale di Civitavecchia, il quale, colla valigia delle lettere, gruppi e pacchi, mandava anche o una balla di seta, o qualche altro collo o cassa di mercanzia di valore”.

Il polemista concludeva così il capitolo dedicato al contrabbando:

“Se quindi nello Stato del papa non vi è libertà di commercio, vi è libertà di contrabbando, almeno pei capi dell’amministrazione, che lo fanno in grande, e ne traggono disonesti guadagni. Soltanto i piccioli contrabbandieri, se si lasciano sorprendere, sono condannati alla galera”.

ENRICO CIANCARINI

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