“AGORÀ SPORTIVA” A CURA DI STEFANO CERVARELLI  – TRANSGENDER: DOVE GAREGGIARE? (prima parte)

di STEFANO CERVARELLI

Il Consiglio Mondiale di Atletica Leggera ha deciso di escludere, dal 31 marzo 2023, gli atleti transgender maschio-femmina, che hanno attraversato la pubertà maschile, dalla competizione della classifica mondiale femminile. World Athletics ha condotto un periodo di consultazione con varie parti interessate nei primi due mesi di quest’anno, tra cui le federazioni affiliate, la Global Athletics Coaches Academy e la Commissione degli atleti, il CIO, nonché gruppi rappresentativi di transgender e diritti umani. È diventato evidente che c’era poco sostegno all’interno dello sport per l’opzione che era stata presentata per la prima volta alle parti interessate, che richiedeva agli atleti transgender di mantenere i loro livelli di testosterone al di sotto di 2,5 nmol/L per 24 mesi per essere idonei a competere a livello internazionale nella categoria femminile. In termini di regolamenti DSD, World Athletics ha più di dieci anni di ricerca e prove dei vantaggi fisici che questi atleti portano alla categoria femminile. A ribadire il perché di questa scelta, ci ha pensato anche il Presidente della World Athletics, Sebastian Coe: “Continuiamo a ritenere che dobbiamo mantenere l’equità per le atlete al di sopra di ogni altra considerazione. Saremo guidati in questo dalla scienza intorno alle prestazioni fisiche ed al vantaggio maschile che inevitabilmente si svilupperanno nei prossimi anni. Man mano che saranno disponibili ulteriori prove, rivedremo la nostra posizione, ma riteniamo che l’integrità della categoria femminile nell’atletica sia fondamentale.

Poteva Agorà Sportiva ignorare tale provvedimento?

La transessualità nello sport è un tema molto dibattuto, specialmente quando bisognerebbe iniziare a  stabilire in quale categoria dovrebbero competere gli atleti transessuali o con identità non binarie.

Ed allora mi accingo, anzi direi, mi azzardo, a parlarne, scusandomi per eventuali lacune, disguidi o dimenticanze, ma l’argomento è molto vasto, vario e meriterebbe molto di più di un mio semplice articolo – che  per agevolarne la lettura – ho diviso in due parti.

Il Comitato Olimpico Internazionale, nel novembre 2021, pubblicò un nuovo regolamento che ridefiniva i criteri di idoneità per le persone transgender, non binarie e con variazioni sessuali, negli sport olimpici, sulla base dei principi di parità e inclusione. L’elemento centrale della nuova politica del CIO è costituito dai dieci punti chiave che regolano l’ammissione di atleti e atlete alle Olimpiadi che, oltre a stabilire regole precise per l’ammissione alle competizioni, fanno riferimento anche alla privacy, alla salute dell’atleta, alla non discriminazione,  alla correttezza delle competizioni, al ricorso a dati scientifici ed alla revisione periodica delle regole.

Questa, chiamiamola, nuova politica olimpica non è però vincolante per le singole federazioni; queste potranno continuare a stabilire i propri criteri di ammissione, ma si pone come punto di riferimento.

Una scelta, questa, voluta dal CIO tendente a dimostrare il proprio allontanamento da quei  approcci invasivi e ampiamente criticati  che, per molto tempo,  hanno regolamentato l’ammissione di sportivi, ma soprattutto sportive, nelle competizioni olimpiche.

Infatti le atlete, fino agli anni sessanta,  erano costrette a spogliarsi e mostrarsi nude davanti ai medici che dovevano verificare la presenza di genitali femminili; questa pratica, conosciuta come “sex testing”, ha preso poi la forma di controlli dei cromosomi prima e dei livelli ormonali poi, finendo per essere limitata, oggi, ai cosiddetti “casi dubbi”, ovvero a quelle situazioni in cui vi è un sospetto di valori ormonali al di sopra della norma.

Anche il controllo dei livelli ormonali però è stato spesso definito come discriminatorio ed inadeguato ai fini di garantire competizioni giuste. Non solo non esiste un numero sufficiente di studi che giustifichino questo tipo di analisi, ma  così facendo peraltro non si teneva conto della complessità del corpo umano, delle variazioni congenite nelle caratteristiche sessuali e delle persone con tratti intersex.

Se guardiamo, ad esempio, ai livelli del testosterone, l’ormone steroideo presente soprattutto nel sesso maschile, ma non solo, fino allo scorso anno era necessario che le atlete sottoposte a controlli e che volessero partecipare ai giochi olimpici, mostrassero un livello di testosterone nel sangue al di sotto di 10 nanomoli per litro nei 12 mesi precedenti la competizione. Negli uomini cisgenere i livelli di testosterone considerati standard possono variare da 9.2 a 31.8 nanomoli per litro, mentre nelle donne cisgenere possono stare tra 0.3 e 2.4 nanomoli per litro.

In realtà, però, questi parametri sono piuttosto flessibili. Da uno studio condotto su 693 atleti ad esempio è emerso che non è così raro che ci siano uomini con livelli di testosterone al di sotto della media e donne con livelli al di sopra.

Alti livelli di testosterone nelle donne non sono necessariamente indice di tratti intersex: l’iperandrogenismo, che consiste in un’altissima produzione di ormoni androgeni, può essere dovuto ad esempio alla sindrome dell’ovaio policistico, un’alterazione endocrina che colpisce tra l’8% e il 10% delle donne.

Come spiegato  da  Silvia Camporesi, professoressa associata in Bioethics & Health Humanities al King’s College di Londra, il sex testing può essere definito come “tentativo destinato a fallire, perché la natura umana non è binaria e non può essere divisa nettamente in due categorie”, quella maschile e quella femminile. Quando si cerca di farlo, dice Camporesi, “si creano ingiustizie verso quei corpi che deviano dai binari”.

Camporesi si è occupata a lungo del caso di Caster Semenya, mezzofondista e velocista sudafricana che, poche ore dopo aver vinto la medaglia d’oro agli 800 metri dei Campionati del Mondo di Atletica Leggera 2009 a Berlino, è stata sottoposta a un controllo del testosterone a sua insaputa. I risultati dei controlli non sono stati resi noti per motivi di privacy, ma in base ad una fuga di notizie ed a come poi si sono svolte le cose, sembrerebbe che i livelli di testosterone dell’atleta fossero al di sopra dello standard. Semenya si è sempre identificata come donna. Come tale è stata registrata alla nascita, e come tale è stata socializzata.

Ciò che si deduce, sia dalla sentenza che la vedrà successivamente come protagonista, sia dalle informazioni diffuse, è che l’alto livello di testosterone riscontrato sia  dovuto a una variazione o atipicità nello sviluppo sessuale riconducibile al termine ombrello di intersex.

Il caso, molto complesso, è andato avanti per oltre dieci anni, durante i quali Semenya ha potuto temporaneamente competere, sia perché all’inizio aveva deciso di assumere una terapia farmacologica per abbassare il livello del testosterone, come richiesto dalle linee guida introdotte dalla IAAF (Associazione Internazionale delle Federazioni di Atletica, oggi conosciuta come World Athletics) sia perché, in seguito alla causa vinta dalla velocista indiana Dutee Chand, i cui livelli di testosterone erano risultati sopra la media, nel 2015 la IAAF aveva sospeso la sua policy.

Nel 2018 la IAAF ha reintrodotto il tetto massimo per il testosterone nelle atlete pari a 5 nanomoli per litro; questa volta Semenya, con il supporto della federazione sudafricana di atletica che ha definito questi criteri ingiusti, ha deciso di fare causa alla IAAF. A maggio 2019, due giudici su tre della Corte Suprema per l’Arbitraggio nello Sport (CAS) hanno dato ragione alla IAAF, escludendo così dalle gare che vanno dai 400 ai 1500 metri le atlete con 46, XY DSD (anomalo sviluppo del sesso cromosomico) e conseguenti alti livelli di testosterone. Per poter gareggiare negli 800 metri – la sua specialità – Semenya avrebbe dunque dovuto assumere dei farmaci per abbassare i livelli di testosterone.

Camporesi inoltre spiega che “imporre dei limiti ai livelli endogeni di testosterone nella categoria femminile rappresenta una soluzione farmacologica che va contro i principi di etica medica: un farmaco deve essere prescritto con l’obiettivo di migliorare la salute di una persona”, e in queste circostanze il beneficio viene a mancare.

Sempre secondo  la Camporesi “Che Semenya abbia un vantaggio dovuto ai livelli elevati di testosterone si può dire con certezza, ma il punto è se questo vantaggio si possa classificare come ingiusto”. Come chiarito  poi ulteriormente Semenya non raggiunge performance paragonabili a quelle di atleti uomini ed i risultati che ha ottenuto nel tempo non possono neanche essere considerati come inaccessibili o inarrivabili da atlete che hanno livelli di testosterone considerati nella norma, come testimoniato anche nelle udienze del caso Semenya al CAS nel 2019 da esperti di genetica dello sport come Russ Tucker e Alun Williams.

Inoltre, spiega Camporesi, “Esistono molti altri tipi di fattori genetici che conferiscono un vantaggio in competizione, ma questi non sono reputati iniqui”. Un esempio è quello di Eero Mäntyranta, campione olimpico di sci di fondo, con una rara mutazione del recettore dell’eritropoietina e conseguenti livelli di ematocrito superiori a 50, che gli avrebbe garantito un sostanziale vantaggio durante le gare di fondo. Tuttavia la mutazione non è stata mai definita come un’ingiustizia nei confronti dei suoi sfidanti.

Un altro esempio è Michael Phelps, ex nuotatore le cui braccia, straordinariamente lunghe, e la struttura fisica al di fuori della norma, non sono mai state additate come ingiuste, ma piuttosto celebrate come tratti distintivi dell’atleta.

In diversi articoli e studi, Camporesi ha messo in evidenza come questo accanimento esista solo nei confronti delle discipline sportive femminili. Non soltanto, sottolinea, non vi è un tetto massimo di testosterone che gli uomini debbano rispettare, ma la genomica dello sport utilizza di continuo test genetici sia per migliorare gli allenamenti degli atleti sia per selezionare sportivi e sportive in fase di talent scouting.

“Nello sport sembra ci sia questa idea che, per assicurare l’equità nelle competizioni, è necessario sopprimere i valori anomali se le donne preformano troppo bene o se sono troppo vicine ai range maschili”, spiega Camporesi, sottolineando come siano soprattutto le donne non bianche che anche solo a livello estetico non si conformano a standard occidentali di femminilità, a finire nel mirino di media, federazioni, medici e delle loro avversarie, dimostrando così un’intersezione tra misoginia e razzismo.

Nonostante la correlazione tra vantaggio iniquo, migliore prestazione fisica e alto livello di testosterone non sia così chiara, l’ormone androgeno continua a essere un discrimine anche per le atlete transgender, in maniera se possibile ancora più controversa. Le terapie ormonali che molte donne transgender assumono durante la transizione infatti non soltanto abbassano i livelli di testosterone nel sangue, ma hanno anche un impatto notevole sulla massa muscolare e sull’attività aerobica.

La ciclista transgender americana Tara Seplavy, ad esempio, ha dichiarato che “molte persone non si rendono conto di quanto sia difficile allenarsi a livello atletico quando sei in terapia ormonale”.

In alcune recenti interviste la ciclista inglese Bridges, che sta prendendo parte a uno studio scientifico sull’impatto che le terapie ormonali hanno sul fisico di un’atleta professionista, ha spiegato di aver notato solo dopo quattro mesi dall’inizio della sua terapia ormonale i primi effetti sulle sue prestazioni atletiche.

E’ scomparsa la differenza in termini di prestazioni aerobiche che poteva esserci prima della transizione tra lei e le altre sportive; sono peggiorate le sue distanze; per quanto riguarda la forza esplosiva, sostiene di non essere neppure vicina alle cinque cicliste britanniche più forti del momento.

Bridges ha anche criticato la tendenza delle federazioni sportive di prendere decisioni in assenza di studi scientifici focalizzati su atleti e atlete transgender: molte ricerche sono condotte infatti su individui non sportivi o su atleti cisgenere e questo li rende irrilevanti per stabilire criteri di idoneità nelle competizioni.

Sempre nel Regno Unito, anche la Rugby Football Union ha vietato alle donne transgender di prendere parte alle gare nazionali di rugby femminile. Alix Fitzgerald, giocatrice di rugby nella East London Vixens, ha spiegato che, in seguito alla terapia ormonale a cui si è sottoposta durante la transizione, i suoi livelli di testosterone si sono abbassati a un punto tale che ha dovuto assumere degli integratori per proteggere le sue ossa. “Ci sono persone più robuste di me, più forti di me”, ha raccontato Fitzgerald ricordando i momenti in cui è stata placcata e buttata a terra da giocatrici con una fisicità più potente della sua.

STEFANO CERVARELLI                                                                                                     ( Continua)

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