I CANTASTORIE TRADITI — COME SI DISTRUGGE IN CINQUANT’ANNI E SPICCI UNA CIVILTÀ COSTRUITA IN TREMILA ANNI.
di EZIO CALDERAI ♦
Capitolo 21: Demostene, il canto del cigno della polis. Intermezzo
Rimasto orfano a 7 anni di un padre ricchissimo, fu affidato a tre tutori che sperperarono l’intera sua eredità. Da piccolo si dedicò agli studi di oratoria e di diritto. Forse già pensava di portare in Tribunale i suoi tutori per accusarli di malversazione, come in effetti fece appena raggiunta la maggiore età.
Dotato di straordinario talento sul suo conto se ne dissero di tutti i colori.
Meglio sgomberare il campo da sue presunte dissolutezze, in fondo comprensibili per un giovane rimasto orfano a 7 anni, e dagli aneddoti sugli sforzi che fece per correggere i suoi difetti. I suoi avversari lo prendevano in giro, dicendo che non poteva fare quel mestiere, inutile che recitasse le sue orazioni con i sassolini in bocca per far sparire la balbuzie in una caverna e con il mare in tempesta per rinforzare il tono della voce, che sarebbe stata sempre troppo fioca.
In realtà, Demostene fu il più grande avvocato del suo tempo e un oratore politico ancor migliore.
Tanto si parlava di lui che gli si attribuivano di volta in volta maestri diversi, da Platone a Isocrate, da Aristotele a Iseo e probabilmente fu proprio quest’ultimo, pratico di tribunali, ad affiancarlo nella professione, a cominciare dalla causa intentata contro i suoi tutori.
L’impegno della vita di Demostene, tuttavia, fu la libertà, la potenza e il prestigio da recuperare di Atene e la restaurazione della polis.
Suo avversario mortale Filippo II di Macedonia.
Demostene intuiva che Filippo si sarebbe impadronito non solo di Atene, ma dell’intera Grecia.
Lo attaccò con orazioni infuocate, le Filippiche, le Olintiache, Per la pace, voleva convincere gli ateniesi a battersi per la libertà e questo accadde veramente nel 338 a.C. a Cheronea dove Filippo e la furia di un Alessandro diciottenne sbaragliarono l’esercito ateniese e delle poche città greche che rimasero al fianco di Atene. Demostene partecipò alla battaglia.
Gli ateniesi ne ammirarono il coraggio e quando il 337 a.C. tornò ad Atene vollero attribuirgli un riconoscimento. Non si arrese mai e quando l’anno dopo morì Filippo rimase ad Atene, aspettando il momento adatto per la rivincita, certo che Atene avrebbe recuperato la sua prosperità e la sua potenza.
Poi nel 324, travolto da uno scandalo, probabilmente costruito ad arte contro di lui, fuggì dalla prigione in cui era stato ristretto e vagò senza meta.
Così, l’uomo che ha sempre creduto nel destino imperituro di Atene, che ci ha lasciato innumerevoli orazioni e lettere tra le più belle mai scritte, che ha avuto l’opportunità di parlare con Platone, Isocrate, Aristotele, l’unico che nell’antichità poteva rivaleggiare con Marco Tullio Cicerone, nel 322 a.C., braccato dai sicari macedoni, si uccise con il veleno presso il tempio di Poseidone a Calauria.
Demostene, malgrado una vita così intensa, un’esperienza senza pari, una lucidità che gli permetteva di capire tutto in anticipo, non capì che Atene aveva perduto l’egemonia, l’impero, ma aveva conquistato il mondo.
Intermezzo
Il mio viaggio fantastico, sicuramente sommario e a volte persino velleitario, voleva soltanto dare un’idea della solidità delle strutture civili, culturali e religiose dell’Antica Grecia, create per lo più da uomini che l’hanno girata in lungo e in largo, scalzi o con rudimentali calzari, per sette secoli.
Uomini curiosi, di straordinario talento poetico, che amavano le donne, gli uomini e i bambini, ai quali cantavano le loro storie.
Più aperta di ogni altra città greca, Atene è lo specchio di un’eccezionalità, che raramente città di ogni tempo hanno raggiunto, creando una qualità della vita simile a quello di cui immeritatamente oggi godiamo in occidente.
In Europa oggi non sapremmo difendere la nostra libertà, Atene, quando servì, lo fece, volgendo il mondo verso occidente. In meno di un secolo sconfisse l’Impero persiano, la maggiore potenza che l’antichità avesse mai conosciuto, con i suoi commerci e la sua cultura illuminò il Mediterraneo.
L’ateniese la mattina porta i figli a scuola e di scuole ce ne sono tante, non costano molto e non c’è che l’imbarazzo della scelta, ma li porta anche a spasso e, quando lo fa, i bambini giocano a nascondino tra le meravigliose colonne del Partenone e le statue di Fidia, per ammirare le forme dell’Afrodite di Prassitele bisogna attraversare il mare e raggiungere l’isola di Cnido, la sera va a teatro; quando lo svago è finito, parla nelle pubbliche assemblee, partecipa al governo della città, scrive romanzi quando altrove si fanno i numeri con i nodi ai fazzoletti, indaga il senso della vita e l’immortalità dell’anima.
Sì, lo so, i cittadini erano poco più del 10% della popolazione, il lavoro era tutto sulle spalle dei meteci e degli schiavi, ma era un altro mondo e sarebbe sbagliato misurarlo con il nostro metro, tra l’altro assai spesso truccato o nascosto nella coltre dell’ipocrisia.
Del resto, non ci sono voluti più di 2400 anni per estirpare la schiavitù dalla civiltà occidentale?
Se non altro gli ateniesi hanno dato vita ad una forma d’integrazione che è riuscita a mantenere l’equilibrio tra le varie fasce della popolazione per centinaia di anni: il lavoro. Se i cittadini, per un precetto culturale risalente, non potevano lavorare, tutti gli altri riuscivano a raggiungere un livello di vita dignitoso grazie al lavoro e ad Atene fin dal VII secolo a.C. di lavori ce n’erano tanti.
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Come è potuto accadere, allora, che la civiltà di Atene risplenda e si consumi nel breve periodo dell’Età di Pericle? Settant’anni o poco più. Chi lo sostenesse commetterebbe un enorme errore di prospettiva.
Da secoli, infatti, da quando l’arte con Omero e Saffo raggiunge vette supreme, la Grecia esercita un’egemonia culturale in tutto il Mediterraneo. Il pensiero è più veloce delle navi e, chi lo diffonde, le navi le costruisce meglio di qualsiasi altro popolo e più veloci.
Il commercio è la chiave di volta per scambiare, oltre le merci, le idee e il linguaggio. I Greci e più di tutti gli ateniesi cercano terre più fertili, attività più lucrose e s’insediano nel Mar Nero, nelle isole dell’Egeo, sulle coste dell’Asia Minore e, poi, in Sicilia, nelle coste del tirreno e dell’adriatico, a Marsiglia, estendendosi verso le Colonne d’Ercole, in Cirenaica e in Egitto.
Anche se nella storia dell’uomo è sempre successo, non è che gli imperi e le civiltà debbano necessariamente nascere sulla punta delle baionette. Ad Atene non capitò, anche perché non pensava affatto a un impero. Fin dall’VIII secolo a.C. la sua egemonia s’impose naturalmente tra le città greche, fatta eccezione per Corinto e Sparta, in perenne conflitto, e gradualmente in tutte le città del mediterraneo per la superiorità culturale e l’ingegno che caratterizzava le sue produzioni artigianali.
Un impero, o un dominio che gli assomigliava molto, fu l’effetto delle guerre persiane.
Atene si trovò ad amministrare centinaia di città, molte già colonizzate dai greci, altrettante lasciate dai persiani. Le estensioni dei territori erano smisurate e Atene riuscì a controllali grazie alle alleanze strette con molte poleis greche, tanto poco Atene pensava a un impero autocratico e accentrato.
La storia non è prevedibile e solo gli avvenimenti possono orientarla.
Atene si considerò città imperiale quando il suo tempo ormai si era consumato.
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L’ultimo scorcio del V secolo a.C. fu fatale. Un’epidemia, probabilmente di peste, decimò la popolazione in terra e per mare e nel 429 ne morì Pericle, ma il declino iniziò quando Atene rinnegò sé stessa.
Le ricchezze del secolo d’oro avevano fatto emergere una nuova aristocrazia del denaro assai poco interessata al primato della polis. I governanti del dopo Pericle diedero prova d’incapacità assoluta, in perenne conflitto per l’esercizio del potere e per la forma di governo. Questi mediocri governanti non fecero nulla per evitare quella che passò alla storia come la Guerra del Peloponneso.
Ne fu inimitabile narratore lo storico Tucidide, che, pur essendo ateniese e comandante di una nave ateniese, riportò gli avvenimenti con oggettività rigorosa. Le pagine di Tucidide ci danno un’idea precisa delle ragioni che determinarono la sconfitta di Atene.
In pochi anni i nuovi strateghi disfecero la sapiente tela diplomatica tessuta da Pericle; anche le città da sempre alleate di Atene l’abbandonarono per passare alla lega del Peloponneso, guidata da Sparta e Corinto. Le azioni riprovevoli di Atene causarono il suo isolamento. Lo stesso Tucidide narra dell’orribile massacro degli abitanti della piccola isola di Melo, colpevoli di non aver eseguito le direttive di Atene, e delle spedizioni punitive condotte contro le isole dell’Egeo e la stessa Siracusa, che non avevano condiviso la sua politica.
Ci vollero trent’anni, tuttavia, per piegare la regina dell’Attica.
Nel 404 a.C. la Lega del Peloponneso costrinse Atene a demolire le mura che proteggevano il tragitto che dalla città conduceva al suo porto, il Pireo.
I vincitori spartani dominavano la città dall’alto dell’Acropoli.
Paradossalmente, la vittoria causò la fine, dopo mille anni, della potenza spartana, mentre la cultura ateniese continuò a dominare il mediterraneo, e non solo, per altri 2000 anni fino alla caduta nel 1453 d.C. di Costantinopoli e successivamente negli atenei e nelle scuole, fornendo un grande contributo alla formazione delle classi dirigenti, dall’umanesimo ai nostri giorni o quasi.
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L’ultimo sussulto della potenza militare ateniese, di cui fu indomito interprete Demostene, fu nel 338 a.C. a Cheronea, quando Filippo II, Re di Macedonia, regno vassallo dei Persiani fino a quando Atene e l’alleanza ellenica sconfissero Serse a Salamina e Platea, ebbe la meglio sull’esercito messo insieme da Demostene, che per l’ultima volta riuscì a raccogliere intorno ad Atene un’alleanza di città, da Tebe ad altre minori. Anche quella fu una grande impresa, probabilmente l’ultima.
Stabilita la sua egemonia sull’intera Grecia, Filippo non fu, specie con Atene, despota assoluto e invadente, troppa l’ammirazione che nutriva per la città che aveva sconfitto prima Dario e poi Serse; mantenne le libertà civili degli ateniesi e fece educare suo figlio Alessandro, che per molti storici a 18 anni fu il vero vincitore di Cheronea, da Aristotele, il più grande filosofo dell’epoca, del quale il leggendario condottiere non perse e non dimenticò una parola.
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Resta il mistero della rapidità del declino, sicuramente non addebitabile a un sentimento di appagamento per le grandi imprese del passato, meno che mai al desiderio di auto annientamento, quello che per i Romani sarà il cupio dissolvi.
Si ha l’impressione, invece, che gli ateniesi fossero diventati indifferenti alle sorti della polis; non suscitava motivo di scandalo che la città fosse guidata dagli occupanti spartani insediatisi sulla Acropoli, a nessuno importava che le poche residue energie si disperdessero tra vecchie e nuove aristocrazie in conflitto per contendersi privilegi che erano finiti per tutti.
Solo un’impressione, però, perché la mitica Araba Fenice se avesse avuto voglia di riposare per un momento non avrebbe potuto scegliere se non l’apice del frontone del Partenone.
Dalla sconfitta passarono settant’anni, ma in quel periodo Sparta si spense, mentre Atene riacquistò il primato sulla Grecia e la battaglia di Cheronea, anche se non ebbe esito fortunato, confermò il valore degli ateniesi. Per Filippo, ormai padrone della Grecia, Cheronea non fu una passeggiato di salute e le sorti della battaglia rimasero in bilico per tutta la giornata.
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Gli ateniesi, d’altra parte, mentre sfidavano sul terreno Filippo, lavoravano per la posterità.
L’Accademia di Platone e il Liceo di Aristotele prosperavano e anche le scuole a cielo aperto dei Cinici suscitavano interesse. Verranno gli Stoici, gli Epicurei, pensatori eccezionali come Plotino, che esercitò un’influenza enorme sul cristianesimo, scienziati geniali rimasti punti di riferimento fino ai nostri giorni, come Euclide e Archimede.
Solo ai greci poteva venire l’idea di raccogliere in un’immensa biblioteca poemi, poesie, storie, studi, carte geografiche del mondo conosciuto. La costruì nel III secolo a.C. ad Alessandria d’Egitto, Tolomeo Filadelfo, Re della dinastia greco-egizia tolemaica, già diadoco di Alessandro Magno.
Vennero raccolti un numero impressionanti di volumi, persino il Vecchio Testamento, tradotto dall’ebraico, e la Biblioteca fu un centro di cultura straordinario per tutto il mondo ellenistico.
Probabilmente il colossale edificio fu realizzato da architetti greci, mentre erano sicuramente greci i sovrintendenti, i curatori, i collaboratori, i consulenti, tra gli uomini più eminenti del loro tempo.
Purtroppo, nei secoli gli incendi la devastarono ed oggi di essa non resta una sola pietra.
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Malgrado le dolorose perdite dei volumi, tra i quali quelli che conservavano le poesie di Saffo, i greci lasciarono all’umanità più sapienza di quanta i posteri siano stati capaci di utilizzare.
Un grande storico dell’antichità, Paul Veyne, non parla mai di Impero Romano, ma di Impero greco -romano. I Romani trasformarono la Grecia in un protettorato nel 146 a.C., solo più di un secolo dopo divenne una provincia romana. Orazio scrisse che, conquistata la Grecia, i Romani ne vennero conquistati. Forse Veyne ha visto giusto.
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Purtroppo, già verso la fine del V secolo a.C. i nostri eroi, i cantastorie, avevano perduto la centralità di cui avevano goduto per mezzo millennio. La Prosa ormai aveva avuto la meglio sulla Poesia, il Teatro richiedeva stabilità d’impegno e professionalità. Non era più tempo di girovaghi.
I cantastorie, o, se volete, gli aedi e i rapsodi, la loro parte l’avevano fatta ed è impossibile stimare il debito che ha verso di loro la civiltà occidentale. Non che sparirono, continuarono a percorrere strade impervie, ad attraversare montagne, a costeggiare mari sconosciuti sempre alla ricerca di villaggi remoti, di donne, uomini, bambini cui donavano una tregua dalle fatiche della vita.
Le loro storie continuarono a salire per tutta Europa.
Io personalmente ne incontrai uno. Avrò avuto 9 o 10 anni e mi trovavo con i miei a Tolfa, uno splendido paesino di alta collina alle spalle di Civitavecchia; passeggiando notai un folto capannello di persone, che copriva la fonte della voce, forte e limpida, che si sentiva. Mi avvicinai e vidi un uomo, che mi sembrò molto anziano, ma forse non lo era poi tanto. Lo incontrassi oggi mi sembrerebbe un giovanotto. Aveva la barba lunga, sembrava che avesse con sé tutta la sua casa.
Suonava una chitarra, che chitarra non era, cantava una storia, che non ricordo, ricordo, invece, la sua voce ritmata, che seguiva quella che mi sembrò una tonalità rituale.
Sono felice che queste righe abbiano tratto dalla mia memoria, come il secchio trae l’acqua dal pozzo, questo meraviglioso ricordo.
Ora, però, è tempo di fare un salto vertiginoso nel tempo, più o meno 2000 anni, che ne dite?
EZIO CALDERAI (CONTINUA)
Grazie Ezio, che tutto ciò che hai narrato non vada perduto.
Con stima, Paola.
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Uno straordinario cantastorie dei nostri tempi è Mimmo Cuticchio che nel suo teatro a Palermo fa rivivere le gesta dei paladini e di Carlo Magno
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